Lapo Berti e Marcello Messori – IL LIBERALISMO E GLI ECONOMISTI ITALIANI

1. Il liberismo come problema terminologico? Fra le lingue più diffuse nel mondo, quella italiana è la sola a contemplare la distinzione fra “liberalismo” e “liberismo”. Per esempio, l’Enciclopedia Treccani definisce il primo termine come un “movimento di pensiero e di azione politica, che riconosce all’individuo un valore autonomo e tende a limitare l’azione statale in base a una costante distinzione di pubblico e di privato”, e il secondo termine come un “sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività che non possono essere soddisfatti per iniziativa dei singoli […]”. Questa duplice definizione, che identifica il liberalismo con una concezione filosofico-politica e riserva al liberismo il campo dell’economia, non è un semplice curiosum. Al di là degli intenti che l’hanno generata, essa testimonia di quella separazione meccanica fra liberalismo politico e liberalismo economico che sta alla base della riflessione dei liberali italiani e che ha agevolato il travisamento della dottrina liberale classica da parte dei nostri economisti (cfr. sotto, par. 5 e 6). A sua volta, tale separazione è stata innescata dall’assenza in Italia di un’esperienza politicamente significativa di liberalismo,

Continua

Laura Paoletti – IL MOMENTO DI OSARE

(editoriale di Paradoxa 4/2010) Qualche numero fa, nell’introdurre la riflessione sul rapporto tra capitale e cultura (Paradoxa 1/2009), ci chiedevamo se trattare di argomenti simili in tempi di crisi economica non avrebbe fatto lo stesso effetto dell’infelice battuta attribuita a Maria Antonietta: il popolo ha fame e, invece che al pane, si pensa alle brioches. Scegliemmo di correre il rischio. Non potevamo immaginare, allora, che la questione della commestibilità e dello scarso valore nutritivo della cultura sarebbe divenuta il Leitmotiv dell’acceso dibattito in corso sulla legittimità dei drastici tagli al comparto culturale: dibattito non propriamente esaltante, per la verità, che in certe sue approssimazioni (e talvolta cecità) nei confronti di quale sia davvero l’oggetto in discussione conferma l’opportunità della scelta di allora. L’intuizione che fosse produttivo lavorare su una definizione teorica più precisa di ciò che provvisoriamente chiamavamo “il capitale cultura” si è venuta nel frattempo irrobustendo in un progetto strutturato, del quale i contributi e gli studi presentati in questo numero rappresentano una prima tappa. Non presentiamo risultati definitivi, ma una direzione di ricerca e alcune ipotesi di lavoro che richiedono ora un confronto più ampio, non soltanto nel senso dell’allargamento delle competenze disciplinari (che pure è indispensabile), ma

Continua

Paolo Blasi – LE FONDAZIONI BANCARIE: VINCOLI E OPPORTUNITA’ NELLE ALLOCAZIONI DEI FONDI

(estratto da Paradoxa 4/2010) Le fondazioni bancarie italiane sono nate venti anni fa con la legge delega 218 del 30 luglio 1990 detta “legge Amato”. In sostanza tale legge prevedeva per le banche del Monte e le Casse di Risparmio la separazione dell’attività creditizia da quella filantropica. In effetti tali banche, sorte per lo più nei primi dell’Ottocento, avevano una forte connotazione solidaristica e di tutela delle comunità locali nella fase critica di passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale. Con la legge Amato l’attività creditizia viene attribuita alle Casse di Risparmio Spa che diventano a tutti gli effetti società profit, commerciali, private, disciplinate dal Codice Civile e dalle norme in materia bancaria come il testo unico della Finanza. Mentre le neonate fondazioni diventano per decreto pubblico istituzioni private no profit e assumono l’essenza autentica delle Casse da cui originano, in particolare per le finalità di sviluppo sociale, culturale, civile ed economico delle comunità locali che avevano a suo tempo generato le Casse di Risparmio. Là dove le Casse erano nate come società anonime con conferimenti patrimoniali di singoli privati cittadini, l’assemblea dei soci rimane assemblea della fondazione che ha quindi origine e natura associativa; là dove invece le Casse

Continua

Vittorio Possenti – PERSONALISMO E FINE DELLA VITA

(Estratto da Paradoxa 4/2009) 1. Nelle accese discussioni che punteggiano il cammino della legge sulla “fine della vita”, è in gioco in primo luogo la persona, la sua dignità, l’idea che ne formiamo. Una buona legge non deve far tutti contenti – cosa auspicabile ma difficile – piuttosto deve possedere solide basi antropologiche e morali e capacità di largo abbracciamento, cercando punti di intesa sin dove possibile e senza andar contro basi riconosciute e diritti/doveri certi. Una buona legge ha dunque bisogno di un retroterra di “evidenze antropologiche”, e di mantenersi nel quadro dei diritti e doveri costituzionalmente stabiliti. Si tratta infatti di una legge dello Stato, che non deve violare la sfera della coscienza, ma cercare un saggio bilanciamento tra i criteri dell’autodeterminazione e della tutela della vita umana. Esso diviene impossibile se i due criteri sono intesi come assoluti: tra l’assolutezza dell’autodeterminazione e l’assolutezza dell’indisponibilità della propria vita non vi è possibilità di intesa. Per questi motivi appare necessario un nuovo sforzo di riflessione personalista. 2. Il personalismo è oggi sulla bocca di molti e numerosi sono i pensatori personalisti, in specie nell’area cattolica. Di ciò ci si deve rallegrare, anzi un inveterato personalista come me si sente

Continua

Laura Paoletti – DAI BENI CULTURALI AL CAPITALE IMMATERIALE

(editoriale di Paradoxa 1/2009) Esiste oggi in Italia una vera politica culturale? E se esiste chi se ne fa carico? In un momento come l’attuale, a fronte dell’agenda imposta dalla dilagante crisi economica con i suoi drammatici effetti, mettere a tema il destino delle fondazioni culturali e il loro possibile rapporto con le fondazioni bancarie – come Paradoxa fa – rischia di apparire surreale come il suggerimento di Maria Antonietta di saziare con le brioches il popolo affamato. E, tuttavia, la riflessione che Nova Spes ha inteso avviare con i partner coinvolti, non è un lusso a cui dedicare il tempo libero, il tempo che resta una volta che i problemi seri siano risolti. Partiamo da un dato, tanto universalmente denunciato, quanto ignorato nella sostanza: l’Italia soffre di una profonda crisi culturale che investe livelli e funzioni diversi nella società; una crisi di valori accomunanti, di contesti formativi, di capacità di innovazione e di progettualità politica. Una crisi, a conti fatti, tutt’altro che indolore: anche in termini economici. Ma non ci si aspetti di trovare qui un cahier de doléances. Nelle pagine che seguiranno la nota dominante, quella che amalgama le prospettive, anche molto eterogenee, che vengono qui alla parola

Continua

Stefano Zamagni – FONDAZIONI CULTURALI E CAPITALE CIVILE

(estratto da Paradoxa 1/2009) È oggi ampiamente riconosciuto, anche se ancora non da tutti, che lo sviluppo economico moderno, e più in generale il progresso delle nostre società, più che il risultato dell’adozione di più efficaci incentivi odi più adeguati assetti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura. È accertato che l’idea per la quale incentivi e istituzioni efficienti generano risultati positivi a prescindere dalla matrice culturale è destituita di fondamento, dal momento che non sono gli incentivi di per sé, mail modo in cui i soggetti li percepiscono (e ad essi reagiscono) a fare la differenza. E i modi di reazione dipendono proprio dalla specificità della cultura, la quale è connotata dalle tradizioni, dalle norme sociali di comporta-mento, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. È noto che valori e disposizioni quali la propensione al rischio, l’atteggiamento nei confronti del lavoro, la tendenza a fidarsi degli altri, l’idea di uguaglianza, la prevalenza del principio della colpa rispetto a quello della vergogna, ecc., sono fortemente connessi alle peculiarità culturali prevalenti in un determinato contesto spazio-temporale. L’economia di mercato di tipo capitalistico, al pari di altri modelli di ordine sociale, ha bisogno per la sua continua riproduzione di

Continua

Stefano De Luca – LA DESTRA VISTA DA DESTRA intervista a Alessandro Campi e Luigi Compagna

(estratto da Paradoxa 3/2008) Nell’imminenza delle elezioni politiche del 2008 il quadro politico italiano si è scomposto e riaggregato, riducendo la sua storica frammentazione. Gli elettori si sono poi incaricati di semplificare ulteriormente tale quadro, eleggendo un parlamento che – per la prima volta nella storia repubblicana – ha un assetto quasi bipartitico. Lei pensa che sia infine giunto a maturazione il processo avviatosi nel 1994? E qual è, nel nuovo quadro politico, il ruolo del centrodestra? CAMPI – Le elezioni del 2008 hanno rappresentato, secondo molti osservatori, un punto di svolta. Non solo per la drastica riduzione del quadro politico-parlamentare prodotta dal voto popolare, ma anche per alcuni degli effetti per così dire “secondari” determinati da quest’ultimo: la scomparsa della sinistra antagonista dai luoghi della rappresentanza politica istituzionale, il fallimento fatto registrare alle urne dalla destra radicale e nostalgica, la cancellazione dei socialisti, il ruolo di opposizione ad un governo di centrodestra nel quale si è trovata confinata l’Udc di Casini per un grave errore di calcolo politico commesso da quest’ultimo. Ma ad essere cambiata radicalmente non è stata solo la geografia parlamentare: anche quella politico-culturale ha subìto una trasformazione profonda e per molti versi irreversibile. La vera novità

Continua

Giuseppe Parlato – LA POLITICA. UNA PRASSI SENZ’ANIMA?

(Editoriale di Paradoxa 3/2008) Questo fascicolo di “Paradoxa” affronta un tema tanto attuale quanto, per certi versi, scontato. Tuttavia ci è parso opportuno dedicare a questa dicotomia storica – destra/sinistra – una riflessione non già nella presunzione di potere risolvere alcuno dei tanti problemi politici e filosofici che questo tema porta inevitabilmente con sé, quanto per fare il punto del tema, come si dice, alla luce di numerosi e significativi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. D’altra parte, non sarà un caso se proprio nel momento in cui gli italiani sono chiamati a scegliere il proprio governo dovendo optare tra una coalizione di centro destra e un’altra di centro sinistra, la riflessione sulle categorie di destra e sinistra ha prodotto numerosi contributi di notevole livello. Il tema, non a caso, si è prestato a diversi livelli di lettura. La lettura, per intenderci, più “ideologica”, che è stata propria fino agli anni Settanta e che vede nella inconciliabilità dei due termini due opposte visioni del mondo; quella più “antropologica” che invece è stata affrontata negli anni successivi alla crisi delle ideologie, e che comunque teneva ben presenti gli schemi di riferimento tra i due termini: comportamenti diversi, magari non strettamente ideologici, ma

Continua

Danilo Breschi – BEN PRIMA DELLA GUERRA FREDDA, BEN DOPO L’11 SETTEMBRE: USA-EUROPA, AMICI-NEMICI

Lo studio delle relazioni internazionali rischia sovente di cadere nel profetismo, sia esso di segno negativo, quando non apocalittico, oppure di segno positivo, se non iperottimistico. In ogni caso, l’analisi geopolitica scivola con troppa facilità nel grande racconto teleologico e totalizzante ogni volta si intenda tracciare scenari che abbraccino ampie sfere del pianeta, se non il globo intero. Sugli Stati Uniti l’esercizio profetico si ripete con cadenza regolare. Raramente un simile esercizio è stato effettuato in chiave ottimistica, e sostanzialmente il periodo in cui questo è fortunosamente avvenuto è da circoscrivere ai primi anni Novanta, ossia all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Si pensi a certe pagine della celebre opera di Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), il quale non era comunque privo di preoccupazioni circa il futuro, oppure al quasi coevo Alfredo G.A. Valladão, e alla sua perentoria affermazione secondo cui Il XXI secolo sarà americano (1993). Assai più frequente il ricorso alla profezia apocalittica, o almeno all’annuncio dell’avvento di tempi cupi, di epoche di decadenza. Ed ecco allora che si parla in modo implicito di Ascesa e declino delle grandi potenze (Paul Kennedy, 1988) oppure, più esplicitamente, di Fine dell’era americana (Charles A. Kupchan,

Continua

Francesco D’Agostino – L’INTERLOCUZIONE CONTINUA…

Amici nella verità, nemici nell’opinione, soleva dire Lévinas. Penso che questa –che è più che una battuta- possa applicarsi ai miei amichevolissimi rapporti con Carmelo Vigna. Al quale mi lega, oltre che un affetto personale profondo (il che dovrebbe essere di ben poco interesse per chi mi legge) un’ammirazione teoretica sincera (che sento il dovere di proclamare pubblicamente). Sta di fatto, però, che inoltrandosi per gli impervi sentieri di quella che egli chiama una bioetica democratica Vigna mi sembra che corra il rischio di perdersi. Se questi sentieri siano o no simili agli heideggeriani Holzwege saranno altri a giudicarlo. A me preme soltanto –e già so che a questo punto Vigna comincerà a ritenere che i miei toni stiano tornando ad essere troppo “perentori”- aiutarlo a ritrovare la “retta via”, quella che si sostanzia sì in un sincero impegno per la bioetica, ma per una bioetica priva di aggettivi: né di destra, né di sinistra, né cattolica, né laica, né autoritaria né (soprattutto!) “democratica” (in quanto affidata ad un “Partito democratico”). Questa bioetica, senza aggettivi, è quella che ho sempre cercato di fare; una bioetica che non parte da “principi inflessibili” (credo di non aver mai fatto riferimento nelle mie

Continua