Francesco D’Agostino – CITTADINANZA

(estratto da Paradoxa 2/2012) Parafrasando una battuta (atto II, quadro I) del libretto del Flauto Magico, che tanta ammirazione destava in Goethe, potremmo rispondere a chi si chiedesse se Tamino sia o no un cittadino: noch mehr! Er ist ein Mensch! E cioè: ben di più! È un uomo! È evidente che dietro il testo di Schikaneder si rivela il fascino tutto illuministico per il cosmopolitismo, ma è anche evidente, a mio avviso, qualcosa di più: l’insofferenza per qualsiasi denominazione che restringa il respiro dell’humanum, che dia all’identità dell’uomo limiti che le recano violenza, che neghi, insomma, il vecchio detto eracliteo, per quanto tu cammini, i confini dell’anima non li puoi toccare. Resta, con tutto ciò, fermo che quello della cittadinanza è indubbiamente un limite, che crea intenzionalmente una differenza: chi non è cittadino, chi non è mio concittadino, non è propriamente come me. Come può essere giusta una categoria che introduce una differenza dotata di tale radicalità? Eppure dell’idea della cittadinanza, di una idea della cittadinanza, quale che poi possa essere la sua concreta determinazione, sembra che proprio non se ne possa fare a meno. La vediamo emergere nei contesti in cui meno ci aspetteremmo di trovarla. Nella lettera

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Lapo Berti e Marcello Messori – IL LIBERALISMO E GLI ECONOMISTI ITALIANI

1. Il liberismo come problema terminologico? Fra le lingue più diffuse nel mondo, quella italiana è la sola a contemplare la distinzione fra “liberalismo” e “liberismo”. Per esempio, l’Enciclopedia Treccani definisce il primo termine come un “movimento di pensiero e di azione politica, che riconosce all’individuo un valore autonomo e tende a limitare l’azione statale in base a una costante distinzione di pubblico e di privato”, e il secondo termine come un “sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività che non possono essere soddisfatti per iniziativa dei singoli […]”. Questa duplice definizione, che identifica il liberalismo con una concezione filosofico-politica e riserva al liberismo il campo dell’economia, non è un semplice curiosum. Al di là degli intenti che l’hanno generata, essa testimonia di quella separazione meccanica fra liberalismo politico e liberalismo economico che sta alla base della riflessione dei liberali italiani e che ha agevolato il travisamento della dottrina liberale classica da parte dei nostri economisti (cfr. sotto, par. 5 e 6). A sua volta, tale separazione è stata innescata dall’assenza in Italia di un’esperienza politicamente significativa di liberalismo,

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Pavel Rebernik – LA MORTE COME APERTURA DI SENSO. THE BUCKET LIST DI ROB REINER (2007)

(estratto da Paradoxa 3/2011) Edward Perriman Cole è morto in maggio Era domenica, di pomeriggio e nel cielo non c’era una nuvola È difficile capire il valore della vita di una persona C’è chi dice che viene misurato da quelli che gli sopravvivono Qualcuno crede che si possa misurare nella fede Qualcuno dice nell’amore Altri dicono che la vita non ha proprio senso Io? Io penso che uno misura se stesso in base alle persone che si sono misurate su di lui Con queste parole si apre il film di Rob Reiner, The Bucket List («La lista del capolinea» o «La lista in vista della fine», reso in italiano con «Non è mai troppo tardi»). Repentinamente e senza mezzi termini esse pongono al centro dell’attenzione l’invito a cogliere l’attualità e la necessità di una riflessione su ciò che costituisce il problema filosofico per eccellenza: l’esistenza dell’uomo e la sua vibrante domanda di senso. Il tema della morte, che dona ritmo al film, consente a sua volta di articolare la domanda in tre direzioni: 1) ricerca di senso: nel mondo, nell’uomo, in Dio; 2) assenza di senso: ateismo; 3) morte di senso: nihilismo. Le parole di apertura sono quelle del narratore,

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Redazione Paradoxa – MISURARE IL VALORE AGGIUNTO CULTURALE

Il 16 febbraio, presso la sede della Fondazione Nova Spes, si è svolto il seminario dal titolo “Misurare il valore aggiunto culturale”. Hanno partecipato: Stefano Bancalari (Fondazione Nova Spes), Luigi Cappugi (Fondazione Nova Spes), Pellegrino Capaldo (Associazione Amici Sturzo), Maurizio Carrara (Unicredit Foundation), Caterina Cittadino (Fondazione Astrid), Melina Decaro (Fondazione Adriano Olivetti), Antonio Fazio (Fondazione Generali), Stefania Mancini (Fondazione Charlemagne, Assifero), Laura Paoletti (Fondazione Nova Spes), Laura Pizei (Fondazione Craxi), Stefano Semplici (Fondazione Nova Spes), Pierluigi Valenza (Fondazione Nova Spes), Stefano Zamagni (Fondazione Nova Spes). Il PIL è un parametro d’osservazione fondamentale del livello di produttività di un Paese e, per quanto se ne possano evidenziare difetti e manchevolezze, nessuno oggi oserebbe ignorarlo o negare la realtà economica che esso rappresenta. Eppure, ha ricordato Stefano ZAMAGNI nella sua relazione introduttiva, non è sempre stato così: prima degli anni Venti l’indice PIL non esisteva; ed è stato costruito in funzione di necessità specifiche, conseguenti alla situazione venutasi a creare dopo la Prima Guerra Mondiale (in particolare per rimarcare la superiorità dello sviluppo economico dei Paesi capitalisti su quello dell’Unione Sovietica). L’esempio intende rendere lampante che persino nella più oggettiva delle misurazioni, si nasconde un elemento marcatamente soggettivo, che non inficia affatto

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Laura Paoletti – IL MOMENTO DI OSARE

(editoriale di Paradoxa 4/2010) Qualche numero fa, nell’introdurre la riflessione sul rapporto tra capitale e cultura (Paradoxa 1/2009), ci chiedevamo se trattare di argomenti simili in tempi di crisi economica non avrebbe fatto lo stesso effetto dell’infelice battuta attribuita a Maria Antonietta: il popolo ha fame e, invece che al pane, si pensa alle brioches. Scegliemmo di correre il rischio. Non potevamo immaginare, allora, che la questione della commestibilità e dello scarso valore nutritivo della cultura sarebbe divenuta il Leitmotiv dell’acceso dibattito in corso sulla legittimità dei drastici tagli al comparto culturale: dibattito non propriamente esaltante, per la verità, che in certe sue approssimazioni (e talvolta cecità) nei confronti di quale sia davvero l’oggetto in discussione conferma l’opportunità della scelta di allora. L’intuizione che fosse produttivo lavorare su una definizione teorica più precisa di ciò che provvisoriamente chiamavamo “il capitale cultura” si è venuta nel frattempo irrobustendo in un progetto strutturato, del quale i contributi e gli studi presentati in questo numero rappresentano una prima tappa. Non presentiamo risultati definitivi, ma una direzione di ricerca e alcune ipotesi di lavoro che richiedono ora un confronto più ampio, non soltanto nel senso dell’allargamento delle competenze disciplinari (che pure è indispensabile), ma

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Paolo Blasi – LE FONDAZIONI BANCARIE: VINCOLI E OPPORTUNITA’ NELLE ALLOCAZIONI DEI FONDI

(estratto da Paradoxa 4/2010) Le fondazioni bancarie italiane sono nate venti anni fa con la legge delega 218 del 30 luglio 1990 detta “legge Amato”. In sostanza tale legge prevedeva per le banche del Monte e le Casse di Risparmio la separazione dell’attività creditizia da quella filantropica. In effetti tali banche, sorte per lo più nei primi dell’Ottocento, avevano una forte connotazione solidaristica e di tutela delle comunità locali nella fase critica di passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale. Con la legge Amato l’attività creditizia viene attribuita alle Casse di Risparmio Spa che diventano a tutti gli effetti società profit, commerciali, private, disciplinate dal Codice Civile e dalle norme in materia bancaria come il testo unico della Finanza. Mentre le neonate fondazioni diventano per decreto pubblico istituzioni private no profit e assumono l’essenza autentica delle Casse da cui originano, in particolare per le finalità di sviluppo sociale, culturale, civile ed economico delle comunità locali che avevano a suo tempo generato le Casse di Risparmio. Là dove le Casse erano nate come società anonime con conferimenti patrimoniali di singoli privati cittadini, l’assemblea dei soci rimane assemblea della fondazione che ha quindi origine e natura associativa; là dove invece le Casse

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Vittorio Possenti – PERSONALISMO E FINE DELLA VITA

(Estratto da Paradoxa 4/2009) 1. Nelle accese discussioni che punteggiano il cammino della legge sulla “fine della vita”, è in gioco in primo luogo la persona, la sua dignità, l’idea che ne formiamo. Una buona legge non deve far tutti contenti – cosa auspicabile ma difficile – piuttosto deve possedere solide basi antropologiche e morali e capacità di largo abbracciamento, cercando punti di intesa sin dove possibile e senza andar contro basi riconosciute e diritti/doveri certi. Una buona legge ha dunque bisogno di un retroterra di “evidenze antropologiche”, e di mantenersi nel quadro dei diritti e doveri costituzionalmente stabiliti. Si tratta infatti di una legge dello Stato, che non deve violare la sfera della coscienza, ma cercare un saggio bilanciamento tra i criteri dell’autodeterminazione e della tutela della vita umana. Esso diviene impossibile se i due criteri sono intesi come assoluti: tra l’assolutezza dell’autodeterminazione e l’assolutezza dell’indisponibilità della propria vita non vi è possibilità di intesa. Per questi motivi appare necessario un nuovo sforzo di riflessione personalista. 2. Il personalismo è oggi sulla bocca di molti e numerosi sono i pensatori personalisti, in specie nell’area cattolica. Di ciò ci si deve rallegrare, anzi un inveterato personalista come me si sente

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Chiara Prele – FONDAZIONI CULTURALI E FONDAZIONI DI ORIGINE BANCARIA: BREVI NOTE

L’universo fondazionale italiano è oggi estremamente ampio e variegato. L’evoluzione della fondazione è iniziata intorno agli anni Settanta, con una attenzione della società civile verso temi di tradizionale competenza del settore pubblico. Quest’ultimo ha mostrato interesse verso il fenomeno, specie in un momento di crisi del welfare state. Le fondazioni sono dunque aumentate vistosamente di numero, si configurano maggiormente come fondazioni operative che come fondazioni di erogazione, operano in diversi campi (culturale, scientifico, di ricerca, assistenziale, etc.); esse presentano, inoltre, differenze tra di esse. Questa evoluzione è stata resa possibile dalla presenza di una disciplina, contenuta nel titolo II del libro primo del codice civile, molto scarna e che ha subito successivi interventi abrogativi da parte del legislatore; gli statuti delle singole fondazioni hanno quindi  potuto colmare le lacune, inserendosi nelle maglie di una disciplina a trama larga. La fondazione è stata utilizzata dallo Stato e anche da altri enti territoriali, quali le Regioni. Lo Stato ha trasformato in fondazione enti pubblici; il fenomeno si è verificato prevalentemente in campo culturale (l’esempio paradigmatico è costituito dalla trasformazione in fondazione degli enti lirici, con decreto legislativo n. 367/1996), prevalentemente allo scopo di attrarre risorse private che colmassero l’insufficienza delle risorse statali. Inoltre,

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Laura Paoletti – DAI BENI CULTURALI AL CAPITALE IMMATERIALE

(editoriale di Paradoxa 1/2009) Esiste oggi in Italia una vera politica culturale? E se esiste chi se ne fa carico? In un momento come l’attuale, a fronte dell’agenda imposta dalla dilagante crisi economica con i suoi drammatici effetti, mettere a tema il destino delle fondazioni culturali e il loro possibile rapporto con le fondazioni bancarie – come Paradoxa fa – rischia di apparire surreale come il suggerimento di Maria Antonietta di saziare con le brioches il popolo affamato. E, tuttavia, la riflessione che Nova Spes ha inteso avviare con i partner coinvolti, non è un lusso a cui dedicare il tempo libero, il tempo che resta una volta che i problemi seri siano risolti. Partiamo da un dato, tanto universalmente denunciato, quanto ignorato nella sostanza: l’Italia soffre di una profonda crisi culturale che investe livelli e funzioni diversi nella società; una crisi di valori accomunanti, di contesti formativi, di capacità di innovazione e di progettualità politica. Una crisi, a conti fatti, tutt’altro che indolore: anche in termini economici. Ma non ci si aspetti di trovare qui un cahier de doléances. Nelle pagine che seguiranno la nota dominante, quella che amalgama le prospettive, anche molto eterogenee, che vengono qui alla parola

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Stefano Zamagni – FONDAZIONI CULTURALI E CAPITALE CIVILE

(estratto da Paradoxa 1/2009) È oggi ampiamente riconosciuto, anche se ancora non da tutti, che lo sviluppo economico moderno, e più in generale il progresso delle nostre società, più che il risultato dell’adozione di più efficaci incentivi odi più adeguati assetti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura. È accertato che l’idea per la quale incentivi e istituzioni efficienti generano risultati positivi a prescindere dalla matrice culturale è destituita di fondamento, dal momento che non sono gli incentivi di per sé, mail modo in cui i soggetti li percepiscono (e ad essi reagiscono) a fare la differenza. E i modi di reazione dipendono proprio dalla specificità della cultura, la quale è connotata dalle tradizioni, dalle norme sociali di comporta-mento, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. È noto che valori e disposizioni quali la propensione al rischio, l’atteggiamento nei confronti del lavoro, la tendenza a fidarsi degli altri, l’idea di uguaglianza, la prevalenza del principio della colpa rispetto a quello della vergogna, ecc., sono fortemente connessi alle peculiarità culturali prevalenti in un determinato contesto spazio-temporale. L’economia di mercato di tipo capitalistico, al pari di altri modelli di ordine sociale, ha bisogno per la sua continua riproduzione di

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