Carlo Galli – Tradizione. Quale identità per la destra italiana?

(Estratto da Paradoxa 1/2022) Non solo di tradizione vive la destra: ci sono molte destre, alcune delle quali sono o sono state anti-tradizionaliste (il futurismo) e a-tradizionaliste (le destre economiche). E, per di più, ci sono molte tradizioni: il legittimismo dinastico, l’ortodossia religiosa, la gloria militare, la continuità storica nazionale, l’assetto gerarchico della società. Per non parlare delle accezioni esoteriche del termine ’tradizione’, che a destra sono a lungo circolate. Se ’tradizione’ è un traditum, materiale e spirituale, ossia un complesso di pensieri e di azioni, di narrazioni e di riti, di valori e di memorie condivise, che vincola chi lo riceve non meno di chi lo tramanda, e che contribuisce a formare un’identità, una continuità e una consapevolezza storica, meno facile è definire ’destra’. A tale scopo si deve iniziare a chiarire che – come ho sostenuto nel mio libro Perché ancora destra e sinistra – le destre sono caratterizzate dalla percezione che l’ordine politico sia minacciato dal disordine e da chi lo fomenta; il che conferisce loro, volenti o nolenti, una postura dinamica e spesso aggressiva. Questa percezione di minaccia è la vera essenza della destra, che non può fare a meno del conflitto (nel caso della destra

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Dino Cofrancesco e Laura Paoletti – IL PATRIMONIO DELLA DESTRA: NASCONDERE CON CURA

(Editoriale di Paradoxa 1/2022) Il nostro non è solo il paese in cui fioriscono i limoni, come si legge nel Wilhelm Meister: ancora più imponente è la produzione delle retoriche e dei luoghi comuni in tutte le stagioni della nostra storia nazionale. Tra i topoi più diffusi c’è quello che ‘la destra non ha cultura’, che gli elettori dei suoi partiti non leggono o leggono poco (e certo non li si incontra spesso nelle Librerie Feltrinelli), che il suo rapporto con gli intellettuali è inesistente se non conflittuale. Come in tutte le frasi fatte – a cominciare da quella che ‘non esistono più le mezze stagioni’ –anche in questa c’è del vero. Basta guardare le terze pagine dei quotidiani del centro-destra – alle quali a qualcuna delle voci qui raccolte capita di collaborare – per rendersi conto del difficile rapporto di quest’area politica con la cultura. (Sono finiti i tempi in cui «Il Giornale» di Montanelli era divenuto il punto di ritrovo di tutta l’intellighenzia liberale italiana, conservatrice o non: da Renzo De Felice a Rosario Romeo, da Domenico Settembrini a Giuseppe Are, da Nicola Matteucci a Vittorio Mathieu, per non parlare degli stranieri come Raymond Aron e François Fejto.)

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