Laura Paoletti – SPAZI CURVI

(Editoriale di Paradoxa 2/2023) Il modo in cui, per lo più, ci si rappresenta l’azione di una forza nello spazio è ancora largamente debitore del paradigma newtoniano. La forza di gravità terrestre, per esempio, viene immaginata come quella capacità del nostro pianeta di agire a distanza su corpi di massa significativamente più piccola, attirandoli a sé senza toccarli: in questo tipo di rappresentazione, lo spazio ha il ruolo di una semplice cornice, sostanzialmente indifferente ai drammi delle prove di forza che si svolgono al suo interno. Per quanto intuitivo e apparentemente ovvio, questo modello è obsoleto e la fisica contemporanea lo ha sostituito con quello relativistico che, secondo l’icastica formulazione del celebre fisico John Archibald Wheeler, può essere sintetizzato così: «Lo spazio-tempo dice alla materia come muoversi, la materia dice allo spazio-tempo come curvarsi» (Geons, Black Holes and Quantum Foam, 2000, p. 235). Secondo quest’altra prospettiva, la gravità non è una misteriosa azione a distanza che un corpo esercita su un altro, ma una curvatura dello spazio, il quale si piega, come fa un lenzuolo teso sotto il peso di un grave, col risultato che il corpo più piccolo scivola verso quello più grande per il semplice motivo che è

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Paradoxa, Anno XVII – Numero 2 – Aprile/Giugno 2023

I nuovi equilibri geopolitici a cura di Emidio Diodato Lo specifico del «paradigma geopolitico» consiste nel complicare l’idea che lo spazio sia il semplice scenario, politicamente indifferente, di forze e conflitti che si dispiegano secondo leggi del tutto autonome e che si riflettono poi in una certa configurazione di confini e suddivisioni territoriali, che lo spazio si limita a subire. Non che la geografia non sia anche il risultato della politica: è la politica che dà senso allo spazio e non viceversa. Ma lo spazio non è solo un ricettacolo passivo, come emerge già solo dal fatto che ‘senso’ è un concetto in sé strutturalmente spaziale, per cui avere un senso significa essere orientato in una certa direzione. Il punto della geopolitica è che lo spazio geografico nudo e crudo, quello brutalmente materiale, scabro, mai del tutto riassumibile nella levigatezza delle forme geometriche con cui si prova a rappresentarlo, ‘curva’ qualsiasi azione abbia luogo (appunto) sul piano della politica internazionale, perché contribuisce in modo determinante a suggerirla, legittimarla, agevolarla o ostacolarla. Chi voglia parlare o scrivere di crisi dell’Occidente (e sono in molti) ha l’obbligo di definire con ragionevole precisione che cosa significa ‘crisi’ e che cosa è l’Occidente. Questo

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Laura Paoletti – IDENTIKIT DELL’OCCIDENTE

(Editoriale di Paradoxa 1/2023) Quando si scatta una foto o si mette mano a un ritratto è opportuno, normalmente, che il soggetto non si muova, per evitare che l’immagine risulti sfocata. In queste pagine accade esattamente il contrario: la messa a fuoco dell’Occidente è il risultato della rinuncia metodologica ad immobilizzarlo in una qualche rigida definizione identitaria, così che, come in un volto, la libertà di movimento delle sue espressioni più caratteristiche possa lasciarne affiorare l’inconfondibile fisionomia complessiva. Certo, qualche definizione qua e là compare, come quella proposta in avvio dal Curatore, per cui l’occidente è una «combinazione giudiziosa di geografia e storia, politica democratica, valore della persona» (p. 15). Ma, in questo come in altri casi, il lettore è giudiziosamente avvertito del fatto che si tratta comunque di formulazioni orientative, operative, provvisorie, necessariamente manchevoli di questo o quell’elemento essenziale: e questa strutturale resistenza alla definitività segnala una costitutiva incompiutezza, che non è affatto – su questo gli autori sono compattamente schierati – un segno di crisi o di declino, ma è anzi un motivo d’orgoglio, che va pensato, articolato, rivendicato. Il punto è che l’Occidente non è un dato di fatto, semmai – per dirla con i termini di

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Laura Paoletti – NOI E/O LORO

(Editoriale di Paradoxa 4/2022) C’era una volta, molti anni fa, un momento preciso della giornata – per l’esattezza le 23.30 in punto – in cui l’Italia tutta si ritrovava affratellata da un sottile senso di angoscia: era quando, sullo sfondo di un cielo nuvoloso e col sottofondo mesto e solenne delle Armonie del pianeta Saturno di Roberto Lupi, lo schermo televisivo mostrava il lento movimento di un traliccio che preludeva alla comparsa della fatidica scritta: «Fine delle trasmissioni». Lo stop alla comunicazione era unilaterale e irrevocabile: da quel momento, fino al giorno successivo, la televisione non aveva più niente da dire o da offrire, e non c’erano alternative. La resa dell’utente era inevitabile. Il sottotitolo di questo fascicolo evoca del tutto consapevolmente quello stesso senso di smarrimento, appena attutito da un punto di domanda, che si prova quando si è, come si dice, piantati in asso; e lo fa selezionando subito su base anagrafica la comunità in grado di cogliere l’allusione preistorica: una comunità che si raccoglie attorno allo sgomento provocato dall’eventualità, sentita come nient’affatto remota, che si interrompa la trasmissione nel senso più radicale del termine, quello del tramandamento, della tradizione, di quel passaggio di consegne tra generazioni, senza

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Laura Paoletti – COME IN UNO SPECCHIO

Poiché ora vediamo come in uno specchio […] ma allora vedremo faccia a faccia (1 Cor 13, 12) (Editoriale di Paradoxa 3/2022) Potrebbe sembrare una battaglia di retroguardia: strappare un fazzoletto di spazio al paradigma epistemologico dominante, in modo che questo, per gentile concessione, consenta alla riserva indiana delle humanities o scienze umane (lingua e lessico, si sa, sono imposti dai vincitori) di sopravvivere ancora per un po’; purché, certo, si conformino a criteri di valutazione e di ripartizione dei finanziamenti del tutto esogeni e funzionali a far risaltare la loro irrilevanza e inutilità. In realtà, come il lettore potrà cogliere fin dalle prime pagine, la domanda guida di questo fascicolo rivela un tratto decisamente ironico, perché l’ambizione di fondo non è certo quella (perdente in partenza) di dimostrare che forse, a ben guardare e con tutte le cautele del caso, un piccolo spazio per le discipline umanistiche ancora si può salvaguardare, ma quella di proporre riflessioni e argomenti che in definitiva puntano ad un ribaltamento dei presupposti stessi del paradigma tecnologico: i quali presupposti – questo il Leitmotiv dei contributi che seguono – tecnologici non sono. La messa a punto di alcuni strumenti concettuali fondamentali – come la distinzione

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Paradoxa, Anno XV – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2021

copertina piccola Paradoxa

  Il ridotto del Parlamento a cura di Pino Pisicchio   «Taglio»: questa la parola d’ordine lanciata dal Movimento 5 Stelle. Obiettivo: la riduzione del numero dei parlamentari. I rappresentanti delle due Camere, nel nome di una rinnovata credibilità istituzionale o del desiderio di interpretare il sentire comune, hanno quindi detto ‘sì’ alla riforma che ne riduceva il numero. Ma ridurre significa ‘sfrondare’ il superfluo o, semplicemente, ‘togliere’ un po’ di quel che c’è? Allo stato attuale delle cose, la riforma approvata solleva questioni problematiche: che funzioni ha un Parlamento ridotto rispetto al governo? Che conseguenze ci saranno per la forma-partito? Quali ripercussioni sulla legge elettorale? In generale, è in gioco una complessiva restrizione del campo d’azione del Parlamento. Una pericolosa riduzione della sua rappresentatività. Indice:

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Laura Paoletti – FILOSOFIA E PANDEMIA: CHI INSEGNA E CHI IMPARA

(Editoriale di Paradoxa 3/2021) Oltre che emergenza sanitaria la pandemia è stata anche una crisi di razionalità e ragionevolezza, di fronte alla quale la filosofia, che della ragione in genere dovrebbe essere il presidio, non ha dato il meglio di sé. Alcuni suoi rappresentanti, tra quelli, per altro, mediaticamente più esposti, hanno prodotto sintesi scintillanti, capaci di condensare problemi enormi in un paio di tesi suggestive e radicali, che hanno finito con il nobilitare le posizioni dei devoti del complotto e con l’irrobustire la convinzione di chi considera il filosofare una pratica inutile, nel migliore dei casi, dannosa, nel peggiore. C’è effettivamente qualcosa di enigmatico nella possibilità che il sapere e il talento filosofici si traducano in posizioni politiche che, se proprio non coincidono con, somigliano però davvero molto a quelle di chi con il rigore del pensiero ha scarsa dimestichezza: dalla dittatura sanitaria, al Covid come menzogna politico-mediatica, al carattere discriminatorio e liberticida del green pass non c’è tema fantasioso che non abbia trovato una sua risonanza in pensose riflessioni biopolitiche. E non vale cavarsela sminuendo la caratura filosofica dei pensatori in questione: ci sono troppi autorevolissimi precedenti – il caso Heidegger docet, ma si potrebbe risalire ben più indietro

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