Emidio Diodato – L’ILLUSIONE DI ESSERE FUORI DAL GLOBO

Un’Ucraina isolata dall’Occidente e sempre più politicamente subordinata alla Russia incoraggerebbe la scelta sconsiderata della Russia a favore del suo passato imperiale Zbigniew Brzezinski, Strategic Vision (Basic Book: New York, 2012, p. 150) (Estratto da Paradoxa 2/2023) È opinione diffusa che la guerra in Ucraina stia trasformando gli equilibri geopolitici. Più vago è cosa si debba intendere con equilibri geopolitici. Le teorie geopolitiche hanno avuto presa nelle dittature del primo Novecento e oggi trovano largo consenso solo nei circoli intellettuali dei regimi autoritari, come la Russia. Gli studi di geopolitica critica, tuttavia, mostrano che qualcosa che possiamo considerare geopolitico è sotteso anche alle visioni strategiche dei decisori politici o dei loro principali consiglieri nei regimi democratici, a partire dagli Stati Uniti. In un lungo telegramma inviato da Mosca nel 1946, il giovane diplomatico statunitense George F. Kennan scriveva che il governo di Washington avrebbe dovuto contenere l’espansionismo sovietico senza concessioni. La sua visione si basava sulla convinzione che non ci potesse essere un modus vivendi con l’Unione Sovietica a causa del fanatismo di una forza politica, il partito di Stalin, che poteva disporre «delle energie di uno dei più grandi popoli del mondo e delle risorse del più ricco territorio

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Federico Tomasello – DALLA FINE DELLA STORIA ALLA GUERRA CIVILE MOLECOLARE: SU ALCUNI PARADIGMI DI CONFLITTO DELL’ETÀ URBANA

(estratto da Paradoxa 2/2016) Le ipotesi qui presentate riprendono alcuni contenuti del testo pubblicato dall’autore, La violenza. Saggio sulle Frontiere del politico (Manifestolibri 2015)   Il compiersi a ritmi sempre crescenti di quella che nel 1970 Henri Lefebvre definiva Rivoluzione urbana fa oggi dell’urbanizzazione un tema rilevante per ogni dominio delle scienze umane, sociali e politiche. Gli studiosi parlano dell’avvento di una civiltà urbana, mentre nella comunità internazionale si fa uso del termine Urban age per designare il fatto che ben oltre metà del genere umano vive ormai in aree urbanizzate, e che questa porzione pare destinata a crescere esponenzialmente fino a raggiungere il 75% degli abitanti della Terra entro il 2050 (cfr. http://unhabitat.org). I geografi sono impegnati nello studio di processi che consentono di pensare come un unico spazio urbanizzato anche macroaree regionali per il livello di integrazione del loro sistema di infrastrutture, trasporti, organizzazione del lavoro, del commercio e dei servizi. Il generale accordo su una visione ‘urbano-centrica’ dell’attuale momento geostorico ha fatto perciò dell’urbanizzazione una sorta di archivio generale cui rubricare ogni discorso sullo sviluppo delle geografie umane, al punto che il mondo stesso viene rappresentato sovente attraverso metafore urbane, come un ‘metacittà’ avente il suo ‘centro’

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Danilo Breschi – BEN PRIMA DELLA GUERRA FREDDA, BEN DOPO L’11 SETTEMBRE: USA-EUROPA, AMICI-NEMICI

Lo studio delle relazioni internazionali rischia sovente di cadere nel profetismo, sia esso di segno negativo, quando non apocalittico, oppure di segno positivo, se non iperottimistico. In ogni caso, l’analisi geopolitica scivola con troppa facilità nel grande racconto teleologico e totalizzante ogni volta si intenda tracciare scenari che abbraccino ampie sfere del pianeta, se non il globo intero. Sugli Stati Uniti l’esercizio profetico si ripete con cadenza regolare. Raramente un simile esercizio è stato effettuato in chiave ottimistica, e sostanzialmente il periodo in cui questo è fortunosamente avvenuto è da circoscrivere ai primi anni Novanta, ossia all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Si pensi a certe pagine della celebre opera di Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), il quale non era comunque privo di preoccupazioni circa il futuro, oppure al quasi coevo Alfredo G.A. Valladão, e alla sua perentoria affermazione secondo cui Il XXI secolo sarà americano (1993). Assai più frequente il ricorso alla profezia apocalittica, o almeno all’annuncio dell’avvento di tempi cupi, di epoche di decadenza. Ed ecco allora che si parla in modo implicito di Ascesa e declino delle grandi potenze (Paul Kennedy, 1988) oppure, più esplicitamente, di Fine dell’era americana (Charles A. Kupchan,

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Massimo Leone – SEGNALI DI PAURA: FEAR IS THE MESSAGE

(estratto da Paradoxa 1/2008) 1. LA COMUNICAZIONE DEL RISCHIO COME OGGETTO DI UNA SEMIOTICA DELLA CULTURA. La comunicazione del rischio, la percezione del pericolo e la diffusione della paura sono fenomeni che, sempre più intrecciati nelle società globalizzate, spesso s’influenzano reciprocamente producendo effetti paradossali. Tali distorsioni possono essere analizzate da diversi punti di vista, ma è inevitabile che la riflessione s’imbatta, presto o tardi, in questioni che richiedono una competenza specifica nell’ambito dello studio dei linguaggi, dei sistemi di significazione e di comunicazione, delle loro interazioni e del modo in cui essi si articolano in relazione ai diversi contesti culturali. È evidente che la comunicazione del rischio sia oggetto di pertinenza di una semiotica della cultura; il modo in cui un individuo, un gruppo o un’istituzione segmenta il campo semantico della probabilità e dell’improbabilità degli eventi, li connota secondo una scala più o meno sfumata di pericolosità, costruisce attorno ad essi una serie di discorsi relativi alle loro cause probabili, alla loro descrizione, ai loro effetti possibili, ma soprattutto il modo in cui tali eventi diventano oggetto di un meta-linguaggio della prevenzione, indirizzato a un certo pubblico con determinati effetti persuasivi rispetto agli atteggiamenti da assumere, le precauzioni da prendere,

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Michael Cox – FROM THE COLD WAR TO THE WAR ON TERROR OR WHY THE TRANSATLANTIC RELATIONSHIP MAY NOT BE INEVITABLE

Introduction In a brilliant and original study on the state of the western alliance written in the early years of the 21st century (see Parsi 2005), Vittorio Parsi advanced the  unfashionable thesis against critics of the Alliance that however much the unity of the West may have been tested by the Bush administration’s decision to go to war against Iraq in 2003, in the end what united  Europeans and Americans would always trump that which divided them. A combination of shared values, overriding security needs, the logic of globalization, and last but not least,  European dependency on the United States in an international system that was bound to remain unipolar, effectively meant that the two were bound together for the foreseeable future. The ocean dividing the two might have seemed wide. Separation however was not an option. Nor according to Parsi was it in anybody’s interest for this to happen. Indeed, as he noted in an aside, it was high time for certain core groups to recognize that neither continent could flourish without the other’s support. Nor of course could the world as a whole. As he pointed out, friendship between Europe and the United States was just not an

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Tavola Rotonda – Parole e guerra

In occasione della pubblicazione del volume di Vittorio Mathieu Conflitto e narrazione. Omero, i mass media e il racconto della guerra. 19 dicembre 2006, Roma Palazzo Corsini – Accademia dei Lincei Conflitto e narrazione sono due realtà che si intrecciano su più livelli. Non ogni parola è strumento di dialogo, e non ogni conflitto è immediatamente sinonimo di guerra. Nell’epoca dei mass-media, in cui fatto e rappresentazione sono sempre più reciprocamente connessi, una riflessione sui vocaboli, sulle metafore, sui linguaggi che strutturano i conflitti appare ineludibile. Atti: Partecipanti: P. Boitani, A. Gaston, M. Maggioni, V. E. Parsi, P. Valenza.

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Convegno – Conflitto e immagine: la comunicazione tra guerra e pace

12 maggio 2005, Roma Monte dei Paschi di Siena – Via M. Minghetti, 30a Uno dei risultati maggiormente apprezzati (da organizzatori e pubblico) del primo convegno frutto della collaborazione tra ISIMM e Nova Spes, Dissoluzione dell’autore?, è stata la felice contaminazione tra le due diverse prospettive di ricerca. I problemi legati al modo in cui i media riportano un conflitto sono stati esaminati nel quadro più ampio e poco consueto del rapporto tra il conflitto come tale (non soltanto quello bellico) e la narrazione: studiosi e operatori si sono interrogati sulla possibilità che non vi sia poi una radicale eterogeneità tra il racconto di un autore, nel senso forte del termine, e il resoconto di un inviato di guerra. Con questo stesso approccio «bilaterale» ISIMM e Nova Spes intendono ora affrontare il tema della comunicazione tra guerra e pace. Che i media abbiano un ruolo sempre più rilevante e attivo nella gestione concreta dei conflitti è fuori discussione: si tratta però di capire a quali condizioni e con quali modalità essi fungano da strumenti di guerra oppure di pace. Anche in questo caso l’intento è quello di sollecitare una riflessione critica sull’operato dei media, ma, per dir così, dall’esterno: una

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