Danilo Breschi – RIGHT IS MY COUNTRY OR LEFT IS MY COUNTRY. L’ITALIA COME FAZIONE, NON NAZIONE

(estratto da Paradoxa 2/2020) Sollevare la questione dell’identità italiana è come scoperchiare il vaso di Pandora pur conoscendo in anticipo il nefasto finale previsto da quell’antico mito greco. In altre parole equivale ad un gesto suicida, comunque masochistico. Oppure significa adempiere al compito eminentemente filosofico di preferire sempre e comunque la verità a tutto il resto, incluso l’amor patrio. Insomma, l’obbligo di dire come stanno davvero le cose. In ogni caso, chiamati a rendere conto di cosa significhi essere italiani, il velo cade e il re resta nudo. Dunque abbiamo cessato di essere una nazione. Difficile stabilire il quando, la data esatta, il periodo preciso. Anche dopo l’8 settembre 1943 si sono avuti momenti di recupero, magari parziale, della nostra compattezza di compagine nazionale. Gli stessi anni Settanta sono stati ambivalenti in tal senso: sia la tragica conferma di una lacerazione da lungo tempo presente nel tessuto connettivo nazionale sia la testimonianza di una complessiva tenuta e di una forza di contenimento, quanto meno inerziale, ancora attiva in quel tessuto così lacerato.

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Danilo Breschi – QUELLO SCHMITTIANO DI GIULIO TREMONTI

Quella che segue non intende essere la recensione ad un libro che ha già fatto tanto discutere e che, adesso che il suo autore è tornato alla guida della politica economica del Paese, può diventare una sorta di cartina di tornasole dell’ideologia non solo del dicastero dell’Economia ma dell’intera compagine governativa. Potrà persino fungere in un prossimo futuro da misuratore di quanto il testo contenesse solo parole di teoria, oppure, al contrario, punti di un programma che ha inteso farsi governo dell’Italia e progetto strategico per l’Unione Europea. Non mi soffermerò dunque sull’intero contenuto del breve ma densissimo pamphlet che Giulio Tremonti ha dato alle stampe nel mese di marzo, intitolandolo La paura e la speranza (Mondadori). Mi limito solo a dire, prendendo a prestito la battuta di un amico, che c’è molta più paura che speranza nelle pagine tremontiane. O almeno il lettore, finito il libro, esce agitato interiormente più dal primo sentimento che dal secondo. Soprattutto se di economia ne sa poco o nulla. Allora, sì, che le cifre e le proiezioni statistiche, le descrizioni dei flussi finanziari contenute nel volume giganteggiano come mostruose figure da incubo e la lucidità si perde pagina dopo pagina, fino al punto

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Danilo Breschi – BEN PRIMA DELLA GUERRA FREDDA, BEN DOPO L’11 SETTEMBRE: USA-EUROPA, AMICI-NEMICI

Lo studio delle relazioni internazionali rischia sovente di cadere nel profetismo, sia esso di segno negativo, quando non apocalittico, oppure di segno positivo, se non iperottimistico. In ogni caso, l’analisi geopolitica scivola con troppa facilità nel grande racconto teleologico e totalizzante ogni volta si intenda tracciare scenari che abbraccino ampie sfere del pianeta, se non il globo intero. Sugli Stati Uniti l’esercizio profetico si ripete con cadenza regolare. Raramente un simile esercizio è stato effettuato in chiave ottimistica, e sostanzialmente il periodo in cui questo è fortunosamente avvenuto è da circoscrivere ai primi anni Novanta, ossia all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Si pensi a certe pagine della celebre opera di Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), il quale non era comunque privo di preoccupazioni circa il futuro, oppure al quasi coevo Alfredo G.A. Valladão, e alla sua perentoria affermazione secondo cui Il XXI secolo sarà americano (1993). Assai più frequente il ricorso alla profezia apocalittica, o almeno all’annuncio dell’avvento di tempi cupi, di epoche di decadenza. Ed ecco allora che si parla in modo implicito di Ascesa e declino delle grandi potenze (Paul Kennedy, 1988) oppure, più esplicitamente, di Fine dell’era americana (Charles A. Kupchan,

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