Tavola rotonda – Quando pensare diversamente non significa pensare male. Il confronto possibile tra i cattolici
10 marzo 2009, Roma Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica, Piazza della Enciclopedia Italiana 4 Resoconto
10 marzo 2009, Roma Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica, Piazza della Enciclopedia Italiana 4 Resoconto
(Estratto da Paradoxa 4/2009) 1. Nelle accese discussioni che punteggiano il cammino della legge sulla “fine della vita”, è in gioco in primo luogo la persona, la sua dignità, l’idea che ne formiamo. Una buona legge non deve far tutti contenti – cosa auspicabile ma difficile – piuttosto deve possedere solide basi antropologiche e morali e capacità di largo abbracciamento, cercando punti di intesa sin dove possibile e senza andar contro basi riconosciute e diritti/doveri certi. Una buona legge ha dunque bisogno di un retroterra di “evidenze antropologiche”, e di mantenersi nel quadro dei diritti e doveri costituzionalmente stabiliti. Si tratta infatti di una legge dello Stato, che non deve violare la sfera della coscienza, ma cercare un saggio bilanciamento tra i criteri dell’autodeterminazione e della tutela della vita umana. Esso diviene impossibile se i due criteri sono intesi come assoluti: tra l’assolutezza dell’autodeterminazione e l’assolutezza dell’indisponibilità della propria vita non vi è possibilità di intesa. Per questi motivi appare necessario un nuovo sforzo di riflessione personalista. 2. Il personalismo è oggi sulla bocca di molti e numerosi sono i pensatori personalisti, in specie nell’area cattolica. Di ciò ci si deve rallegrare, anzi un inveterato personalista come me si sente
L’universo fondazionale italiano è oggi estremamente ampio e variegato. L’evoluzione della fondazione è iniziata intorno agli anni Settanta, con una attenzione della società civile verso temi di tradizionale competenza del settore pubblico. Quest’ultimo ha mostrato interesse verso il fenomeno, specie in un momento di crisi del welfare state. Le fondazioni sono dunque aumentate vistosamente di numero, si configurano maggiormente come fondazioni operative che come fondazioni di erogazione, operano in diversi campi (culturale, scientifico, di ricerca, assistenziale, etc.); esse presentano, inoltre, differenze tra di esse. Questa evoluzione è stata resa possibile dalla presenza di una disciplina, contenuta nel titolo II del libro primo del codice civile, molto scarna e che ha subito successivi interventi abrogativi da parte del legislatore; gli statuti delle singole fondazioni hanno quindi potuto colmare le lacune, inserendosi nelle maglie di una disciplina a trama larga. La fondazione è stata utilizzata dallo Stato e anche da altri enti territoriali, quali le Regioni. Lo Stato ha trasformato in fondazione enti pubblici; il fenomeno si è verificato prevalentemente in campo culturale (l’esempio paradigmatico è costituito dalla trasformazione in fondazione degli enti lirici, con decreto legislativo n. 367/1996), prevalentemente allo scopo di attrarre risorse private che colmassero l’insufficienza delle risorse statali. Inoltre,
(editoriale di Paradoxa 1/2009) Esiste oggi in Italia una vera politica culturale? E se esiste chi se ne fa carico? In un momento come l’attuale, a fronte dell’agenda imposta dalla dilagante crisi economica con i suoi drammatici effetti, mettere a tema il destino delle fondazioni culturali e il loro possibile rapporto con le fondazioni bancarie – come Paradoxa fa – rischia di apparire surreale come il suggerimento di Maria Antonietta di saziare con le brioches il popolo affamato. E, tuttavia, la riflessione che Nova Spes ha inteso avviare con i partner coinvolti, non è un lusso a cui dedicare il tempo libero, il tempo che resta una volta che i problemi seri siano risolti. Partiamo da un dato, tanto universalmente denunciato, quanto ignorato nella sostanza: l’Italia soffre di una profonda crisi culturale che investe livelli e funzioni diversi nella società; una crisi di valori accomunanti, di contesti formativi, di capacità di innovazione e di progettualità politica. Una crisi, a conti fatti, tutt’altro che indolore: anche in termini economici. Ma non ci si aspetti di trovare qui un cahier de doléances. Nelle pagine che seguiranno la nota dominante, quella che amalgama le prospettive, anche molto eterogenee, che vengono qui alla parola
(estratto da Paradoxa 1/2009) È oggi ampiamente riconosciuto, anche se ancora non da tutti, che lo sviluppo economico moderno, e più in generale il progresso delle nostre società, più che il risultato dell’adozione di più efficaci incentivi odi più adeguati assetti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura. È accertato che l’idea per la quale incentivi e istituzioni efficienti generano risultati positivi a prescindere dalla matrice culturale è destituita di fondamento, dal momento che non sono gli incentivi di per sé, mail modo in cui i soggetti li percepiscono (e ad essi reagiscono) a fare la differenza. E i modi di reazione dipendono proprio dalla specificità della cultura, la quale è connotata dalle tradizioni, dalle norme sociali di comporta-mento, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. È noto che valori e disposizioni quali la propensione al rischio, l’atteggiamento nei confronti del lavoro, la tendenza a fidarsi degli altri, l’idea di uguaglianza, la prevalenza del principio della colpa rispetto a quello della vergogna, ecc., sono fortemente connessi alle peculiarità culturali prevalenti in un determinato contesto spazio-temporale. L’economia di mercato di tipo capitalistico, al pari di altri modelli di ordine sociale, ha bisogno per la sua continua riproduzione di
Dove sta la coscienza? a cura di Marta Olivetti Belardinelli Quali eventi corporei manifestano la coscienza (e quali no)? Non è solo un problema teorico affascinante: immediati e talvolta drammatici i risvolti pratici. Si pensi soltanto all’evoluzione del libero arbitrio nel contesto degli sviluppi tecnologici odierni, che si mostrano potenzialmente in grado di distruggere la stessa possibilità di esercitare un volere conscio. «Paradoxa» 4/2009 offre, con la curatela di Marta Olivetti Belardinelli, una panoramica delle acquisizioni contemporanee nei diversi settori disciplinari interessati: filosofia, fenomenologia, robotica, computazione, psicologia, psicoanalisi, psicoterapia. La cautela adottata è quella di evitare gli scogli di una meta-definizione astratta del concetto di coscienza, indipendente cioè dalle sue manifestazioni nei sistemi cognitivi naturali e artificiali. Ognuno dei contributi non solo tenta di reagire, così, alle sollecitazioni derivanti dalle diverse branche elencate, ma fornisce anche un quadro delle possibilità di riposta alla domanda sulla sostanzialità della coscienza. Nell’articolare tali risposte, gli autori mostrano «sul campo» come la definizione degli stessi fenomeni e le modalità di accertamento varino anche internamente alla medesima disciplina, lungo un arco che va dalla semplice reazione non casuale a stimoli ambientali sino alla più alta consapevolezza della reazione stessa. Questi e altri spunti offerti dal
Il senso perduto della pena a cura di Francesco d’Agostino Il fascicolo 3/2009 di «Paradoxa», a cura di Francesco D’Agostino, riflette sul senso della pena nella società contemporanea a trent’anni dall’uscita di Perché punire di Vittorio Mathieu (20072), che ne firma l’editoriale. Nel contributo del curatore, il volume del filosofo torinese viene valorizzato per la sua capacità di formulare il quadro giuridico in una cornice metafisica, riportando il senso della pena alle origini dimenticate dalla scienza penale moderna. Senza trascurare il confronto con altre culture, come quella orientale analizzata nel contributo di Monateri, «Paradoxa» traccia così un percorso che dalla visione genuinamente metafisica della grecità conduce – con Saraceni – fino ai più problematici esiti applicativi odierni: ci s’interroga persino sulla possibilità di punire il cyborg e sulla definizione della colpa in riferimento alla confusione tra macchina e persona. Si profila un’evoluzione precisa che si muove tra due estremi. Da un lato, la concezione redistributiva tipica della cultura greca, che interpreta la pena come processo di distribuzione e punizione della colpevolezza. Dall’altro, la visione riabilitativa esemplificata nel diritto penale canonico, che legge la pena come restaurazione di un legame interrotto. Tra le due sembra collocarsi la riabilitazione che si svolge
Seven. Crisi capitale & peccati globali a cura di Luigi Cappugi Il fascicolo di «Paradoxa» curato da Luigi Cappugi legge la crisi attraverso una chiave inedita. Il filo narrativo viene rintracciato nell’apparato simbolico offerto dai sette peccati capitali. Ogni autore ci accompagna così in una discesa all’inferno del nostro tempo, una discesa che non nega anzi prelude a un’offerta di speranza. Superbia: nei contributi di Vitale e Cappugi, ci riporta alle deviazioni economiche dei nostri anni e alla gestione della superpotenza Usa, che nella sua attitudine a considerarsi nazione eletta traina il mondo verso un modello di crescita basato sul debito. Avarizia: per Zamagni e Motterlini è la radice peccaminosa di quel comportamento umano che, per natura tendente alla passione acquisitiva, ha finito per legittimare l’avidità sulla base dell’ethos dell’efficienza. Lussuria: nel suo dominio ricade per Vittorio Mathieu persino l’immissione di nuova liquidità, soluzione illusoria alla crisi. Ira: emozione negativa da cui originano per Carlo Jean il conflitto e la guerra, è al contempo positiva nella sua capacità di generare coesione ed eroismo. Gola: il fondatore di Slow Food Carlo Petrini considera peccato non la gola in sé, ma l’eccesso e lo spreco, la furia omogeneizzante della società dei consumi.
Quando il capitale è la cultura a cura di Laura Paoletti Gli istituti e le fondazioni culturali possono svolgere una funzione insostituibile per il Paese: a patto che siano disposti a ripensarsi e a collaborare, al fine di intercettare le nuove esigenze della società. Quali sono le strategie per valorizzare al meglio il capitale culturale? Che cosa significa fare politica culturale? Cercando una riposta a questi interrogativi, il numero apre il filone di ricerca poi confluito nel fascicolo 4/2010 di «Paradoxa». Gli autori cercano di forzare lo schema che costringe a ragionare di cultura in termini di «beni culturali», di superare cioè l’idea che la assimila a un bene, a una cosa tra le cose. Di contro alla visione economicistica che per tanti anni ha affermato la proporzionalità diretta tra disponibilità di beni materiali e benessere, il capitale immateriale viene trattato come un fattore imprescindibile ma non scontato della vita sociale, economica e politica. Esso richiede condizioni e contesti favorevoli per proliferare. Proprio a questo scopo può risultare funzionale il dialogo messo a punto nel fascicolo. Rappresentanti di fondazioni culturali (anche dette operating) e fondazioni di origine bancaria (o grant-marking) si confrontano sul terreno comune dell’attività culturale, portando all’attenzione del