Vittorio Mathieu – CONFLITTO E IDENTITÀ

1. In campo strettamente filosofico il rapporto tra identità e conflitto s’inarca  tra due classici  su cui molto si è scritto: il frammento 2 di Anassimandro e  l’inizio della figura dialettica signoria-schiavitù nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Nel primo testo l’identità naturale è presentata come un prevaricare degli enti gli uni sugli altri, per cui le cose “rendono l’una all’altra il fio dell’ingiustizia, secondo l’ordine  del tempo”. Nel secondo testo l’identità delle persone singole si afferma con  metterle in gioco  l’una contro l’altra in un “combattimento per la vita e per la morte”: finchè il perdente, sentendo nell’incombere della morte l’ “immane potenza del negativo” , non si dà schiavo, trasferendo la propria identità in quella del vincitore. In questo modo ha inizio la vita sociale.

Quasi due secoli dopo la Fenomenologia dello spirito  possiamo riprendere il discorso dal punto in cui la tradizione l’aveva lasciato, e cioè dall’identità della persona umana. Questa è qualcosa di diverso da una identità puramente naturale, nel senso che va affermata, rivendicata, sviluppata dalla persona stessa, se si vuole che dalla potenza passi all’atto. Tale affermazione avviene nella vita sociale, in rapporto ad altre persone che affermano la propria identità nello stesso modo: quindi in un potenziale conflitto. Senza presentarsi alla coscienza  come necessità di combattere per la vita e per la morte (modo di sentire tipicamente germanico, che ai tempi di Hegel e anche in seguito era tenuto vivo simbolicamente nelle corporazioni studentesche con la consuetudine della Mensur, o duello simulato , di cui i laureati tedeschi erano soliti portare sul volto le cicatrici), l’inevitabilità che per affermarsi le persone entrino in conflitto si manifesta nelle forme più svariate di competizione, fin dai primi anni di età. Può consistere nello sforzo per arrivare primi nella corsa, o ultimi nella capacità di trattenere il respiro; come riuscita nelle attività scolastiche; e, in genere, in ogni sorta di gioco: guardie e ladri, i quattro cantoni, la settimana etc. etc. Poi vengono i giochi formalizzati come gli scacchi o le carte; e potranno accompagnare gli adulti per tutta la vita, accanto a forme di competizione “serie”. Lo stesso rischio può avere da solo un fascino tale da portare un giocatore alla Dostoevskÿ alla rovina. I giochi più interessanti , nota però il Leibnitz, sono i più simili alla vita, in cui il risultato dipende insieme dall’abilità e dalla fortuna: possibilmente con prevalenza della prima.

Nel regime dispotico a cui mette capo la figura hegeliana di signoria e schiavitù non è infrequente che il sovrano metta a repentaglio le proprie prerogative e la stessa esistenza in guerre di cui  – come spiegò Cinea a Pirro – avrebbe potuto benissimo riposarsi prima ancora di averle cominciate. Per evitare ciò Montesquieu e poi Kant raccomandarono alle stesse monarchie una costituzione “repubblicana”, in cui cioè i sudditi diano voce ai propri interessi . Entrambi però si illudevano di stornare così quel tipo di guerre che i sovrani e gli alti comandi conducevano protetti, mentre le sofferenze ricadevano sulle popolazioni. Nel secolo successivo si vide che, liberi di decidere, i popoli sceglievano democraticamente la guerra. Nel 1870 si gridò à Berlin, con il risultato di portare i prussiani a Parigi. Nel 1914 la gioventù di tutta Europa  era convinta di dover scendere in quella guerra che l’avrebbe in gran parte sterminata. In Italia fu peggio, perché l’interventismo prevalse (contro la maggioranza parlamentare) nel 1915, quando ormai anche i bellicisti avevan cominciato a rendersi conto di che cosa fosse divenuta la guerra.

2. Questo fenomeno è il più atto a mettere in luce il rapporto che si istituisce tra identità e conflitto. I popoli  chiedono di scendere in conflitto perché vogliono in questo modo affermare la propria identità, che, sull’esempio della Francia, era divenuta un’identità politica. Le divinità etniche dei pagani erano sempre state guerriere, e anche il Dio universale che si fa luce nell’Antico Testamento era un “Dio degli eserciti” (sabaoth) ,  che noi traduciamo eufenisticamente con “Dio dell’Universo”. La sua alleanza col popolo di Israele era un’alleanza militare, che aveva l’effetto di sgominare i gentili, o gentes, o nationes. A questo stadio regredirà volutamente l’islamismo, grazie ad un nuovo libro, in cui lo sterminio degli infedeli è presentato regolarmente come una prova, non solo della grandezza, ma anche della misericordia di Dio. Viene di qui quel tipo di terrorismo in cui distruzione e sterminio non sono – come ad esempio per i romani – un mezzo per raggiungere un diverso obiettivo, bensì di per sé una Rivelazione, fine a se stessa. Per questo non si riesce a stroncare il terrorismo persuadendo popoli e governi islamici di ciò che anch’essi sanno benissimo: e cioè che le prime vittime sono loro.

Il nazionalismo europeo del secolo XIX portò ad un risultato in qualche modo affine, ma attraverso un strano percorso. La politica della monarchia francese aveva voluto far credere, in un rovesciamento di termini, che il popolo eletto fosse da identificarsi con la Nation per eccellenza, non più gentile ma cristiana: la nazione francese. Inglesi e papato si resero conto oscuramente di ciò a cui portava un simile rovesciamento di parti, e bruciarono come eretica Giovanna D’Arco, che ne era l’esponente mistico; ma il concetto francese finì col prevalere, al punto  che Giovanna D’Arco sarà fatta santa. Luigi XIII e XIV, con l’ausilio di cardinali o senza bisogno di loro, cominciarono a laicizzare questo concetto, affermandolo attraverso lunghi o frequenti conflitti, in cui il “Re cristianissimo” si alleava con protestanti e con turchi; finchè , attraverso altri due Luigi, e soprattutto con la rivoluzione, lo Stato francese venne a identificarsi con la laicità stessa, in un processo che, ostacolato da altre forze, giunse a compimento solo nei primi anni del Novecento. Frattanto, però, questo nazionalismo escatologico si era esteso a tutta Europa  grazie a Napoleone, che pure aveva creduto di arrestarlo prendendo su di se la sacra corona romana (che fece deporre a Francesco II, di cui sposò la figlia). Alla rivoluzione continua dei giacobini Napoleone sostituì, come osserva Marx, la guerra continua; e suo nipote ci rimise le penne quando, non riuscendo più ad esportare la guerra altrove (Italia o Messico) se la portò in casa.

3. I modi francesi di pensare non avrebbero avuto conseguenze così devastanti se non contenessero una verità. Il patriottismo nazionalistico non avrebbe dato luogo in Europa ad una produzione di cadaveri più continuativa di quella dovuta a comunismo e nazismo, se non fosse vero che l’identità nazionale si costituisce attraverso la competizione. Occorre tuttavia rendersi conto che la competizione tra nazioni non è necessariamente un conflitto militare come non è necessariamente, tra i singoli, una lotta per la vita e per la morte. La Germania affermò la propria identità culturale dopo la guerra dei Trent’anni, in un periodo in cui militarmente era inesistente. Si ricordi che cosa fa dire  a uno dei suoi personaggi  Tolstoi : “Napoleone: in  fondo, che cosa ha fatto? Ha battuto i tedeschi: ma chi non ha battuto i tedeschi?”. Poi vennero, progressivamente, Bismarck, Moltke, Guglielmo II. Ciònonostante la Germania conservò un primato culturale e tecnologico fino alla seconda guerra mondiale: negli anni ’30 olandesi e norvegesi, come Brower e Skolem, scrivevano di matematica per lo più in tedesco, non in inglese: oggi sarebbe inconcepibile.

Del resto, nell’antichità classica la Graecia capta  affermò l’identità della propria cultura senza aver avuto un’unità politica, se non per qualche anno, sotto Alessandro il Macedone. Potenza e identità nazionale possono andare insieme, come nell’universalità romana, ma possono anche separarsi dal tutto. Il Regno unito è ancor oggi formato da quattro nazioni diverse (i cui incontri di calcio sono incontri internazionali): ciò non gli impedì di avere per qualche tempo un successo mondiale. E non impedì all’impero absburgico di avere un successo europeo l’esser formato da un numero enorme di nazioni diverse. Questa pluralità (oggi deformata in “pluralismo”) ha indubbiamente un costo, come ogni situazione competitiva: ma ha in primo luogo un vantaggio.

Ha un costo, in particolare, la competizione economica, che va sotto il nome di concorrenza.  Al tempo stesso, però, le fusioni  permettono di abbassare i costi con economie di scala. Perciò la politica economica dei poteri pubblici persegue, di solito, due obiettivi contraddittori: la concentrazione e la repressione del monopolio.  Grazie alle economie  di scala può accadere che il prezzo di monopolio si abbassi sotto quello di libera concorrenza, ma è probabile che peggiori la qualità. La qualità delle auto italiane era la migliore del mondo quando la produzione era polverizzata. Per contro il “fordismo” Fiat della Balilla sarebbe stato impossibile se la Fiat non si fosse avviata verso un quasimonopolio. D’altro canto il fordismo, benefico nel mettere l’auto alla portata di tutti, fu certamente una causa della crisi del ’29. Né il monopolio italiano raggiunto dalla Fiat dopo l’ultima guerra le evitò la crisi del 2001.

4. Da queste osservazioni empiriche si deduce che la competizione è costosa (sia per le nazioni, sia per le aziende, sia per le persone), ma migliora la qualità, precisamente perché induce a individuare di più i prodotti: cioè a conferire ad essi  un’identità, che senza il conflitto non si affermerebbe. Analoga la situazione in politica, dove la democrazia ha costi enormi, ma evita un peggioramento di qualità, a condizione che si conservino scelte politiche differenziate.  Ciò avviene se il pluralismo non è solo un’etichetta, ma c’è una reale competizione elettorale (come non c’era di fatto nella prima repubblica italiana). Se, al contrario, un consociativismo di fatto svuota la conflittualità, la molteplicità delle etichette  è inutile, mentre resta egualmente costosa  la necessità di mantenere gli apparati di parecchi partiti.

L’attenuarsi della conflittualità sembra favorevole alla pace sociale, ma vanifica quel controllo reciproco tra maggioranza e opposizione che costituisce l’unico vantaggio reale, per altro importantissimo, della democrazia. Si vede con chiarezza da questi esempi  che un certo tipo di conflitto sotto regole è essenziale all’affermarsi di identità diverse, sia delle persone fisiche, sia delle persone giuridiche. Giova a tutti in particolare la competizione economica, anche se spesso la concorrenza giunge a sopprimere l’esistenza stessa di quei competitori che escono dal mercato per l’incapacità di affermare efficacemente la propria identità.

5. Ritorniamo ora per  un momento sul frammento 2 di Anassimandro. L’inevitabilità del conflitto perché le cose  siano ciò che sono non sembra così evidente, perché ogni cosa, almeno a prima vista, sussiste indipendentemente dalle altre, mentre il conflitto nasce dal rapporto. Eraclito sosterrà bensì che appunto il rapporto conflittuale è ciò che genera la realtà delle cose, ma Anassimandro non conosceva ancora Eraclito: perché dunque dice che le cose debbono pagare l’una all’altra il fio della loro esistenza? Il fatto che lo dica  prima di Eraclito è appunto ciò che dà al suo enunciato l’enorme importanza che giustamente gli è stata attribuita: quasi come inizio di tutta la filosofia occidentale.

L’enunciato di Anassimandro incide sul concetto stesso di essere , non solo della persona umana, ma di tutte le cose naturali. Ciò che l’esperienza ci dice dei rapporti umani si riverbera sul concetto di esistenza, rendendolo relazionale e appunto perciò, sotto un certo aspetto, conflittuale. Il fatto che Anassimandro parli di colpa e di pena non lascia dubbi sulla sua intenzione di prendere la condizione umana a modello dell’esistere naturale. Le cose come  chrémata  sono i mezzi (come ricchezza finanziaria, ma anche come mezzi materiali). E, in quanto semplici mezzi, non sarebbero attive, ma subirebbero l’azione di chi le adopera. Tuttavia, per servire come mezzi, le cose stesse debbono avere una loro identità: essere qualcosa di determinato. E per avere una loro identità le cose  non possono restare puramente passive. Dunque, con ciò che sono, e per ciò che sono, le cose si fanno valere .  In un modo diverso da quello in cui  si fanno valere le persone, ma non senza una precisa analogia. Le persone entrano in conflitto – quanto meno  in una inevitabile competizione – in quanto “si fanno valere”. In una relazione competitiva analoga entrano le cose in quanto hanno una natura, cioè nascono, emergono dal nulla; o, come dice Anassimandro, dall’apeiron, dall’indistinto. Nascendo si individuano, ma l’individualità di ciascuna  rimane legata a quella delle altre.  Perciò le cose collaborano confliggendo e collaborando confliggono. Più di due millenni dopo dirà lo stesso Schopenhauer, attraverso una serie di esperienze di pensiero, occidentale e orientale, di cui si era persa in parte perfino la traccia. Quando l’interesse storicistico riportò l’attenzione sulla ricerca – che si pretendeva “naturalistica” – dei presocratici, il loro contributo al concetto di essere, in particolare dell’essere personale,  si rivelò determinante.

Per essere occorre individuare un proprio modo d’essere: identificarlo a sé e renderlo identico a se stesso. Questo processo per  un verso si svolge nel tempo, per un altro in una dimensione perpendicolare al tempo, come processo di approfondimento e di identificazione. In ogni caso richiede una attività: quella che Aristotele chiamerà enérgheia, energia o atto (non “atto puro”, bensì atto che individua una potenza). E anche le cose apparentemente inanimate sono in quanto sono attive. Appunto questa attività le fa esistere, rendendole identiche a se stesse.

In generale, se si esamina con cura  il concetto di identità, ci si accorge che l’identità non è mai un dato, bensì il risultato di un processo. Anche l’identità astratta, A = A, c’è in quanto è posta:  io stabilisco che quella sia una identità, e la somiglianza grafica dei due segni è soltanto un simbolo di questa intenzione. In questo caso, però, è evidente che l’attività identificante è tutta esterna alla A , cioè alla cosa individuata. In tutti gli altri casi non è così: la cosa si individua in qualche misura da sé. Nel caso particolarissimo della persona questa diviene identica a sé solo grazie ad una attività interna alla persona stessa. Attività non certo esclusiva, perché la persona  non viene in essere solo con le proprie forze; ma, d’altro canto, non sarebbe persona se non ci mettesse qualcosa di suo. Per questo la persona ha un nome, scritto sulla carta d’identità. E nelle carte dei diritti umani è detto esplicitamente che avere un nome è un “diritto dell’uomo”e cioè un diritto naturale, non conferito dall’esterno. La persona non si costituisce originariamente da sé: anzi, riceve in qualche modo dal “caso” (cioè da una caduta nel mondo: la Verworfenheit heideggeriana) il principio per costituirsi; però diventa “qualcuno” solo nella misura in cui si fa. Una misura, peraltro, molto variabile, perché molte persone, salvo che per l’anagrafe, rimangono anonime, scarsamente distinte e individuate. Però almeno la potenzialità di individuarsi è loro, altrimenti non ci sarebbero. Nella natura inanimata l’identificazione è molto meno autonoma. Le cose – ad esempio gli elementi chimici – sono identificate in larga misura grazie alla scienza degli uomini. Ma la scienza stessa può svolgere questo lavoro grazie a un’identità incoativa della cosa, che è quello che è, e costringe lo scienziato a riconoscerla.

Il caso limite si trova negli enti matematici che non hanno nessuna attività reale, eppure “esistono”. Prendiamo il concetto dei numeri reali, che sembrerebbero detti “reali” per antifrasi. Essi divennero reali grazie alle ricerche dei matematici (in particolare di Cantor e di Dedekind) che permisero, non senza difficoltà, di individuarli. Eppure la  loro identità non deriva dalle ricerche che l’hanno messa in luce: anzi, queste ricerche hanno un valore matematico appunto nella misura in cui mettono in luce una possibilità che non dipende minimamente dal nostro arbitrio. La scuola impropriamente detta platonizzante, ad esempio di un Frege, interpreta quell’indipendenza dall’arbitrio come esistenza degli enti matematici. Al tempo stesso, però, questa identità del numero reale – o, se volete, questa sua esistenza – non ha nessun mezzo autonomo per farsi valere senza il lavoro del matematico. Prendiamo il primo caso di numero reale presentatosi nella storia: il rapporto del lato con la diagonale del quadrato. Certamente questo rapporto esiste ed è un numero ben individuato, qualunque sia il procedimento con cui veniamo a conoscerlo. Ma ciò non permette di dire (come disse il Frege)  che i numeri reali o, in genere gli enti matematici esistono “come esiste il Mar giallo”: questo accostamento è del tutto insensato, perché gli enti matematici non hanno una attività o energia propria che li faccia confliggere, mentre confliggono i matematici quando ne discutono.

Sottilizzando, si giunge a dire che i numeri reali sono identificati dal metodo per individuarli, sicchè si parla di numeri reali “di Dedekind” come di altra cosa  (sebbene isomorfa) rispetto ai numeri reali “di Cantor”. Altri numeri prendono regolarmente il nome del loro inventore, ad esempio i numeri del Veronese. In modo analogo si parla della (o delle) Pietà di Michelagelo come di qualcosa che non esisterebbe se Michelangelo non l’avesse individuata; e che tuttavia, una volta individuata, può avere una propria ragion d’essere, capace di entrare in conflitto, poniamo, con una Pietà di Donatello. Analogamente la Settima sinfonia di  Beethoven, una volta “creata”, ha una irreducibile identità propria, che tuttavia si individua inevitabilmente in interpretazioni diverse: per cui si parla della “Settima  di Furtwängler”  come diversa dalla Settima di von Karajan, etc.  Al massimo della concretezza, come al massimo dell’astrazione, l’esistenza consiste nell’imporre da sé la propria identità, condizionata da una posizione  della propria individualità che non si sa di dove venga.  Questo imporsi  è un mettersi in relazione con altre imposizioni del genere. Esso genera un inevitabile conflitto, che arricchisce il mondo, ma può anche distruggere altre individuazioni.

Conclusioni
Da quanto esposto  si possono trarre alcune conclusioni circa il rapporto tra identità e conflitto.
a) Anzitutto è emerso un carattere essenziale di tutto ciò che si trova nella nostra esperienza. Ciò che esiste come finito riceve da altro la possibilità di essere, ma, in misura e in modi variabili, deve darsi da sé  la propria identità.  A livello umano questa condizione diviene fondamentale: essere non è per noi uno stato, bensì un compito:  un’attività da svolgere, un lavoro. Tradizionalmente, si pensa che, oltre ad essere, si debba fare qualcosa: il semplice esistere sarebbe “il meno che si possa fare”. Ma già la concezione dell’essere come di un “dato” è falsamente naturalistica, perché qualsiasi realtà, per essere, deve in qualche misura  identificarsi da sé; quindi resistere a ciò che tende ad annientarla.

b) L’identità che ci si da da sé, attraverso un processo d’identificazione, è già un mettersi in rapporto ad altro. Nel caso dell’uomo questo mettersi in rapporto  con altri (ovvero, secondo Aristotele, essere un “animale politico”) è costitutivo della sua essenza.

c) Identificarsi in rapporto ad altro implica un concorrere che diviene competizione e, quindi, un “conflitto di inter-esse”: interno (con altri interessi) od esterno (con interessi di altri). Tale conflitto, grazie a regole naturali o artificiali, può avere esiti altamente positivi, ma può anche avere conseguenze crudeli. (La concorrenza economica, ad esempio, può portare alla soppressione dei concorrenti più deboli, che escono dal mercato. A volte qualcuno si spara).

d) Nasce di qui una fenomenologia per cui la propria identità viene affermata in contrasto con quella di altri. Un filosofo, ad esempio, pensa in polemica con altri filosofi. Ma anche un artista si afferma in antitesi con altri modi di praticare la stessa arte. Né fanno eccezione gli scienziati (contro l’opinione di Ugo Spirito, secondo cui la scienza metterebbe tutti d’accordo): in particolare i matematici, che mirano a mettere in luce verità assolutamente oggettive, sono litigiosissimi.

e) Nulla garantisce  che nel conflitto prevalga “il migliore”. Regole comunque convenute (o accettate  o subite) tendono a far prevalere il migliore almeno “in un certo senso”.

f) Tutto ciò che comunque sopravvive ha un modo per conservare la propria identità, spesso con sacrifici; e, a volte, ha modo di potenziarla. Le specie batteriche, ad esempio, pur perdendo miliardi di individui per gli antibiotici, si affermano contro di essi grazie alla capacità di riprodursi rapidamente; e spesso migliorano, grazie alla soppressione dei più deboli. Negli animali superiori, il gruppo può conservare la propria identità grazie alla solidarietà tra i suoi membri; ma altre volte si conserva grazie all’indifferenza. Ad esempio, la mandria di vacche africane lascia che la leonessa assalga alle spalle e sbrani l’ultima del branco, e continua a camminare senza neppure accelerare l’andatura.

h) La società umana fa ogni sforzo per salvare il singolo, riconoscendogli un valore in qualche modo assoluto, per la sua capacità di affermarsi da sé. Ma, salvo degenerazioni, non cancella per questo la competitività (come quando promuove d’ufficio, ad esempio, tutti gli scolari di una classe). In altri casi ci si aspetta che il singolo affermi la propria identità appunto sacrificandosi: in particolare per la patria (secondo l’aria di Mercadante, “chi per la patria muor vissuto è assai”).

i) E’ difficile indicare un metodo generale per rendere la competizione produttiva, senza che degeneri in conflitto distruttivo. L’esperienza in questo campo è decisiva, nel consigliare provvedimenti generali atti a governare nel modo statisticamente migliore una situazione sempre variabile.

l) Una riflessione “filosofica”, quale quella intrapresa da Nova Spes sulle condizioni umane, è utile  per indirizzare lo sguardo nella direzione più opportuna. Volendo Nova Spes promuovere l’affermarsi della persona umana globale nelle circostanze specifiche in cui l’uomo si trova a vivere oggi, riconoscere che l’identità personale è quella che più richiede un atto autonomo d’identificazione, e che l’essere della persona non è un dato, bensì un compito, è una precondizione per affrontare organicamente i problemi specifici in ciascuna situazione: in particolare nelle situazioni di conflitto più allarmanti.

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