(estratto da Paradoxa 3/2018)
- Premessa
L’uso consapevole delle tecnologie digitali da parte dei giovani è diventato un obiettivo di primo piano in ambito educativo, come si evince del resto dal Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), approntato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca già nel 2015 (http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf).
Il sistema scolastico odierno si sta confrontando con nuove matrici formative in linea con lo sviluppo e la diffusione crescente (e irreversibile) delle tecnologie emergenti. Tale sviluppo, al contempo, impone l’elaborazione di un percorso di literacy specifica centrato sulle tecnologie stesse rivolto sia agli adulti che gravitano nel mondo della scuola sia ai così detti ‘nativi digitali’ (quei giovani cioè nati al tempo della rete, secondo la definizione di Paolo Ferri proposta in Nativi digitali, Bruno Mondadori, Milano 2011). In riferimento a questi ultimi si è manifestato un paradosso: i giovani si muovono con estrema naturalezza in un universo intermediale di cui spesso non colgono a pieno le potenzialità. Circa il 90% dei ragazzi (con particolare riferimento alla classe di età 11-20 anni) risulta essere utente regolare della rete, senza però sfruttare pienamente le risorse offerte da e attraverso tale mezzo non solo a fini di entertainment, ma anche didattici. Nel PNSD si evidenzia infatti il ruolo non di primo piano ricoperto dall’Italia in tema di acquisizione di competenze digitali di base (47%), risultando al momento solo ventitreesima (http://dati-giovani.istat.it/).
Si tratta di un Piano peraltro che risponde alle più recenti proposte europee, dalla Raccomandazione del Parlamento europeo del 26 marzo 2009 sul rafforzamento della sicurezza e delle libertà fondamentali su Internet (2008/2160(INI)) fino ai nuovi progetti per consolidare le competenze digitali dei cittadini a seguito del vertice di Göteborg del novembre 2017. Il concetto di competenza è in questo frangente da interpretare come quella capacità delle persone di «saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle TIC: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet» (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE), https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A32006H0962). Il fine è cioè quello di imparare a selezionare e a valutare la qualità dei dati reperiti online per un loro uso efficace e, al contempo, etico; ma si vuole altresì promuovere la produzione della conoscenza e la sua corretta comunicazione, come ricordato, in ultimo, nel Digital competence framework, DIGCOMP 2018 (https://ec.europa.eu/jrc/en/publication/eur-scientific-and-technical-research-reports/digcomp-21-digital-competence-framework-citizens-eight-proficiency-levels-and-examples-use).
L’obiettivo principale di questi provvedimenti è volto alla sensibilizzazione verso scelte responsabili, che possono declinarsi, più nello specifico, nell’imparare a intercettare eventuali fake news, nel rafforzare la coesione sociale e relazionale in modo proficuo, ma anche nell’indebolire, fino a contrastare, quei ‘cattivi’ comportamenti che possono ledere sé stessi e altri soggetti, anche grazie al sostegno reciproco e ‘attivo’ di tutti gli internauti.
La rete del resto si profila oramai come uno spazio in cui si sviluppano la personalità individuale e le dinamiche relazionali e, come tale, implica riflessioni di natura etica, non solo dal punto di vista dell’adulto che se ne avvale per fini didattici e conoscitivi, ma, soprattutto, del soggetto minore che la utilizza per gli scopi più diversificati. Occorre dunque far apprendere certe abilità e sviluppare determinate competenze, per comprendere a pieno le potenzialità della dimensione virtuale, nei suoi aspetti positivi, ma anche in quelli deteriori. Gli adolescenti si trovano a vivere un periodo fondamentale del proprio percorso di sviluppo individuale, in cui strutturano le proprie competenze affettive, emotive e, soprattutto, relazionali, in un contesto sociale oramai radicalmente cambiato in termini mass-mediali rispetto al passato.
L’apparente maggiore libertà di agire nella rete porta a conseguenze che vanno ad interagire e a influenzare il mondo offline, nonché la libertà di agire in questa dimensione, imponendo una riflessione in riferimento alla responsabilità di certe scelte, di cui spesso i giovani non sono pienamente informati.
Appare necessario dunque indirizzare l’uso delle tecnologie emergenti non solo per l’apprendimento di conoscenze, ma, soprattutto, per lo sviluppo di quelle competenze che saranno poi utili nel corso della vita in un’ottica di lifelong learning, per uno sviluppo armonioso del soggetto in formazione. E se, in primis, è da annoverare la c.d. ‘competenza digitale’, non possono dimenticarsi, a corredo, le altre sette competenze chiave di cittadinanza attiva promosse dall’Unione Europea per una cittadinanza attiva e inclusiva (la comunicazione nella madrelingua, nelle lingue straniere, la competenza matematica e di base in scienza e tecnologia, imparare ad imparare, le competenze sociali e civiche, lo spirito di iniziativa e imprenditorialità e, infine, la consapevolezza ed espressione culturale).
Si tratta di competenze che rilevano anche alla luce di un aspetto che viene spesso sottovalutato o quantomeno non valutato nella sua complessità. L’uso consistente delle tecnologie induce a una sorta di assuefazione alle tecnologie stesse e alle possibilità cui apre le porte, una ‘abitudine’ alla quale mai occorre abbandonarsi affinché non si trasformi in dipendenza o, al contrario, in indifferenza. L’agire online non può considerarsi alla stessa stregua di un agire in un contesto intermediale ‘altro’, privo di rischi e reali conseguenze nella vita di ciascuno.
L’acquisizione di competenze digitali dunque impone alcune riflessioni: da una parte, sul ruolo delle istituzioni, mettendo in gioco il concetto di accountability; dall’altra, sulle scelte ‘responsabili’ dei soggetti in formazione, per non chiudersi in bolle di conoscenza e in polarizzazioni pericolose. Ma anche per non correre il rischio di farsi condizionare da stili di vita e modi di essere non rispondenti alla propria personalità e ai propri principi morali pur di instaurare ‘relazioni’ tra coetanei, non necessariamente proficue.
- Oltre le competenze digitali
Se, come si è accennato, il PNSD impone linee guida per un uso consapevole delle tecnologie a fini didattici e di vita più in generale, occorre stimolare, in parallelo, una riflessione di ordine etico affinché i giovani siano motivati a un ‘buon’ utilizzo della rete, per ingenerare un circolo virtuoso tra agire online e offline.
La potenziale libertà (di estrinsecazione della propria personalità) sulla rete Internet, è oramai nel panorama mediale contemporaneo alla portata di quasi tutti i giovani. Non si può più ragionare sulla base della logica binaria propria del digital divide del web 1.0., secondo la quale il problema era se avere o non avere accesso alla rete. Oggi il riferimento non può che andare a un divide diverso, dovuto alla presenza di una pluralità di fattori e concause eterogenee tra loro (condizioni economiche, sociali, territoriali, lavorative, linguistiche ed altre ancora); un divario digitale, come sostiene Jeremy Rifkin ne L’era dell’accesso (Mondadori, Milano 2000, p. 319), il cui principale pericolo è costituito dall’esclusione sociale, cioè dalla difficoltà di inserirsi in quei canali comunicativi, sociali ed economici che consentono, oggi, di favorire il pieno sviluppo della persona. La scuola, in questo senso, sta agevolando l’assottigliamento di questo divario, moltiplicando le possibilità di accesso alla rete al proprio interno e, soprattutto di un accesso ‘competente’, fondamentale soprattutto quando i giovani ‘navigano’ fuori dall’ambiente protetto della scuola.
Non hanno più di fronte ai loro occhi pagine statiche come vetrine in cui l’attività del soggetto si estrinseca esclusivamente nella scelta delle pagine da consultare e da non consultare. Con il passaggio al c.d. web 2.0 si passa da una comunicazione di massa tendenzialmente unidirezionale e discendente (dal produttore/webmaster al consumatore/utente) alla condivisione delle informazioni potenzialmente con tutti i soggetti connessi. Ulteriormente rafforzata dall’avvento del web 3.0, il così detto web semantico, che impone, al riguardo, riflessioni più articolate. Come scrive Nicholas Carr (in Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina Raffaello, Milano 2011), nel web 3.0 le macchine dialogano fra loro. Le informazioni vengono elaborate automaticamente sulla base delle proprietà semantiche dei dati immessi in reti, sfuggendo al controllo del soggetto.
Ecco allora che occorre una alfabetizzazione alla tecnologia sulla base di tali peculiarità, che coinvolge competenze trasversali e molteplici attitudini da sviluppare. Si tratta di una digital literacy (o media literacy più in generale) che deve essere volta alla comprensione dei dati nell’ambito di una società interconnessa in cui il confine fra pubblico, che appartiene alla sfera pubblica, dello Stato e della comunità nel suo complesso, e privato, che, invece, appartiene all’ambito individuale e interindividuale, è radicalmente cambiato, quasi scomparso si potrebbe affermare.
Una educazione agli aspetti più concreti e pragmatici delle tecnologie informatiche diviene dunque un primo necessario passo affinché i giovani siano consapevoli di non essere solo semplici fruitori, ma, al contempo, (in)consapevolmente, anche produttori di informazioni che possono essere utilizzate da soggetti terzi per sviluppare strategie di marketing sempre più personalizzate. Ogni scelta online non afferisce più alla dimensione privata, ma necessariamente anche pubblica. L’individuo perde il controllo sui dati pubblicati volontariamente in rete e su quelli tracciati senza il proprio consenso, ma di cui rimangono inevitabilmente i segni.
Una tale alfabetizzazione sviluppa quelle risorse cognitive che permettono ai soggetti di valutare le informazioni in modo critico. Si profila uno scenario in cui cambia necessariamente il livello di responsabilità dell’agente, che deve essere nelle condizioni di conoscere il mezzo e il suo funzionamento anche negli aspetti meno noti – ma che, oggi, appaiono sempre più indispensabili. La conoscenza aumenta la responsabilità del soggetto riguardo al proprio agire, di fronte al proprio interlocutore e ‘davanti alla’ comunità di tutti gli internauti (FrançoisRaffoul, The Origins of Responsibility, Indiana University Press 2010, pp. 17-18), ma lo rende, allo stesso tempo, più libero e consapevole delle proprie scelte e degli obiettivi che vuole o non vuole raggiungere. Si arginano in tal modo alcuni dei (numerosi) rischi cui i giovani possono incorrere. In primo luogo, l’affidarsi acriticamente alla tecnologia; in seconda battuta, l’incapacità nel gestire quel sovraccarico emotivo, cognitivo e informativo, il così detto Information overload, che la rete ha generato. Si tratta di un sovraccarico che «si verifica quando il numero di informazioni ricevute è troppo alto per poter prendere una decisione corretta o per sceglierne una specifica sulla quale focalizzare l’attenzione» (Maurizio Masini, Information overload, in M. Masini, A. Lovari, S. Benenati (a cura di), Tecnologie digitali per la comunicazione pubblica, Bonanno Editore, Catania 2013, p. 45).
L’utilizzo della rete, al di là delle finalità più strettamente informative o didattiche, di intrattenimento o relazionali, può peraltro anche provocare dipendenza. Tale radicalizzazione (non infrequente visto che dai dati ISTAT 2018 si evince che circa 300.000 giovani dai 12 ai 15 anni sembrano esserne diventati: https://www.ordineinfermieribologna.it/2018/in-italia-sono-300mila-i-giovani-dipendenti-da-internet.html) ha effetti sullo sviluppo della personalità, isolando il soggetto dalla realtà oggettuale e dai contesti socio-relazionali. Un rischio cui si può ovviare attraverso quella che viene definita information diet, per alleggerire e ricalibrare il carico cognitivo e emotivo cui si è sottoposti.
Le tecnologie inoltre modificano l’approccio alla conoscenza dando origine a nuove mappe mentali, che rendono il soggetto sempre più abile nel cercare e nell’eseguire determinate procedure per ottenere un certo risultato piuttosto che nel ‘saper fare’, proprio, in realtà, del significato etimologico di techne (Adriano Fabris, Ethics of Information and Communication Technologies, Springer International Publishing AG 2018, pp.1-2). Si tratta di mappe che inducono a modificare il modo di accedere al reale, demandando alla tecnologia il proprio impegno mnesico. La tecnologia del resto implementa alcune forme di apprendimento e alcune competenze cognitive a discapito di altre. Non occorre più ricordarsi informazioni utili, indirizzi o numeri telefonici perché lo fanno le tecnologie per noi, ma serve anche non disimparare certe competenze, quanto semmai implementarle.
Tali stimolazioni possano far riscontrare una certa discontinuità sull’attenzione, vivendo in uno stato di alert continuo al di là dei segnali reali prodotti dallo strumento, tablet o smartphone, ma soprattutto ciò che emerge è la difficoltà a comprendere le profonde differenze, anche a livello psicologico ed emotivo, sussistenti tra il muoversi nella realtà oggettuale e l’agire (esposti) attraverso uno schermo. In un tale ecosistema si può essere portati a esprimersi e a agire ancora più liberamente, pensando di potersi celare dietro le identità più disparate e, in casi estremi, sentendosi deresponsabilizzati nei confronti delle conseguenze di certe azioni. Pur trovandosi in realtà in una vera e propria piazza, anche se ‘virtuale’. Inoltre, il venir meno di una parte importante della comunicazione non verbale può indurre allo sviluppo di una sorta di analfabetismo emotivo e empatico.
- Web 3.0, tra accountability e responsabilità
Conoscere i meccanismi che regolano la rete risulta dunque di fondamentale importanza per imparare a fronteggiare l’apparente ‘trasparenza’ della dimensione virtuale. Se essa agevola gli scambi informativi e relazionali, cela ulteriori rischi oltre a quelli appena sinteticamente delineati. Sempre più spesso dietro determinate parole, icone e immagini si ‘pubblicizzano’ specifici stili di vita. Un pubblicizzare da intendersi non tanto nel senso etimologico di ‘rendere pubblico’ (dal latino publicus), quanto in quello di advertising, dal latino ad-vertere, ‘andare verso’, ponendo l’accento sull’aspetto persuasivo della comunicazione. Si orienta il giovane a far propri certi stili di vita per sentirsi parte di una società che ha dovuto far fronte – attraverso un cammino ancora aperto – a nuovi approcci alla conoscenza e, soprattutto, a nuove scelte e a nuovi comportamenti. Tale pervasività del messaggio è spesso mascherata da strategie messe a punto dai providers per ‘corteggiare’ il pubblico connesso senza che se ne renda pienamente conto. La rete si profila così come una sorta di persuasore occulto di packardiana memoria (I persuasori occulti, 1957), ben più potente rispetto ai mezzi di comunicazione più tradizionali, anche alla luce della rinnovata relazione, sempre più ambigua, tra dimensione pubblica e privata. A tale consapevolezza si aggiunge la possibilità per il soggetto in formazione di proiettarsi nella dimensione virtuale (Mark Warshauer, Technology and social inclusion. Rethinking the Digital divide, MIT Press, Cambridge (MA), 2004, p. 216), rivestendo le tecnologie di un ruolo rilevante per lo svolgimento della propria vita e dello sviluppo della propria personalità. L’interazione con altri soggetti, online e offline, in un contesto sociale trasformato dall’irrompere della tecnologia può indurre a radicalizzare l’importanza del ruolo della tecnologia stessa e a focalizzare la propria attenzione su certi aspetti della vita a scapito di altri (Lorenzo Nannipieri, La dimensione costituzionale del digital divide. Gli ostacoli cognitivi alla proiezione dell’individuo nello spazio virtuale, in P. Passaglia, M. Nisticò (a cura di), Internet e Costituzione, Atti del Convegno (Pisa, 21-22 novembre 2013, Giappichelli, Torino 2014, p. 192). Il rischio che ne può seguire è dunque che i ragazzi assumano come modelli determinati modi di pensare e agire veicolati dalla rete, attraverso la navigazione su siti in cui si informano e si formano. Corroborano così il proprio immaginario, polarizzandosi verso tutti quei dati che lo confermano.
Occorre dunque che le competenze tecnologiche acquisite inducano a utilizzare la rete certamente quale strumento indispensabile per la conoscenza, ma anche come strumento per instaurare ‘buone’ relazioni con il ‘mondo’, tra scuola, ragazzi e società. Mediatrici e, al contempo, veicolatrici di stili di vita le tecnologie della rete indirizzano, (in)volontariamente, i ragazzi a chiudersi all’interno del proprio modo di vedere la vita o li fagocita all’interno di ‘nuovi mondi’.
E, invece, le tecnologie dovrebbero far raggiungere obiettivi diametralmente opposti, offrire la possibilità di aprirsi al mondo, a nuovi orizzonti di conoscenza, come del resto si adopera il PNSD, puntando sul rafforzamento delle competenze di cittadinanza. Tale orientamento non può essere attuato solamente attraverso regole e direttive; è necessario promuovere riflessioni etiche nei docenti e nelle famiglie, ma, soprattutto, nei ragazzi che devono essere motivati ad agire responsabilmente. Più si acquisiscono conoscenze, più si assumono responsabilità, ma è il momento in cui la complessità del ‘sistema-rete’ non può essere più sottovalutata e anche i giovani debbono sapere affrontare le criticità che ne possono derivare.
Sono problematiche che coinvolgono due aspetti importanti della relazione triadica ‘scuola-tecnologie-società’: il primo è legato prevalentemente al ruolo delle istituzioni e si potrebbe identificare con una particolare accezione del concetto di accountability (Fabio Monteduro, Evoluzione ed effetti dell’accountability nelle amministrazioni pubbliche, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna (RN) 2012, p. 63), il secondo, invece, è di pertinenza dei giovani internauti e concerne il concetto di responsabilità, intesa in senso soprattutto etimologico (come descritto da Francesco Miano in Responsabilità, Guida, Napoli 2010 ).
Per quanto concerne il primo aspetto, la scuola si trova oggi nella condizione di rendere conto ai giovani cittadini delle possibilità offerte dalle tecnologie. Intende far sviluppare competenze digitali ‘buone’ e insegnare, in parallelo, a evitare i possibili rischi che possono derivarne, ma anche a trarre vantaggio dalle opportunità emergenti. Allo stesso tempo, la scuola deve documentare queste attività, i risultati raggiunti e quelli ancora da raggiungere, le modalità utilizzate – per poter verificare gli effettivi successi e, eventualmente, insuccessi – prevedendo azioni di rafforzamento o rettifica in modo trasparente, per raggiungere i risultati attesi e non deludere le aspettative. Sono aspetti che possono collegarsi al concetto di accountability, nel senso etimologico di origine anglosassone di to account, ‘rendere conto’ e ability, ‘abilità’, ovvero la capacità del rendere conto. Ovvero un richiamo al principio di trasparenza, cardine dell’operato di una istituzione pubblica.
Sul secondo aspetto, invece, è opportuno appuntare l’attenzione affinché i giovani possano trovarsi nelle condizioni di un utilizzo consapevole e critico nei confronti di tali mezzi. Per crescere con e grazie alle tecnologie e non per esserne fagocitati al loro interno. Occorre che i ragazzi acquisiscano quelle conoscenze e capacità che possano renderli consapevolmente responsabili. Si tratta cioè di essere in grado di rispondere delle proprie azioni online e conseguentemente offline e di rispondere ai principi morali che hanno guidato ad un ‘buon’ utilizzo della rete davanti, in primo luogo, a sé stessi e, poi, alla comunità della rete nella sua complessità. Ciò che permette di prevedere, anche se solo parzialmente, le conseguenze che possono derivare dalle proprie scelte, utilizzando un certo mezzo tecnologico, divenendo responsabili, sotto alcuni aspetti, per le tecnologie stesse.
Sembra imporsi la necessità in rete di calibrare il concetto di responsabilità individuale alla luce di una responsabilità ‘collettiva’, di tutti gli attori in gioco, la quale si sostanzia nel porre l’individuo in condizione di avere competenze tecnologiche sempre aggiornate con l’evolversi del perfezionamento scientifico, che possano renderlo pienamente consapevole delle proprie scelte anche con la collaborazione ‘responsabile’ di tutti coloro che ’abitano’ la rete. Con l’aiuto di una adeguata formazione in primis e, poi, dell’esercizio critico delle abilità acquisite.
- Verso tecnologie ‘affidabili’
Solo se pienamente soddisfatte queste due condizioni, dunque – relativamente all’accountability istituzionale e alla responsabilità del soggetto in formazione – i ragazzi potranno affidarsi consapevolmente alle tecnologie, potendo tutelare la propria libertà di agire e i propri diritti.
La fiducia così acquisita, grazie ad una scuola pienamente digitale e alle proprie capacità di scelta ‘consapevole’, può consentire di stabilire online relazioni sulla base di un rapporto di interconnessione «fruito in una logica di reciprocità» (Baldassarre Pastore, Forme della fiducia nello spazio pubblico, in L. Alici, S. Pierosara, Generare fiducia, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 51 e ss). In tal modo si oltrepassa la ‘fiducia spontanea’, come quella che si genera nelle relazioni familiari e, che, in rete, nei social media soprattutto, si mira a emulare attraverso i legami tra ‘amici’ e ‘amici di amici’, a favore di una fiducia ‘impersonale’, che consente al giovane di affidarsi alle istituzioni che fanno da garante e a tutti i soggetti che gravitano nella rete più in generale, pur nella consapevolezza dei pericoli e delle opportunità che certe scelte potrebbero determinare. Il riferimento va dunque, più specificatamente, ad una ‘fiducia istituzionale’ (sulla scia di Niklas Luhmann, La fiducia (1968), il Mulino, Bologna 2012), fondata su sistemi e sottosistemi sociali, operanti online e offline.
Ma se la fiducia nelle istituzioni tradizionalmente intese, tra cui la scuola, si basa su un patto rinnovato ciclicamente, quella nei sistemi della rete deve essere accordata ogni volta che vi si accede, attraverso la conoscenza e la ponderazione di ogni azione. La rete può offrire informazioni obiettive e verificate, ma anche informazioni false o ambigue, non comprovate da fonti certe e diffondere immaginari e modus vivendi che condizionano i giovani, polarizzando il loro pensiero e, quindi, i propri comportamenti. In rete, nell’ambito del sovraccarico informativo cui siamo soggetti, la tendenza a preferire le informazioni che sono più vicine al nostro immaginario e al nostro modo di pensare sembra prevalere se non poniamo la giusta attenzione alle fonti e alla ricerca di un pluralismo di pensiero che può solo arricchire (E. Babad, E. Peer, & R. Hobbs, Media literacy and media bias: Are media literacy students less susceptible to nonverbal judgment biases?inPsychology of Popular Media Culture, 1(2), 2012, 97-107). La rete rischia altrimenti di diventare una grande azienda pubblicitaria che apre non tanto alla libertà di informarsi e informare, ma alla diffusione di pensieri, di beni e servizi che sembrano trasformarsi in brand. Questi meccanismi implicano necessariamente una lettura critica, poiché i ragazzi, nel lungo periodo, possono essere indirizzati verso comportamenti non del tutto consapevoli, fondati su scelte intuitive e d’impulso, piuttosto che ponderate razionalmente, come più frequentemente accade nel più ‘lento’ mondo offline. Il ruolo dell’immagine, la scelta dei colori e del posizionamento di certe informazioni le rende più facilmente memorizzabili come se lo schermo si configurasse alla stessa stregua di un grande dipinto interattivo, ricco di stimoli pensati per rimanere impressi nella mente del soggetto per il più lungo tempo possibile. Si pensi, ad esempio, al propagare anche degli advergames, che in rete veicolano pubblicità non solo di beni, ma di idee e immaginari sociali. In cambio di una esperienza di entertainment richiedono la registrazione dei dati personali dell’utente. Questo procedimento porta ad un più mirato monitoraggio dei movimenti online del soggetto iscritto alla piattaforma e alla personalizzazione dei messaggi ad esso diretti.
La fiducia deve quindi essere accordata nell’ambito di una zona intermedia tra la conoscenza acquisita e la inevitabile ‘non conoscenza’ di certe conseguenze che potrebbero derivare da alcune azioni, imponendo il riconoscimento dell’incertezza. Una incertezza non necessariamente negativa, ma che tiene in allerta e, allo stesso tempo, suggerisce riflessioni di ordine etico, richiamando, con forza, il concetto di responsabilità.
Altrimenti, come osserva Tim Berners Lee, il web rischia di tradire la fiducia dei suoi utilizzatori, e anziché essere al servizio degli interessi dell’umanità, com’era nelle intenzioni originarie del suo fondatore, può ingenerare un fenomeno non più human oriented, che solo una responsabilità partecipata può tenere sotto controllo (https://www.punto-informatico.it/cresce-la-web-science-la-scienza-della-rete/).