Ugo Morelli – HOMO SAPIENS DI FRONTE ALLA PRIMA OPPORTUNITÀ

HOMO SAPIENS DI FRONTE ALLA PRIMA OPPORTUNITÀ.
PROBLEMI GLOBALI E CONTROVERSI. 

«Ho scoperto che la terra è fragile,
e il mare leggero:
ho imparato che lingua e metafora
non bastano più
a dare un luogo al luogo»
[Mahmud Darwish]

«La spinta a diventare onnipotentemente liberi dal conflitto
ci mette nel pericolo di diventare causa
della nostra estinzione»
[H. F. Searles]

0. La forma dello stormo o del branco e la forma dell’umano.

Considerando i movimenti di massa degli uccelli e dei pesci e analizzando come fanno i banchi di pesci o gli stormi di uccelli a cambiare rapidamente forma, si fanno importanti scoperte, non solo sul comportamento di quegli animali, ma anche sull’articolazione delle possibilità distintive del comportamento umano.
Comportamenti massivi simili a quelli degli stormi o dei banchi sono a volte presenti anche nell’esperienza della specie umana? Pare proprio di sì, e a renderli possibili sembra essere una regressione o sospensione provvisoria delle nostre caratteristiche distintive specie specifiche. Secondo le ricerche sui pesci e sugli uccelli, i cambiamenti di forma dei banchi e degli stormi sono indotti da una propagazione «a valanga» dei segnali di comunicazione tra i singoli individui. Le emozioni massive sembrano generare qualcosa di simile nell’esperienza umana. La caduta di distanza dal fenomeno o dal problema, dalla relazione o dalla situazione, comporta una perdita della capacità critica e l’emergere di un «indifferenziato emotivo», in cui prevalgono l’autoreferenzialità individualistica in forma di «privatismo», o il coinvolgimento emotivo acritico. Scrive recentemente G. Turnaturi:

Al discorso pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui discrezione e della distanza fra sé e altro, si è sostituito il discorso emozionale, il discorso marmellata dove tutto diviene appiccicoso e dolciastro, dove ogni distanza fra Io e Tu, fra me e l’altro viene annullata nel mare di un presunto coinvolgimento.

Se come specie siamo distinti dal fatto che non possiamo sospendere la ricerca di significato, è pur evidente che per questa ragione sperimentiamo una dipendenza dal dominio e dalla storia che, se rinforzata dall’emozionalismo acritico, può portare a comportamenti collettivi in cui prevale il narcisismo e l’autoreferenzialità e dove lo spazio per la critica e il cambiamento è ridotto al minimo o tende a scomparire. I comportamenti umani in stato di difficoltà, in cui l’ansia supera certe soglie, tendono a rientrare in una prospettiva in cui le distanze sono ridotte, sia dagli altri individui, sia dalla dipendenza dalla situazione e la capacità analitica e critica implode in una individualizzazione ipertrofica. Ad essere negato è, in sostanza il conflitto fra sé e gli altri e il conflitto con la realtà costituita.
Sembra che la specie risponda alla intensificazione delle relazioni e alla densità demografica, nonché all’acuirsi dei problemi ecosistemici che trasformano il senso e le pratiche della vivibilità, in modo regressivo e implosivo, piuttosto che in modo progettuale. È possibile comprendere più approfonditamente la natura di questi problemi?

 1. Spaesamento e conoscenza.

Allontanandoci, per necessità e per scelta, dall’identità come un’isola, sradicati dal nostro isolamento, immersi nel mondo più grande, pauroso e attraente, sollecitante e terribile, terra di tutta l’umanità, unica e spezzata, viviamo allo stesso tempo nel contrappunto con quella terra di pochi, di noi, dell’origine, della memoria. Siamo locali e situati per necessità biologico-culturale e planetari per evoluzione storico-speciale. Quella memoria particolare da cui proveniamo come singoli individui e come specie, può alimentare ciò che è universale o può indurci a rinchiuderci in mura autocostrittive. Siamo di fronte a questa scelta e al centro della questione vi è, tra le altre, la categoria della vivibilità.
Il principale problema che quella categoria pone oggi riguarda il fatto che, in particolare nei paesi occidentali cosiddetti sviluppati, essa sembrava un problema risolto fino a non molto tempo fa e per certi aspetti ancora sembra tale. Si riteneva, cioè, e si ritiene che la crescita e lo sviluppo, fossero la via per il superamento del problema della vivibilità, avendo domesticato la natura e creato le condizioni per un sempre maggiore benessere economico. Le stesse contraddizioni di questa prospettiva, come le fortissime disuguaglianze con i paesi impoveriti, sono state e sono affrontate con l’ipotesi che un maggiore livello di crescita secondo i principi e le forme del modello di sviluppo dominante avrebbe risolto il problema. Anche i problemi posti a livello ambientale e di crisi delle risorse disponibili sono stati affrontati con la stessa prospettiva: saranno una maggiore crescita e un maggiore sviluppo tecnologico a consentire di affrontare la situazione e a risolverla. I conflitti posti dalla crescita e dal modello di sviluppo dominante vengono cioè considerati e affrontati all’interno della stessa cornice in cui quei problemi sono nati. Si dimentica così una delle principali leggi dei sistemi viventi che sostiene che la natura di una soluzione di un problema non può essere trovata nello stesso dominio in cui il problema è sorto.
Eppure noi oggi, in particolare nell’occidente ricco, sappiamo che ad una maggiore ricchezza non corrisponde affatto una maggiore felicità e un maggiore benessere complessivo. È possibile crescere sempre più e senza limiti? E lo sviluppo può essere, come si dice oggi con un’espressione un po’ alla moda, «sostenibile»? Pare che anche i più strenui sostenitori della crescita ad oltranza nutrano dei dubbi in proposito e che si debba cambiare sembra condiviso da tutti. Ecco quella che si pone forse come la più importante delle innovazioni a livello di scelte locali e non. Bisogna ripensare la società e l’economia inventando un’altra logica sociale [Bisogna ripensare la società e l’economia inventando un’altra logica sociale]. Il termine «decrescita», che può essere oggi solo sussurrato con cautela, è probabilmente una importante provocazione su cui si comincia seriamente a lavorare a molti livelli, inventando anche gli strumenti per ragionare e ridefinire l’ordine delle questioni e delle priorità. Un indicatore che da qualche anno è stato messo a punto, anche con il contributo dei più importanti organismi internazionali, è quello di «impronta umana». Misura quanto consuma un essere umano sul pianeta a seconda della società e dell’economia a cui appartiene; insomma, quale traccia lascia con il suo passaggio ognuno di noi. Come è facilmente prevedibile un americano o un europeo non solo consumano un numero smisurato di volte in più di un malgascio o di altri popoli impoveriti, ma consumano come se avessimo a disposizione otto o nove pianeti «terra». Lo stesso vale per il calcolo delle emissioni di carbonio che distruggono l’ozono.
Un testo recente di S. Latouche, La scommessa della decrescita, è una summa di uno dei padri fondatori della prospettiva della critica radicale alla società centrata sull’immaginario e la pratica dello sviluppo illimitato. In questo testo, il paradigma adottato è quello della bioeconomia, che pone al centro l’esigenza di riconnettere economia, biologia evolutiva e natura, come ambiente che comprende la specie umana e di cui essa è parte non separata né dominante.[1] Una via simile la intraprende Monbiot con il suo Calore. L’autore, che è vincitore del premio Global 500 dell’ONU per il suo impegno in favore dell’ambiente, lavora sulla categoria di «calotta» che viene, non solo scherzosamente, individuata come misura della nostra quota pro capite di emissione di carbonio, distruttiva dell’ozono. L’aspetto più rilevante del contributo consiste nel definire bilanci concreti e accordi ambientali come strumenti di intervento per stabilire azioni volte ad affrontare i limiti dello sviluppo. Monbiot si avvale di report scientifici di diversa provenienza, mettendoli in dialogo tra loro, in modo da creare un bilancio chiaro della situazione attuale. Dopodichè si cimenta in una serie di analisi per individuare soluzioni concrete che vanno dai modi dell’abitare, ai modi del viaggiare, ai modi del consumare. L’autore ritiene che non sia impossibile stabilizzare l’effetto serra entro il 2030. A patto che si mettano in pratica soluzioni che comportano un impegno diffuso e capillare, dalle istituzioni agli individui.
Sia nell’analisi di Latouche che in quella di Monbiot appaiono solo provvisori riferimenti al conflitto che sarà necessario attraversare per affrontare le questioni critiche individuate. Le trasformazioni necessarie auspicate e richieste dalle analisi degli autori, sono tali da rendere particolarmente difficile immaginare che si possano portare avanti senza un intenso impegno per la gestione evolutiva dei conflitti che quelle trasformazioni comportano.
Ernesto De Martino ha detto che solo chi ha un villaggio nel cuore ha la possibilità di misurarsi ed esprimere col mondo. Quel villaggio può divenire anche una gabbia, ma se riesce a trasformarsi in una base sicura, può generare esperienze emancipative di particolare rilevanza. Siamo ancora una volta di fronte all’ambiguità, a quelle situazioni tipiche dei sistemi viventi, in cui le condizioni di esistenza di una realtà contengono in sé, allo stesso tempo, i loro principali vincoli. L’ambiguità, da non confondersi perciò con l’equivocità, consiste nel fatto che siamo di fronte ad una situazione in cui non è possibile né rifugiarsi nel locale come via di fuga dai problemi generali, né pensare di attendere soluzioni dai massimi sistemi senza agire concretamente sulle questioni affrontabili su scala locale. Eppure tra revival etnici e chiusure localistiche da un lato e rinvii ad altre istanze politico-amministrative dall’altro, la situazione attuale si presenta in prevalente condizione di stallo. All’aumento della necessità di accedere ad un mondo la cui misura è planetaria, fa spesso da contrappunto un sentimento di inaccessibilità, di inadeguatezza e di incapacità, affettiva, informativa, conoscitiva, operativa. Queste polarità contingenti esigono contenimento.
S. Jay Gould ha affrontato la questione proponendo la potenza esplicativa della contingenza per comprendere la nostra condizione:

Io temo che homo sapiens sia una cosa tanto piccola in un vasto universo, un evento evolutivo estremamente improbabile nell’ambito della contingenza. Il lettore può prendere quella conclusione come gli pare. Alcuni troveranno quella prospettiva deprimente: io l’ho sempre considerata esaltante, una fonte insieme di libertà e di consapevole responsabilità morale.

Riconoscere che la nostra evoluzione è frutto della contingenza e che potevamo non esserci; ammettere che il caso interviene nella nostra origine e nella nostra evoluzione; tutto ciò può essere motivo di uno smarrimento e di una perdita o ragione di una responsabilità originaria, appunto, su cui basare una posizione inedita di fronte alla vita di cui facciamo parte [Riconoscere che la nostra evoluzione è frutto della contingenza può essere la base di una posizione inedita di fronte alla vita]. In questo secondo caso si porrebbero le basi per una costruzione di un nuovo immaginario in cui la specie potrebbe riconoscere la propria appartenenza alla natura e creare le basi per una nuova vivibilità. È di certo importante domandarsi come mai abbiamo cercato di separare la nostra esistenza dal resto della natura, per scoprire probabilmente uno dei tratti più impegnativi della nostra ambiguità. Le stesse condizioni evolutive che ci hanno reso coscienti di noi stessi e che hanno consentito la nostra autoelevazione semantica, hanno forse generato la nostra presa di distanza dalle origini evolutive naturali e hanno generato una reificazione di quella distanza fino a istituire una separatezza. La funzione rassicurante di questo processo è risultata di particolare efficacia, ma allo stesso tempo la nostra condizione è stata interpretata come eccezionale e necessaria rispetto al resto della natura che è divenuto, appunto, il «resto della natura» ed è stato relegato a funzione di sfondo, minaccioso in molti casi, ma sfondo, della nostra esperienza. A subire un particolare processo di espulsione e negazione è stato il ruolo del caso. L’evoluzione stessa è stata fino ad un certo punto intesa come necessità e l’adattamento ha prevalso come via evolutiva sull’exaptation riconosciuta solo recentemente come decisiva per la comprensione dei processi evolutivi e della nostra stessa storia di specie. Tutto ciò ci consente di accorgerci che siamo noi a cercare di neutralizzare il caso e la sua funzione per rispondere alla nostra ricerca di rassicurazione.
Una delle questioni epistemologiche fondamentali finisce perciò per essere quella relativa al rapporto tra esperienze e teorie. L’esperienza è allo stesso tempo opportunità e vincolo rispetto alla capacità di vedere. Come ha sostenuto Heinz von Foerster, noi non vediamo di non vedere. Con i nostri soli mezzi affettivi e cognitivi spontanei, vediamo poco e male. Anche se quei mezzi non vanno certo trascurati, in quanto noi possiamo potenziarli e amplificarli. Ne abbiamo la possibilità. Un apologo tratto dal settecentesco Preliminary Discourse on the Study of Natural Philosophy di JohnHerschelpuò essere di aiuto per comprendere meglio come conosciamo il mondo.

Nella vivace e piacevole descrizione fatta dal capitano Head a proposito del suo viaggio attraverso le Pampas del Sud America troviamo un aneddoto che fa giusto al caso nostro. La sua guida un giorno gli disse improvvisamente di fermarsi e indicando con un dito verso l’alto del cielo gridò: «un leone»! Sorpreso da una simile esclamazione … egli alzò gli occhi verso l’alto e potè a malapena vedere a grandissima altezza un volo di condor che si libravano in cerchio attorno ad un punto particolare. Sotto quel punto, oltre la portata della sua vista e di quella della guida giaceva la carcassa di un cavallo e su quella carcassa si trovava – come la guida ben sapeva – il leone … Il segnale degli uccelli costituiva per lui ciò che solo la vista del leone avrebbe potuto costituire per il viaggiatore, e cioè la piena prova della sua esistenza … .

A proposito della questione della correlazione tra le esperienze e le teorie è bene riconoscere, grazie all’apologo – ma anche come Albert Einstein e Maurice Solovine hanno evidenziato – che è una provvisoria «connessione intuitiva»  e non un percorso logico a condurre dall’esperienza agli assiomi dai quali traiamo conclusioni ; da quelle conclusioni possiamo giungere deduttivamente ad «enunciati particolari che possono pretendere di essere provvisoriamente ritenuti veri».
Nella produzione della scienza, poi, appare evidente il «fatto sociale» e il gioco circolare tra soggetti – relazioni – riconoscimento. Il distacco dal coinvolgimento, la riflessione rispetto all’esperienza, sono un processo sociale, dove l’intuizione a partire dall’esperienza singola non si può separare dal riconoscimento e dalla validazione sociale. Quella validazione sociale necessaria al riconoscimento è però anche foriera di vincoli spesso molto impegnativi, uno dei quali è la dipendenza dalla storia e dal cammino, del quale non è facile l’elaborazione evolutiva. Eppure è proprio da quella elaborazione che può scaturire oggi una prospettiva inedita per la nostra evoluzione di specie, un esercizio di futuro che ci consenta di creare un nuovo immaginario in grado di riconnetterci con la natura, superando la separatezza che noi stessi abbiamo creato. Per questo appare indispensabile attraversare l’ambiguità che lega inestricabilmente l’uno al noi. Nell’esperienza umana l’uno non si riduce mai al noi, anche se senza il noi non esisterebbe l’uno. Non si tratta però dell’unico paradosso chiamato in causa dalla vivibilità.

2. Memoria, conflitto e indifferenza di fronte al futuro.

L’autentico male che oscura e incupisce i nostri anni è la rimozione del futuro, cancellato quanto più avremmo bisogno di pensarvi [L’autentico male che oscura e incupisce i nostri anni è la rimozione del futuro]. Questo è il lapidario punto di vista di A. Schiavone. Ciò accade, allo stesso tempo, mentre non ci stiamo rendendo conto del punto in cui siamo arrivati.  Non rendersi conto del punto in cui siamo arrivati è una questione di memoria. La memoria, in base alle più recenti scoperte delle neuroscienze e della psicoanalisi, si presenta come l’indispensabile condizione per la concezione del futuro e per la vivibilità del presente. Nel processo di comprensione della natura biologica della mente umana si rivela uno stretto rapporto tra memoria, modi in cui ogni persona crea la consapevolezza di sé e determinazione della libera volontà e della capacità di scelta, come evidenza il premio Nobel E. Kandel. Ma oltre che coinvolgimento, memoria è anche capacità di presa di distanza. Proprio quella presa di distanza che può consentire la capacità critica e la nascita e lo sviluppo di una sfera pubblica. La valorizzazione del mondo emozionale delle persone, che è stata una conquista degli anni più recenti, corre infatti il rischio, come già si diceva, di far perdere la distanza tra il sé e l’altro, scambiando un presunto coinvolgimento per la partecipazione.
A questa «macchina delle emozioni» rivolge il proprio sguardo E. Illouz, interrogando la realtà attuale sull’ implosione nell’individualismo narcisistico. Da una tensione rivolta alla ricerca dell’autoconsapevolezza, verso lo smascheramento delle manipolazioni del potere, secondo la prospettiva di M. Foucault, la cura di sé sembra essere ridotta ad un merce di consigli nel mercato delle emozioni, la cui versione più recente è la cosiddetta «consulenza filosofica», che sembra giocarsi tra pessimismi catastrofisti e consolazioni moralistiche.
Tra gli altri, emerge un punto di crisi della modernità e sembra riguardare la separatezza che oggi sperimentiamo fra etica ed estetica, dimenticando, come ha sostenuto un grande poeta come J. Brodskij, che l’estetica è la madre dell’etica perché la contiene. Eppure, alle origini della tradizione occidentale, nella civiltà ellenica, la bellezza aiutava ad assicurare un consenso anche alla morale, perché riscuoteva un’approvazione indiscutibile, come sostiene L. Zoja. I greci, infatti, avevano un sistema di valori indivisibili, fatto di giustizia e bellezza. Noi, oggi, non siamo in grado di dire se è bello e giusto costruire una città come di solito la costruiamo, né se è bello e giusto utilizzare l’acqua potabile per lavare un’automobile, a fronte della penuria certa di risorse idriche in cui versiamo, né se è bello e giusto che persone sane utilizzino l’ascensore per salire e scendere in palazzi di due o tre piani. Non sappiamo stabilire un criterio per l’utilizzo appropriato dell’aria, né secondo giustizia, né secondo bellezza. Eppure cresce di ora in ora l’esigenza di farlo. Ancora Zoja sottolinea come anche il Rinascimento italiano sia stato un periodo di particolare civiltà per la corrispondenza importante fra bellezza e giustizia, fra piazza e palazzo. È stato l’avvento dell’utilitarismo funzionalista, trasposizione organizzativa del paradigma economico dominante dell’utilità attesa, a rompere quel legame. La privatizzazione della vita ha mandato in secondo piano la piazza, dove si godeva la bellezza gratuitamente insieme agli altri. La specializzazione dell’arte conduce ad una sua separazione dalla realtà e la volgarità si afferma come una condizione diffusa e normale, mentre la bellezza tende a divenire un’eccezione.
Se ci si domanda quale filo conduttore vi sia tra questi contributi, esso può essere rintracciato nel rapporto tra memoria, conflitto e indifferenza e nell’incidenza che i modi di manifestarsi di quella interdipendenza ha sulla possibile costruzione di un senso del futuro. Appare piuttosto evidente come la crisi della memoria e la predominante negazione con cui si trattano i conflitti del presente sia alla base della nostra difficoltà di concepire un progetto di futuro. Se S. Freud aveva potuto sostenere che la parola «civiltà» designa la somma delle realizzazioni che «servono a due scopi: a proteggere l’umanità dalla natura e a regolare le relazioni degli uomini tra loro», oggi noi possiamo constatare un radicale rovesciamento della questione; rovesciamento che, peraltro, si realizza in una generazione o due e, quindi, con una rapidità che rende particolarmente evidenti le difficoltà di apprendimento e cambiamento della nostra specie, le quali sono profondamente sfidate dalle trasformazione in corso. La più profonda delle trasformazioni riguarda proprio la protezione dalla natura da parte dell’uomo. Lo sviluppo creato per proteggerci dalla natura ci rende progressivamente sempre più consapevoli che esso stesso non è in grado di proteggere la natura dagli squilibri prodotti.
La «promessa delirante» di uno sviluppo senza fine, come la chiama E. Gaburri, ha portato il disagio della civiltà ad una soglia che lo lascia immaginare oggi «come una sorta di epidemia tragica, quanto silenziosa, che fa da contrappunto all’impotenza post-moderna». Le angosce arcaiche attivate dall’ambiente, presenti e attuali, si intrecciano oggi con le angosce contemporanee. Un nuovo immaginario, capace di generare un ordine appropriato al presente è fortemente ostacolato, probabilmente, dalla negazione di questo conflitto interno correlato al conflitto esterno e alle sue manifestazioni attuali.

3. Da una vivibilità spontanea a una vivibilità scelta.

(da) “contro”(a) “con”

La vivibilità in un contesto o ecosistema è stata sempre relativa all’enactment per homo sapiens. È stata l’azione dell’uomo a creare coevolutivamente l’ambiente che l’uomo ha definito tale. L’uomo si è sempre costruito l’ambiente, dall’avvento evolutivo della coscienza di essere cosciente in poi, da quando cioè è divenuto almeno in parte consapevole di sapere, in alcuni casi e con un certo impegno di non sapere e, purtroppo, non consapevole, se non con un elevato investimento, di non sapere di non sapere. L’enactment indica la capacità e potenzialità dell’uomo di emettere, emanare azioni e segnali trasformativi in grado di creare l’ambiente di cui lo stesso creatore è parte. Di creare quello che con una parola abusata ma di importante pregnanza, si può chiamare «ecosistema». Dalle origini fino all’avvento dell’agricoltura l’uomo si è confrontato, combinato, accoppiato, con l’ambiente, per lo più in modi drammatici. Ha creato, soprattutto subendolo, l’ambiente di vita, il proprio lifespace. Da tredicimila anni circa fino a oggi l’enactment è stato praticato mediante la progressiva riduzione dell’angoscia derivante dalle minacce della natura. Quella riduzione ha aumentato la vivibilità nella natura mediante il suo controllo, fino al suo dominio. Da una vivibilità spontanea e contro la natura, si è prima gradualmente e poi rapidamente passati ad una vivibilità in cui il principale pericolo per l’evoluzione naturale della vita è l’uomo stesso. [Da una vivibilità spontanea e contro la natura, si è passati ad una vivibilità in cui il principale pericolo per l’evoluzione naturale della vita è l’uomo stesso] Si è trattato, perciò, nella memoria di specie, di un salto da una condizione estrema ad un’altra, senza cogliere le condizioni di una vivibilità scelta, di una vivibilità nella e con la natura.

Ieri: Homo < Natura
Oggi: Homo > Natura

obiettivo, per ora mancato
Homo = Natura

Per affrontare queste questioni è necessaria una critica ai tradizionali concetti di: sviluppo, sostenibilità, equilibrio, decrescita. Le aree principali di azione innovativa richiesta e necessaria tendono a corrispondere a: demografia (equilibri-squilibri demoeconomici), acqua, aria, terra, energia.

4. La prima e l’ultima possibilità.

L’evoluzione è come vanno le cose. Lo sviluppo è come vorremmo che andassero, come noi esseri umani intenzionalmente ci impegniamo per farle andare. La forbice tra questi due processi è andata sempre più allargandosi. La stessa ragione che ci ha fatto divenire capaci di pensare a quello che ancora non c’è, di concepire la possibilità di emanciparci dallo stato naturale, è quella che ci porta oggi ad una soglia di rischio radicale: l’autodistruzione. È questo il nostro principale conflitto, oggi, ed è trattato principalmente se non esclusivamente con la negazione: ci poniamo di fronte ad esso negandolo, evitando di affrontarlo e facendo gli struzzi.
Straordinario destino, quello della nostra generazione. Siamo nati e cresciuti convinti, con l’aiuto della scuola, che la vita e la storia avessero circa seimila anni e che lo sviluppo fosse crescente e inarrestabile. Giunti all’età adulta facciamo i conti col fatto che il tempo è invece profondo, e lo spazio infinito. Nessun altra generazione ha vissuto, forse, la stessa ansia e la stessa meraviglia. Viaggiamo oggi nel micro profondo e nel macro infinito oltre ogni immaginazione possibile solo quando eravamo bambini. Siamo tesi fra la nostra storia e il nostro presente possibile e, nonostante le nostre difese, ci dilatiamo, dilatando l’area della nostra coscienza di specie. La conoscenza che abbiamo raggiunto su evoluzione e storia, su vita e risorse del pianeta che abitiamo è la più alta; per raggiungerla abbiamo creato un apparato tecnico scientifico che porta alla soglia estrema i rischi di autodistruzione. La possibilità e il vincolo coincidono. Mai come oggi possiamo autodistruggerci e mai come oggi possiamo riconoscerci [Mai come oggi possiamo autodistruggerci e mai come oggi possiamo riconoscerci]. Ci misuriamo quindi con la prima e l’ultima possibilità: la prima possibilità di essere artefici del nostro destino coincide con l’ultima che abbiamo. Il conflitto più vertiginoso e sollecitante, il più rischioso e, potenzialmente, il più generativo.
In questa condizione la creatività diviene necessaria e ci pone di fronte ad un’ulteriore livello di ambiguità: la creatività non può essere necessaria; le sue condizioni più favorevoli sono l’eccedenza, l’emergenza spontanea, la discontinuità inedita e imprevista. Eppure oggi non ci basterà scoprire ma sarà l’invenzione a farci evolvere in una direzione imprevista e inedita per avere un presente e un futuro. Così si disegna la complessità della nostra condizione presente e la nostra difficoltà a cambiare idea su noi stessi, sul presente e sui vincoli e le possibilità che abbiamo.

5. Generatività, distruttività, conflitto e trasformazione.

Come ognuno di noi può constatare anche direttamente, non vi è una separazione netta o un’alterità assoluta tra l’esperienza consolidata e il cambiamento e l’innovazione, ma piuttosto un processo di elaborazione a volte lento, a volte abbastanza immediato, che non è lineare ma conflittuale. Gli stati di definizione stabile di quanto è costituito sono, inoltre, abbastanza rari, essendo sempre almeno in parte sfrangiati e tendenti a manifestare discontinuità e nuove espressioni di prospettive inedite. Così come i processi costituenti sono intrisi delle latenze, delle influenze e spesso delle continuità resistenti di quanto è istituito. L’evoluzione, perciò, più che negli stati precedenti e successivi, si manifesta peculiarmente nei processi di trasformazione. La natura di quei processi tende ad essere eminentemente conflittuale. La crisi non è, quindi, una patologia dell’evoluzione sociale, ma una condizione costante della trasformazione e dell’incessante dinamica tra istituente e istituito. La nostra propensione a semplificare, nel momento in cui predomina l’esigenza di rassicurazione e l’ansia di certezza, ci porta non solo a ridurre la complessità evolutiva dei processi, ma anche a naturalizzare e reificare un aspetto del tutto, fissandolo come causa unica di effetti certi. Si crea una polarizzazione, spesso dualistica, per opposti, come accade ad esempio per la dimensione generativa e creativa, da un lato e il generato e il fatto dall’altro. La tensione essenziale, come la chiama opportunamente Thomas Kuhn, viene posta in secondo piano e tende a scomparire a favore del suo prodotto che, da dinamico, è naturalizzato come statico dagli attori stessi. È come se non sopportassimo a lungo di riconoscere la nostra azione generativa costante, risolvendo la tensione in una reificazione.
Riflettendo sui nostri stessi movimenti mentalrelazionali, affettivi e cognitivi, si può riconoscere come tendiamo prevalentemente a trattare come opposti, intuente e istituito, generatività e distruttività. Eppure alla radice della loro origine la dimensione generativa e quella distruttiva dei processi evolutivi tendono a coincidere [alla radice della loro origine la dimensione generativa e quella distruttiva dei processi evolutivi tendono a coincidere]. Alla sua essenza, un processo generativo è possibile in quanto perturbazione e trasformazione di uno stato, di un equilibrio. Sia nell’esperienza di creazione che in quella di distruzione noi ci avviciniamo al «punto zero» ed essenziale, originario e vertiginoso, dell’inizio e della fine. Tendiamo verso quel punto per sentire la vita. Lo facciamo in condizioni estreme nell’esperienza di creazione artistica e di terrore o distruttività. Altre esperienze, come la fruizione estetica o l’amore, possono avvicinarci a quel punto. Tra la crisi e l’emergenza della trasformazione soggettiva e collettiva si colloca la potenza del pensiero del «maledetto di Amsterdam», il marrano Baruch Spinoza. La via per portare a compimento la maturazione di un pensiero dell’immanenza assoluta passa, secondo Spinoza, per la critica alla chiusura delle filosofie della trascendenza e del totalitarismo. Si concretizza straordinariamente in Spinoza una convergenza delle due forme e strutture di pensiero, lavorando al riconoscimento di quanto Einstein sosterrà molti anni dopo: «La filosofia senza la scienza è vuota. La scienza senza la filosofia è arida». In conflitto e cooperanti, la dimensione emotiva e quella della ragione fondano il nostro conoscere e la stessa democrazia. In questo modo Spinoza crea un paradigma della conoscenza che vede nel vincolo la condizione della possibilità, proponendo una visione potente e sovversiva della filosofia, della politica, dell’etica e del diritto.
Gli esseri umani stanno tesi nella crisi tra «io» e «altro» e non riescono ad eccedere al conflitto. Non stanno o di qua, il sociale integrato, o di là, i molti solitari. Non ci è dato di uscire dalla relazione perché non saremmo più umani e non saremmo più noi stessi. La condizione attuale è di tensione critica in relazioni in parte alienate e in parte alienanti mentre cerchiamo, anche incorporando sofferenza, le vie dell’utopia della socialità possibile. Ma le sollecitazioni della modernità in polvere, come opportunamente la chiama Arjun Appadurai, mentre portano alla crisi del legame sociale tradizionale, non interrompono di certo la nostra ricerca di quel legame a mutate condizioni. Le difficoltà che incontriamo ci fanno vivere oggi la me-ness, la crisi del legame sociale, appunto, ma allo stesso tempo la distruzione di una forma ci fa tendere a generarne un’altra. Di questo soffriamo e viviamo. Non di «moltitudine», o di «modernità riflessiva» o «liquida», palliativi concettuosi e verbosi di chi pretende di spiegare la realtà soffermandosi  alle descrizioni superficiali e apparenti.
È probabile che il «modello dei modelli» sia l’«antropocentricità» e che esso rappresenti un vincolo epistemologico di base. Se tutto ciò che homo sapiens esprime non può che essere una proiezione antropologica, vincolata dai tratti distintivi, caratteristici ed evolutivi, propri degli individui e della specie, prende forma in tal modo un metamodello che funge da frame a tutti gli altri [Se tutto ciò che homo sapiens esprime non può che essere una proiezione antropologica, prende forma un metamodello che funge da frame a tutti gli altri]. È proprio alla evoluzione di quel metamodello che è opportuno lavorare al fine di non sentirsi più sopra le parti ma parte del tutto, da parte di homo sapiens. Riconoscere l’esistenza dei modelli che si adottano e proiettano non vuol dire tendere ad una situazione in cui sarebbe possibile esistere e rapportarsi al mondo senza modelli. Senza modellizzazione non vi è conoscenza. Vuol dire bensì creare le condizioni per vivere i modelli come parziali, provvisori e flessibili, grazie alla disposizione e capacità ad elaborare la conflittualità che la loro messa in tensione comporta. La capacitazione si configura in tal senso come ampliamento delle possibilità reali delle persone. L’azione diviene perciò un modo di aumentare il numero delle possibilità. D’altra parte, come ha puntualmente sostenuto Giorgio Prodi:

Non vi è alcuna possibilità di produrre ex-novo la realtà ma solo di modificarla conoscendola, specializzandosi nella capacità di percorrere le sue connessioni.

Gli sguardi da lontano, dal teatro interno e dal teatro esterno nei cui drammi ci esprimiamo, possono dislocarci verso il molteplice e aiutarci a riconoscere l’unità che ci distingue come specie tra le specie e parte della evoluzione naturale.

6. E allora? I problemi reali non sono quelli apparenti. Problemi globali e controversi.

Si può notare che tante più difficoltà incontrano le amministrazioni pubbliche e ognuno di noi nella propria autocollocazione individuale, quanto più i problemi non sono tradizionali. Intendiamo per problemi tradizionali quelli che si possono affrontare in modo lineare. In quei casi a problema corrisponde soluzione più o meno efficace. I problemi attuali, quelli prevalenti, nella maggior parte dei casi sono globali e controversi e si presentano invece come vincoli. Un vincolo non è una questione risolvibile lasciando intatta la posizione di chi vuole risolverla. Un vincolo si può elaborare in modo da cercare una possibile evoluzione che coinvolgerà inevitabilmente il risolutore stesso, le sue scelte e i suoi atteggiamenti e comportamenti. Un vincolo ci chiede di uscire dalla nostra consuetudine a dipendere dal passato e a rassicurarci nella ripetizione quando scegliamo. È necessario riconoscere che non si può conoscere né tanto meno cambiare un sistema senza farne parte e senza partecipare della sua dinamica e della sua evoluzione [È necessario riconoscere che non si può conoscere né cambiare un sistema senza farne parte]. Così come allo stesso tempo è necessario ammettere che le soluzioni di un problema non sono solo all’interno del sistema e del contesto in cui il problema sorge e si afferma. Si richiede a questo livello una cultura e uno stile di negoziazione e decisione diverso. Non si tratta di concertare ma di negoziare e di scegliere in base a priorità che possono essere anche scomode e conflittuali, in quanto impattano con comportamenti consolidati.
L’avvio di un modo inedito di amministrare è richiesto dalla natura nuova dei problemi, come l’ambiente e la tutela delle risorse, l’aria che respiriamo e la sua salvaguardia, la convivenza interculturale e le sue implicazioni, la bioetica e la ridefinizione del senso e del significato della vita. Vi sono già esempi di tentativi efficaci ma resi difficili dalla novità dei problemi e del metodo. Sono necessari nuovi lineamenti di orientamento e di pratica politica. Se si presta attenzione alla fatica di delineare quegli orientamenti e quelle pratiche si può scoprire quale cambiamenti profondi siano richiesti, quale trasformazione sia necessaria. Una trasformazione che è richiesta sia nella palestra della politica locale che in quelle delle politiche nazionali e internazionali. Questo terreno è tra l’altro uno spazio privilegiato per connettere la politica alle preoccupazioni delle persone, per intervenire nello scollamento tra cittadini e politica. Se saremo capaci, con la partecipazione pubblica e con le scelte amministrative, di sviluppare una nuova connessione con i problemi reali, avremo fatto un passo avanti. Ma soprattutto diverrà alla fine evidente se avremo usato la nostra capacità distintiva di autoelevarci, per perderci o emanciparci. Per la prima volta il destino che abbiamo lo scegliamo noi, riconoscendo allo stesso tempo e con difficoltà che non siamo un destino ma un progetto ed un’invenzione. Reinventarsi vuol dire oggi cercare, come specie, di passare dalla convinzione di essere sopra le parti, ad essere parte di un mondo.

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[1]In Come sopravvivere allo sviluppo, Latouche si era già soffermato sull’analisi dell’immaginario, con un riferimento particolare alle analisi di Cornelis Castoriadis. Nel libro venivano analizzati anche gli indicatori alternativi per uno sviluppo umano appropriato e si consideravano le variabili demografiche connesse alle risorse disponibili, secondo una tradizione di studi che richiamava gli importanti contributi di Gaston Bouthoul sugli equilibri demoeconomici.

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