Stefano Zamagni – FONDAZIONI CULTURALI E CAPITALE CIVILE

(estratto da Paradoxa 1/2009)

È oggi ampiamente riconosciuto, anche se ancora non da tutti, che lo sviluppo economico moderno, e più in generale il progresso delle nostre società, più che il risultato dell’adozione di più efficaci incentivi odi più adeguati assetti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura. È accertato che l’idea per la quale incentivi e istituzioni efficienti generano risultati positivi a prescindere dalla matrice culturale è destituita di fondamento, dal momento che non sono gli incentivi di per sé, mail modo in cui i soggetti li percepiscono (e ad essi reagiscono) a fare la differenza. E i modi di reazione dipendono proprio dalla specificità della cultura, la quale è connotata dalle tradizioni, dalle norme sociali di comporta-mento, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. È noto che valori e disposizioni quali la propensione al rischio, l’atteggiamento nei confronti del lavoro, la tendenza a fidarsi degli altri, l’idea di uguaglianza, la prevalenza del principio della colpa rispetto a quello della vergogna, ecc., sono fortemente connessi alle peculiarità culturali prevalenti in un determinato contesto spazio-temporale. L’economia di mercato di tipo capitalistico, al pari di altri modelli di ordine sociale, ha bisogno per la sua continua riproduzione di una varietà di input culturali che essa stessa non è in grado di produrre, anche se con-corre certamente a modificarne le fattezze nel corso del tempo. Possiamo sintetizzare quanto precede dicendo che il fattore decisivo su cui fare leva per alimentare la dinamica evolutiva del progresso è il capitale civile. Tre sono, basicamente, i nuovi elementi costitutivi. Il primo è il capitale sociale inteso come insieme di relazioni fiduciarie fondate sul principio di reciprocità. Come Robert Putnam ha bene chiarito nel suo pionieristico contributo del 1993, tre sono le tipologie di capitale sociale: bonding, bridging, linking. Il primo tipo è l’insieme delle relazioni che si instaurano tra persone che appartengono ad un medesimo gruppo sociale caratterizzato da forte omogeneità di valori e di interessi: la famiglia, un’associazione, una comunità di paese. Si creano bensì in tal modo rapporti fiduciari, ma di corto raggio; si realizzano bensì forme di solidarietà, ma a beneficio principalmente dei componenti il gruppo. Bridging, invece, è il capitale sociale che persone, appartenenti a gruppi culturalmente distanti e perfino con interessi tra loro divergenti, riescono ad accumulare in forma stabile. Nasce di qui la fiducia generalizzata – cosa ben diversa dalla fiducia particolaristica di cui sopra – che è il fattore chiave di avanzamento nelle economie di mercato: abbassando significativamente i costi di transazione, la fiducia generalizzata rende più agevole la stipula dei contratti e più credibile la loro esecutorietà. Infine, il capitale sociale di tipo linking è la rete di relazioni tra organizzazioni della società civile (associa-zioni, fondazioni, ONG, chiese), soggetti della società commerciale (imprese, istituzioni economiche) ed enti della società politica (istituzioni politiche e amministrative) volte alla realizzazione di opere ed iniziative che nessuna delle tre sfere in cui si articola la società, da sola, sarebbe in grado di attuare. Il principio regolativo che sostiene tale forma di capitale sociale è quello di sussidiarietà circolare. Come noto, se l’accumulazione di capitale sociale di tipo bonding avviene a spese di quella di tipo bridging – il che succede in società di tipo comunitaristico – o se quest’ultimo non favorisce la creazione di capitale sociale linking – come accade in quelle società dove prevale il canone del privatismo sociale – può accadere chela dinamica del progresso anziché aumentare abbia a ridursi. Ci spieghiamo così perché parecchie ricerche empiriche sulla rilevanza pratica del capitale sociale giungono a conclusioni tra loro discordanti: in taluni casi, la correlazione tra capitale sociale e sviluppo è positiva, in altri è addirittura negativa. Se non si tengono presentii possibili effetti incrociati tra le tre forme di capitale sociale è faci-le “leggere male” i dati delle pur elaborate e raffinate indagini econometriche.

Il secondo elemento costitutivo del capitale civile è il cosiddetto “capitale istituzionale”, cioè l’assetto politico-istituzionale e in particolare il modello di democrazia vigente. È oggi riconosciuto che è la diversa qualità del capitale istituzionale a determinare, in gran parte, le differenze di performance economica di Paesi pur caratterizzati da dotazioni sostanzialmente simili di capitale fisico e di ca-pitale umano. In altro modo, senza nulla togliere alla perdurante importanza dei fattori geografico-naturali e di quelli fisici, è un fatto che l’assetto istituzionale di un Paese è, oggi, l’elemento che più di ogni altro spiega la qualità e l’intensità del processo di sviluppo di una determinata comunità. L’esempio più rilevante di istituzioni politiche è costituito dal modello di democrazia in atto in un determinato Paese: elitistico-competitivo, oppure populistico, oppure comunitarista, oppure deliberativo. Ebbene, con riferimento all’attuale passaggio d’epoca, il modello elitistico-competitivo di demo-crazia – la cui elaborazione è associata ai nomi di Max Weber e Joseph Schumpeter – i cui meriti storici sono fuori di ogni dubbio, non è più in grado di assicurare elevati tassi di progresso e di dilatare gli spazi di libertà dei cittadini. È piuttosto il modello deliberativo di democrazia la meta verso cui tendere se si vuole aumentare lo stock di capitale civile. Come indica Viola (2003), tre sono i caratteri essenziali del metodo deliberativo. Primo, la deliberazione riguarda le cose che sono in nostro potere (come insegnava Aristotele, non deliberiamo sulla luna o sul sole!). Dunque, non ogni discorso è una deliberazione, la quale è piuttosto un discorso volto alla decisione. Secondo, la deliberazione è un metodo per cercare la verità pratica e pertanto è in-compatibile con lo scetticismo morale. In tale senso, il modello deliberativo non può essere una pura tecnica senza valori; non può ridursi a mera procedura per prendere decisioni. Terzo, il processo deliberativo postula la possibilità dell’autocorrezione e quindi che ciascuna parte in causa ammetta, ab imis, la possibilità di mutare le proprie preferenze e le proprie opinioni alla luce delle ragioni ad-dotte dall’altra parte. Ciò implica che non è compatibile col metodo deliberativo la posizione di chi, in nome dell’ideologia o della difesa degli interessi della propria parte, si dichiara impermeabile alle altrui ragioni. È in vista di ciò che la deliberazione è un metodo essenzialmente comunicativo. Secondo l’opinione di Cohen (1989), la democrazia deliberativa è una «deliberazione pubblica focalizzata sul bene comune», nella quale chi vi partecipa si dichiara disponi-bile a mettere in gioco le proprie preferenze iniziali, poiché «le preferenze e le convinzioni rilevanti sono quelle che emergono da o sono confermate per mezzo della deliberazione» (p. 69). Dal punto di vi-sta della legittimità democratica, i risultati del processo deliberati-vo valgono «se e solamente se possono essere l’oggetto di un libero e ragionato consenso tra uguali» (p. 73). Una conferma recente della rilevanza pratica dei metodi della democrazia deliberativa al fine di migliorare l’efficacia dell’azione di governo ci viene dalla vasta indagine condotta dalla Banca Mondiale – consultabile al sito http://www.govindicators.org– su 37 Paesi. A parità di assetto costituzionale e di quadro giuridico e in condizioni basicamente omogenee di sviluppo economico, più alta è la partecipazione politica dei cittadini in forme quali i forum deliberativi, i sondaggi deliberativi, le giurie popolari, ecc., più alta è la qualità dei ser-vizi pubblici e più elevata la credibilità dei governi. D’altro canto, se in riferimento al lavoro di Bowles e Jayadev(2007), si vanno a considerare i principali fattori da cui dipende la Vertiginosa crescita del lavoro di tutela, si scopre che questi fattori –la disuguaglianza economica, il conflitto politico, il conflitto identitario – hanno tutti a che vedere con una carente o inadeguata applicazione del principio democratico. Infine, il terzo elemento costitutivo del capitale civile è rappresentato dalle specificità della matrice culturale che plasma l’ethos pubblico di una comunità o di un Paese. Come abbiamo già detto, lo sviluppo economico moderno più che il risultato dell’adozione dipiù efficaci incentivi o di più adeguati assetti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura. Un caso notevole che conferma quanto detto è quello della rivoluzione industriale. Questa ebbe a realizzarsi in Inghilterra in un periodo (il XVIII secolo) in cui istituzioni e incentivi economici erano rimasti basicamente gli stessi di quelli dei secoli precedenti. Un solo esempio: le opportunità di profitto assicurate dalla conversione dei terreni a proprietà comune in terreni a proprietà privata – opportunità già presenti da secoli – cominciarono ad essere sfruttate solamente quando lo spirito imprenditoriale di tipo capitalistico iniziò a diffondersi in segui-to ad un marcato rivolgimento culturale associato alla linea di pensiero T. Hobbes-B. Mandeville-J. Bentham. Un interessante e puntuale resoconto di tale vicenda si trova in G. Clark, Farewell to alms (Princeton 2007). Altra autorevole conferma ci viene dal celebre la-voro dello storico economico Avner Grief sulle comunità di mercanti medievali tra il Magreb e il Mediterraneo. In esso, lo studioso americano mostra con dovizia di particolari come il successo compara-to dei mercanti genovesi sia da attribuire, in primis, alla prevalenza presso costoro di una cultura i cui codici simbolici e le cui norme di comportamento sociale favorivano la cooperazione economica e, inconseguenza di ciò, facilitavano l’attività di scambio grazie alla riduzione dei costi di transazione. Su un elemento specifico della matrice culturale desidero soffermare brevemente l’attenzione. Esso riguarda la questione calda del-la laicità, una questione oggi al centro di un dibattito che investe non solamente la sfera politico-sociale ma anche quella religiosa. Quali ragioni e quali novità hanno riacceso, in tempi recenti, soprattutto in Europa e in Italia in particolare, la questione della laicità conducendola al centro di un dibattito che investe non solamente la sfera politico-sociale ma anche quelle culturale e religiosa? Se ne posso-no indicare alcune che, sebbene non uniche, sono certamente tra le più rilevanti. La compresenza nel corpo delle società occidentali di tante etnie che reclamano un riconoscimento nello spazio pubblico rimette in discussione il principio liberale di una neutralizzazione di quello spazio come risposta al multiculturalismo, riproponendo una nuova articolazione del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata. Secondo, le occasioni offerte dal principio di sussidiarietà all’autorganizzazione delle presenze etico-religiose pongono in questione il tradizionale assioma della neutralità delle istituzioni pubbliche e crea-no, al tempo stesso, resistenze verso una temuta rivalsa del religioso, soprattutto nelle sue valenze culturali e storiche. Terzo, la società dopomoderna ha bensì ereditato dall’Illuminismo la cultura dei diritti, smarrendone però il fondamento morale originario: non più diritti al di sopra delle differenze, in quanto espressione di una comune umanità, ma il diritto che ciascuno ha ad affermare la propria diversità. Infine, l’abbandono del pensiero “forte”, al quale si riconosce la capacità – almeno potenziale – di giungere a verità universali, ha finito col conferire alla libertà una forma libertaria: essere liberi significa “inventarsi” la propria identità. Donde la nozione di libertà come auto-creazione, cui fa chiaramente da ostacolo l’idea stessa di una natura umana che antecede le proprie scelte. Non v’è chi non veda l’urgenza di aprire un dibattito civile, libero da ideologismi di sorta, un dibattito cioè in cui venga accolto e rispettato il principio di simmetria, che costituisce un’applicazione particolare del più generale principio di reciprocità. Non accadrebbe allora che i cittadini di fede cattolica, quando difendono nell’agorà della polis una certa posizione, vengono considerati come se fossero dei “crociati”, mentre i cittadini non cattolici – credenti di altre fedi o atei – quando difendono passioni opposte a quella vengono giudicati promotori dell’autentico progresso morale. La nuova laicità di cui oggi si ha bisogno non consente semplificazioni o scorciatoie del genere. Ma come uscire dalla logica dello scontro se non si costituiscono luoghi in cui laici credenti e laici non credenti possono coabitare serenamente in una armoniosa concordia discors? Come superare la cultura del sospetto che rischia di distruggere il nostro capitale sociale se non si organizzano luoghi che valgono ad abbattere antichi steccati per far avanzare quella “ragionevolezza civica” di cui parla W. Galston? Ebbene, è quando si arriva a tale stadio di consapevolezza che si comprende a cosa dovrebbero servire le Fondazioni culturali nel nostro Paese. Prevengo un’obiezione: non ci sono già le Università? Non si dovrebbe affidare loro il compito di ricostruire la matrice culturale? In astratto, la risposta è certamente positiva; ma nel panorama attuale si deve riconoscere che l’Università non ha la forza di perseguire un tale obiettivo. Duplice la ragione. La prima è bene resa dall’aforisma che dice: la realtà ha problemi, l’Università ha dipartimenti! Invero, la dipartimentalizzazione del sapere se, per un verso, ha accresciuto la produttività del lavoro intellettuale, per l’altro verso ha distrutto la tensione verso l’unum vertere, che è quanto si richiede per ricostruire una matrice culturale. La seconda ragione che dice dell’inadeguatezza dell’Università contemporanea rispetto allo scopo di cui ci stiamo occupando è che, in seguito all’affermazione del modello anglosassone e soprattutto americano, questa gloriosa istituzione è ormai diventata un luogo di produzione di competenze, non già di cultura. All’Università si chiede, con insistenza crescente, di produrre competenza a beneficio soprattutto dei giovani. Ora, competenza è parola che condivi-de la medesima radice di competizione: è competente chi sa competere e la competizione sprona ad acquisire competenza. Ne deriva che l’Università può formare e sviluppare competenza tra i suoi “abitanti” (studenti e docenti) solamente se essa stessa diviene luogo di competizione. Siamo così arrivati al punto decisivo dell’argo-mento: la matrice culturale per formarsi ha bisogno di cooperazione, non di competizione. Per afferrare il punto, conviene porre mente alla differenza esistente tra il modello della competizione e quello della cooperazione. Entrambi rappresentano modelli d’azione comune, di azione, cioè, che per essere compiuta ha bisogno del consenso intenzionale di più soggetti. La differenza tuttavia è nell’oggetto della comunanza. Quest’ultima può realizzarsi intorno ai mezzi oppure intorno ai fini dell’azione stessa. Nel primo caso, si ha il modello della competizione; nel secondo caso, il modello della cooperazione. Ne consegue che quando il “comune” dell’azione si limita ai soli mezzi, il problema da risolvere è quello della coordinazione degli atti di tan-ti soggetti; quando il “comune” dell’azione si estende ai fini, il problema che va risolto è come realizzare la cooperazione. Da tempo ormai l’Università ha abbandonato il modello cooperativo per ab-bracciare quello competitivo – e se ne vedano i risultati. Ecco dunque le due ragioni principali per le quali si ha bisogno delle Fonda-zioni culturali (in altra sede mi occuperò di mostrare perché l’Università, se vorrà tornare ad essere luogo di educazione e non solo di formazione e quindi se vorrà concorrere a plasmare la matrice culturale della società in cui è inserita, dovrà tornare ad abbracciare il modello cooperativo). Per scongiurare il rischio della vaghezza, desidero chiudere questa nota con una proposta concreta. Pochi anni fa è stata costituita nel nostro Paese ASSIFERO, l’associazione italiana delle fondazioni di erogazione, delle fondazioni cioè di tipo erogativo distinte dalle fondazioni bancarie, espressione, in gran parte, dell’iniziativa di imprenditori for profit. Si tratta delle cosiddette corporate foundations dell’esperienza americana. Sono dell’avviso che sia giunto il tempo di rafforzare e istituzionalizzare allo stesso modo anche la sinergia tra le fondazioni culturali, che sono di tipo operating e che, in quanto tali, si collocano in posizione simmetrica rispetto a quelle aderenti ad ASSIFERO, che sono appunto fondazioni di tipo grant-making. Tre gli obiettivi principali che l’azione comune delle fondazioni culturali dovrebbe porsi. Primo, articolare una definita strategia di raccolta fondi. Come si sa, fino a tempi recenti la fonte prioritaria di risorse finanziarie perle fondazioni culturali è stata l’ente pubblico. Ma le difficoltà in cui versa la finanza pubblica non autorizzano a sperare che da tale fon-te possano derivare risorse significative per il futuro. D’altro canto, per loro natura le fondazioni culturali non sono attrezzate per lanciare con successo campagne di raccolta fondi, pur utilizzando le più sofisticate tecniche di marketing sociale. Ecco, dunque, un primo compito definire linee di intervento organiche (cioè non sporadiche) per incanalare risorse verso le singole fondazioni. Si pensi ai bandi di ricerca dell’Unione Europea, ai fondi del 5 per mille, alla predisposizione di strumenti comunicativi ad hoc. E così via. Un secondo obiettivo è quello di arrivare a costruire una sorta di massa critica per questo tipo di organizzazioni. Nessuna fondazione culturale, da sola, è in grado di raggiungere la soglia dimensionale al di là della quale è possibile realizzare appieno ruoli di advocacy nella società civile e di counseling presso le istituzioni pubbliche – parlamento e governo in special modo. Di un terzo obiettivo importante conviene dire. Si tratta dell’urgenza di arrivare a definire indicatori di efficacia dei prodotti gene-rati da una fondazione culturale. Quale la ratio di un obiettivo del genere? Quella di concorrere a diffondere nella cultura del nostro Paese la fondamentale distinzione tra fine e risultato di un’azione, vale a dire la differenza tra giudizio di efficienza e giudizio di efficacia. È questo un modo concreto per esaltare l’identità propria delle fon-dazioni culturali. È un fatto che ancora molto diffuso è il convinci-mento in base al quale l’unico banco di prova per giudicare dell’operato di una organizzazione non profit (ONP) debba essere quello dell’efficienza. Solamente se queste dimostrano di essere più efficienti delle organizzazioni private o di quelle pubbliche esse acquistano il “diritto di cittadinanza” nella nostra società, con tutto ciò che questo comporta a livello pratico. Ma dove conduce un tale modo di concettualizzare la funzione specifica delle ONP? A far diventare l’efficienza l’unico principio sul quale fondare l’accettabilità di un determinato ordine sociale. Perché mai la produzione di esternalità positive, nella forma specifica di aumento del capitale civile non dovrebbe giocare un ruolo altrettanto importante di quello di efficienza? Rispondere che ciò andrebbe a discapito della produttività– e cioè dell’efficienza – sarebbe cadere in una fallacia tautologica. Il primo passo per evitare che ciò accada è allora quello di precisare la differenza tra fine e risultato di un’azione, quale che essa sia (esemplifico: una persona ammalata riceve un certo trattamento terapeutico. Il risultato dell’azione compiuta dalla struttura sanitaria che l’ha presa in carico è rappresentato dall’esito della cura erogata ed è misurabile secondo canoni tecnici fissati in ambito medico. Il fine dell’azione, invece, potrebbe essere, in un caso, l’ottenimento di un profitto, in un altro caso, il conseguimento di un’utilità collettiva). Ora, mentre l’efficienza è la proprietà della relazione tra azione compiuta e risultato conseguito, l’efficacia dice della relazione tra azione e fine che si intende raggiungere. Se dunque si confonde risultato e fine di un’azione, si ha che efficienza ed efficacia diventano tra loro indistinguibili. Accade così che quando il banco di prova per giudicare della performance di una fondazione è solamente quello dell’efficienza, essa finisce col vedersi negata la sua ragione di esistere. Eppure, il valore di un risultato non si misura con gli stessi indicatori con cui si misura il valore di un fine. Il fatto – troppo spesso trascurato – è che i cittadini hanno preferenze non solo sui risultati, ma anche sui fini che muovono un’azione. Ecco perché è così importante arrivare a definire indicatori di efficacia per le fondazioni culturali. Solamente se arriveranno – sperabilmente in tempi brevi – a misurare quanto valore aggiunto sociale riescono a produrre con le loro molteplici attività, tali soggetti potranno reclamare per sé quell’autonomia e quella indipendenza (anche economico-finanziaria) cui mirano ormai da tempo. Mi piace chiudere con un pensiero di T. Eliot. La cultura – ha scritto il nostro – è come l’albero; che non si può costruire, ma solo pian-tare e attendere, con pazienza, che il tempo lo faccia crescere. Lo si può però coltivare, annaffiandolo e potandolo, per accelerarne il processo di crescita. Questo il senso di una associazione come quel-la cui qui si è fatto rapido cenno.

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