(estratto da Paradoxa 3/2008)
Nell’imminenza delle elezioni politiche del 2008 il quadro politico italiano si è scomposto e riaggregato, riducendo la sua storica frammentazione. Gli elettori si sono poi incaricati di semplificare ulteriormente tale quadro, eleggendo un parlamento che – per la prima volta nella storia repubblicana – ha un assetto quasi bipartitico. Lei pensa che sia infine giunto a maturazione il processo avviatosi nel 1994? E qual è, nel nuovo quadro politico, il ruolo del centrodestra?
CAMPI – Le elezioni del 2008 hanno rappresentato, secondo molti osservatori, un punto di svolta. Non solo per la drastica riduzione del quadro politico-parlamentare prodotta dal voto popolare, ma anche per alcuni degli effetti per così dire “secondari” determinati da quest’ultimo: la scomparsa della sinistra antagonista dai luoghi della rappresentanza politica istituzionale, il fallimento fatto registrare alle urne dalla destra radicale e nostalgica, la cancellazione dei socialisti, il ruolo di opposizione ad un governo di centrodestra nel quale si è trovata confinata l’Udc di Casini per un grave errore di calcolo politico commesso da quest’ultimo.
Ma ad essere cambiata radicalmente non è stata solo la geografia parlamentare: anche quella politico-culturale ha subìto una trasformazione profonda e per molti versi irreversibile. La vera novità di queste elezioni, infatti, è stata a mio giudizio rappresentata dall’affermazione elettorale riportata, nei due diversi campi, da due formazioni politiche, il Partito democratico e il Popolo della Libertà, che non hanno quasi più alcun rapporto diretto di filiazione con le culture e tradizioni politiche che hanno fatto la storia dell’Italia repubblicana e che per molti versi erano sopravvissute, almeno in parte, alla catastrofe prodotta da Tangentopoli. Questi due partiti, per quanto ancora scarsamente strutturati sul territorio e con un profilo identitario che per molti versi appare ancora debole o precario, hanno introdotto nella vita politica italiana un’effettiva discontinuità, sulla quale vale la pena soffermarsi.
Cominciamo dal Partito democratico. Punto d’incontro e fusione in una chiave post-ideologica della tradizione comunista e di quella cattolico-democratica, quest’ultimo ha sicuramente prodotto una rottura molto netta e per certi versi definitiva tra i riformisti, tra coloro cioè che oggi a sinistra si richiamano al mercato, non demonizzano il merito individuale e la funzione della leadership politica e perseguono politiche di modernizzazione economica e sociale, e l’ala massimalista e antagonista più direttamente legata (almeno sul piano simbolico) alla memoria del comunismo storico, che ha invece come obiettivo quello di gestire e rappresentare il dissenso sociale e le nuove forme di antagonismo di classe prodotte dalla globalizzazione. L’Unione di Prodi teneva unite queste due anime attraverso un duplice collante: sul piano ideologico, l’antiberlusconismo; sul piano pratico, una tecnica di occupazione e gestione del potere che proprio in Prodi – l’uomo delle partecipazione statali – aveva il suo garante. Ma ciò avveniva, come si è visto, al prezzo di contraddizioni e attriti che si sono alla lunga rilevati fatali per l’esperienza di governo dell’Unione. Veltroni, con un atto di indubbio coraggio politico, ha scelto invece di dividere la sua strada, di democratico abbeveratosi al pragmatismo anglosassone, sia da quella della sinistra che ritiene il comunismo un orizzonte politico-simbolico ancora plausibile sia da quella dei post-democristiani imbevuti di statalismo e fautori di una sorta di ideologia del controllo sociale. Nell’immediato ha perso il confronto elettorale con Berlusconi, ma ha così posto le basi per la nascita anche in Italia di una sinistra finalmente libera dai fantasmi ideologici del passato.
Per quanto riguarda invece il Popolo della Libertà – da considerare come il punto d’incontro e fusione in una chiave post-ideologica delle tradizioni cattolico-liberale, riformista-socialista e nazionalconsevatrice – l’annuncio della sua nascita ha generato a sua volta una frattura politico-culturale altrettanto importante: da un lato, con la destra estrema, che ha scelto di chiudersi in una sorta di ghetto ideologico fatto di simboli del passato, di appelli ai valori, di richiami allo spirito militante e di parole d’ordine altisonanti ed evocative; dall’altro, con il centro politico di matrice democristiana, che dietro la retorica della difesa dell’identità cattolica e della famiglia nasconde in realtà la nostalgia per le antiche pratiche clientelari. Anche in questo caso c’è voluto del coraggio per rompere con il fronte dei potenziali alleati, vecchi e nuovi, accettando così il rischio di una cospicua perdita di consensi.
Ma gli italiani, come si è visto, hanno premiato le scelte operate, in modo pressoché simmetrico, da Veltroni e Berlusconi. Hanno concesso in maggioranza la loro fiducia a due formazioni politiche la cui ambizione dichiarata è quella di aprire una fase nuova della storia italiana: non solo dal punto di vista politico-istituzionale, con il passaggio del nostro sistema dei partiti verso un assetto stabilmente bipolare-maggioritario, ma anche sul piano culturale e delle identità collettive, attraverso la revisione critica e il superamento di culture e famiglie politiche – dalla socialista alla democristiana, dalla comunista alla missina – che hanno sicuramente contato moltissimo nella storia dell’Italia repubblicana e nel suo immaginario politico, ma che da almeno un decennio hanno largamente esaurito il loro ciclo vitale.
In questo quadro, dinamico e innovativo anche se ancora largamente instabile, il ruolo del centrodestra può e deve essere quello di offrire un contributo serio, sul piano politico e delle idee, affinché i cambiamenti che sono stati appena richiamati possano radicarsi nel costume, nella mentalità, nella prassi e, soprattutto, nelle istituzioni della nostra politica. La tentazione di un ritorno al passato è ricorrente nella nostra classe politica (basti pensare a quanto numerosi sono coloro che ancora sperano in un ritorno al proporzionalismo, al parlamentarismo integrale, alla partitocrazia). Il centrodestra, che ha giocato tutta la sua credibilità sulla modernizzazione della politica, deve appunto evitare che prevalgano queste spinte “controriformistiche”. Ma per fare ciò non può affidarsi alla semplice gestione dell’esistente o ad una forma di pragmatismo fine a se stesso. Non deve cedere, in altre parole, alla tentazione di gestire il potere nel vuoto delle idee.
COMPAGNA – Le confesso che non sono entusiasta della dicotomia destra/sinistra. Nella situazione italiana di oggi, ho scelto questa destra contro questa sinistra. Così come nei primi decenni della nostra vita unitaria sarei stato più di destra che di sinistra (anche se non va dimenticato che la Destra storica nasce dal connubio Cavour-Rattazzi, che era una sorta di centro-sinistra). Ma dal punto di vista delle categorie teoriche, mi sento di centro. Anzi, a mio parere, la politica consiste – come diceva Cavour – nel sapersi collocare al centro: la politica è un eterno “centrizzarsi”. Personalmente, non credo al bipolarismo o a istituzioni come il cosiddetto “governo ombra”. Mi riconosco per gran parte nella tradizione anglosassone, ma seguendo la lezione di Burke: i sistemi politici hanno una loro storicità. Cosa significa “governo ombra” in Italia? Un miglior rapporto tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica? Questo è senz’altro positivo, ma a livello politico-istituzionale il nostro sistema prevede l’opposizione (anzi, le opposizioni). Allo stato attuale, abbiamo un bipolarismo interno dello schieramento di centro-sinistra, dove il ruolo di opposizione più intransigente è giocato dall’Italia dei valori. Il nostro è un sistema istituzionale che non prevede, per il governo, il diritto di dettare l’atteggiamento dell’opposizione. Del resto, il nostro è anche un sistema nel quale il governo è poco tutelato: è un sistema di garanzie, di poteri neutri, nato nel periodo che precede le elezioni del 1948, quando il sentimento dominante è la paura reciproca e quindi il desiderio di limitare al massimo le prerogative di chi deterrà le leve del comando. Questo sistema è crollato tra il 1992 e il 1994, ma non sul piano politico-istituzionale, bensì per effetto di un’azione di giurisdizione contro i valori della Costituzione: poteri neutri non ce ne sono stati. Quello che c’è di buono, in questa fase della vita politica italiana, è il venir meno di un luogo comune: quello secondo cui tutto dipende dalla legge elettorale. Abbiamo visto come una legge elettorale considerata cattiva (se non pessima) quasi da tutti – e magari non a sproposito – abbia dato il risultato ritenuto migliore. Questo significa che un certo tipo di dibattito italiano (gli innumerevoli articoli di Giovanni Sartori sul «Corriere della Sera», gli infiniti interventi di Mario Segni) ha prodotto soltanto stallo.
Venendo al ruolo del centrodestra nel quadro attuale, esso è in primo luogo un ruolo di governo, con tutte le difficoltà, le responsabilità e le cautele che esso implica. È un ruolo per certi aspetti umile e frustrante, fatto di paziente lavoro legislativo nelle aule parlamentari. Umile e frustrante, se si pensa alle attese che vi sono nel paese e che lo stesso centrodestra, nella persona di Berlusconi, ha incarnato. Da sempre il carisma di Berlusconi è legato all’innovazione, in un certo senso alla “rivoluzione” più che alla “conservazione”. Il paese attende innovazioni molto profonde: riforme costituzionali, nuovi codici e così via. Ma tutto questo si scontrerà con la prosa (assai difficile) dell’azione di governo e dei necessari passaggi parlamentari.
Quali dovrebbero essere, a suo parere, le caratteristiche di una forza politica che aspira a rappresentare l’intero centrodestra? E quali i suoi punti di riferimento ideali?
CAMPI – Come ho accennato, il Popolo della libertà – che dovrebbe appunto rappresentare il soggetto politico in grado di rappresentare l’intero centrodestra italiano – è al momento poco più di una sigla o di un cartello elettorale, per quanto vincente e nato dunque sotto buoni auspici. È un marchio commerciale che trae gran parte della sua forza elettorale dal carisma berlusconiano (nonché dalla capacità mediatico-finanziario del Cavaliere). Ciò che manca, sul piano pratico, è il passaggio verso una forma organizzativa stabile e radicata, con regole organizzative e statutarie chiare e definite, con una struttura di dirigenti-funzionari selezionata “dal basso” e una solida base militante. Manca insomma il partito vero e proprio, che a quanto pare dovrebbe nascere nel 2009, prima delle elezioni europee, dopo che Forza Italia e Alleanza nazionale avranno deliberato in merito nel corso di appositi congressi straordinari. Quanto alle caratteristiche di questo partito, esse dipenderanno dal percorso attraverso il quale avverrà la sua costituzione. Di sicuro, non sarà sufficiente spartirsi i posti e gli incarichi sulla base di quote concordate a tavolino tra i due principali soggetti promotori, come si è fatto sino ad ora: il risultato di questa operazione sarebbe quello di cristallizzare gli attuali rapporti di forza, di dare vita non ad una fusione virtuosa, ma ad una semplice aggregazione o federazione di soggetti destinati a restare sostanzialmente (anche se non nominalmente) autonomi. Un partito vero e proprio non può nascere sulla base di un accordo di vertice, sottoscritto tra gli attuali gruppi dirigenti di Forza Italia e Alleanza nazionale, ma in virtù di un processo costituente, che coinvolga – attraverso regolari appuntamenti congressuali – gli apparati intermedi, le rappresentanze territoriali e soprattutto gli iscritti e militanti. Al tempo stesso, è necessario un dibattito aperto e pluralistico su quelle che dovranno essere le coordinate ideali e valoriali del nuovo partito, le sue linee strategiche d’azione. Infine, servono regole del gioco chiare e trasparenti, a partire ovviamente da quelle statutarie che dovranno decidere la vita interna del nuovo soggetto politico.
Il Popolo della libertà dovrebbe rappresentare, per molti versi, il punto d’approdo della “rivoluzione berlusconiana”: dovrebbe raccoglierne l’eredità rendendola una realtà stabile nel panorama politico nazionale. La nascita del Pdl, in altre parole, ha un senso solo pensando al dopo-Berlusconi. Il che significa che non potrà essere, come è stata per lunghi anni Forza Italia, un partito interamente modellato dalla volontà di un solo uomo, nel quale non esiste dialettica interna e nel quale gruppi dirigenti e parlamentari vengono semplicemente cooptati dall’alto.
Per quanto concerne i riferimenti ideali, una realtà che si pretende nuova e innovativa non può accontentarsi di richiamare le culture o tradizioni politiche dalle quale provengono i suoi principali esponenti e la maggior parte del suoi elettori. Il Pdl non potrà essere un’aggregazione, aggiornata ai tempi nuovi, di ex-democristiani, ex-socialisti, ex-missini, ex-liberali, persino ex-comunisti, che hanno trovato un punto di accomodamento e convergenza nel legame di fedeltà a Berlusconi. Un simile partito non può nemmeno accontentarsi, come si è fatto per anni, di recitare un blando rosario liberale e modernizzatore, dietro il quale si è spesso nascosto il vuoto delle idee e una certa inclinazione alla spregiudicatezza. Occorrono nuovi orizzonti ideali e normativi, ci vuole il coraggio di mettersi culturalmente in discussione. Bisogna, in altre parole, riuscire a fare quello che hanno fatto in Europa le altre realtà di centrodestra che si sono affermate sulla scena negli ultimi anni. Penso, per fare degli esempi, al “neogollismo” di Sarkozy, ai “new tories” guidati da Cameron, ai popolari spagnoli o anche ai “nuovi moderati” svedesi. Caratteristica comune a queste diverse formazioni ed esperienze politiche è stato quella di innovare non solo la loro tattica (spostandosi verso il centro dello schieramento a caccia di nuovi elettori), ma anche e forse soprattutto su quello delle idee e dei programmi. I conservatori inglesi e scandinavi, ad esempio, hanno abbandonato strada facendo il credo liberista, l’avversione tutta ideologica allo stato sociale e la convinzione che le politiche di taglio fiscali siano una garanzia di crescita economica. Ed hanno dimostrato una crescente sensibilità per le politiche di sostegno al lavoro e all’occupazione, per le politiche di tutela sociale a beneficio delle minoranze svantaggiate e per l’ambientalismo. Invece di un pragmatismo anti-ideologico che rischia di essere fine a se stesso hanno elaborato una complessa trama culturale nella quale risaltano parole quali “virtù”, “responsabilità” e “senso del dovere”. All’individualismo hanno sostituito l’ideale comunitario e il bisogno di una maggiore coesione sociale. L’approccio economicista alla vita sociale è stato sostituito da una crescente attenzione per i fattori morali e culturali che regolano l’ordine civile. Si tratta solo di esempi, ma sufficienti forse a far capire quale sia la strada lungo la quale anche il centrodestra italiano dovrebbe incamminarsi.
COMPAGNA – Un partito che aspiri a rappresentare l’intero arco del centrodestra deve avere molti riferimenti ideali, ma un’unica tipologia politica: quella del partito popolare europeo. Un partito più cristiano che cattolico, un partito che porta la destra al centro e non viceversa e soprattutto un partito del tutto privo di quella vera e propria “patologia politica” che è l’antiamericanismo. Pensi che tracce di antiamericanismo sono presenti persino nell’Internazionale Liberale. Quanto alla sinistra, se prendiamo il caso della socialdemocrazia tedesca, la lacerazione su questo decisivo tema è fortissima: c’erano i socialdemocratici anticomunisti alla Schmidt, che non esitò (come il nostro Craxi) a schierare i Cruise e i Pershing per riequilibrare il confronto militare con i paesi comunisti, e i socialdemocratici antiamericani, terzomondisti e così via come Lafontaine. Io vengo dalla scuola di De Caprariis: e vedo quindi nell’atlantismo il contenitore dell’europeismo, non viceversa. Quando oggi si parla, spesso a sproposito, di imperialismo, molti a sinistra pensano ancora secondo le categorie di Lenin. Per me l’imperialismo è responsabilità della politica pensata in grande (sulla scia della grande tradizione che da Montesquieu va a Hume e Ferguson). Preoccuparsi dell’imperialismo americano è veramente una cosa poco seria; ci dovrebbe preoccupare l’isolazionismo americano.
Tornando al centrodestra italiano – e quindi alla nascita effettiva del “Popolo delle libertà” – penso che sarà un’impresa difficile, ma alla quale non si può in alcun modo rinunciare. Tra i suoi riferimenti politico-ideali dovrà esserci, a mio avviso, il parlamentarismo. In passato il centrodestra italiano ha avuto una carica antiparlamentarista e presidenzialista. Ma è ora di tornare al parlamentarismo. Ho sempre criticato le demonizzazioni del presidenzialismo, ma non mi piace affatto che i colleghi eletti in parlamento si definiscano rappresentanti della società civile. No, sono rappresentanti della nazione, come insegna la grande tradizione liberale del XIX secolo. Le difficoltà del sistema parlamentare nascono dalla mancanza di compattezza dei deputati dei vari schieramenti. Mi permetta un ricordo personale. Se nelle cosiddetta Prima Repubblica un ministro seduto sui banchi del governo mi avesse sentito che prendevo accordi per organizzare una partita a tennis nel primo pomeriggio, mi avrebbe letteralmente aggredito ricordandomi la necessità della mia presenza in aula in quell’orario. Oggi, dopo avere espresso invidia per la mia possibilità di andare a giocare a tennis, mi inviterebbero blandamente a vedere se posso in qualche modo essere presente in aula nel secondo pomeriggio. Nei sistemi elettorali d’allora c’erano gli eletti; oggi ci sono i cooptati, i nominati. E trovo che non sia bello farsi cooptare e poi spacciarsi per rappresentanti della società civile…
Liberalismo, popolarismo, identità nazionale, conservatorismo, solidarietà sociale: sono tutti elementi che dovranno concorrere a formare l’identità politico-culturale del centrodestra? Si tratta di tradizioni in qualche modo compatibili o esistono tra di esse punti di contrasto difficilmente superabili?
CAMPI – Ripeto quanto ho appena sostenuto. Non si tratta di rendere compatibili, in modo meccanico, tradizioni e identità politico-culturali che a loro volta sono nel frattempo entrate in crisi. Non credo che il centrodestra debba essere semplicemente un contenitore, per quanto possibile virtuoso, di idee e contenuti ereditati dalla storia e assunti in maniera acritica o peggio dogmatica. La sua ambizione dovrebbe essere piuttosto quella di dare vita – se ne avrà, beninteso, la forza e la capacità – ad una nuova cultura politica, di innovare le idee che ha ricevuto in eredità, accettando la sfida che il cambiamento dei tempi impone alle nostre certezze acquisite. Liberalismo, identità nazionale, popolarismo, conservatorismo, solidarietà sociale sono tutte parole-chiave che meritano di figurare nel bagaglio politico-culturale del centrodestra, ma sono anche termini che hanno bisogno di essere riformulati e declinati in una chiave più moderna e originale, che tenga conto delle profonde trasformazioni che il mondo ha conosciuto negli ultimi quindici-venti anni. A mio giudizio, è esattamente questo lavoro di riformulazione che è sinora mancato in un centrodestra che si è sin qui accontentato, senza troppo pensare al futuro, di vivere nel fascio di luce creato da Berlusconi.
COMPAGNA – Come dicevo prima, i riferimenti ideali devono essere molti. Anzitutto il popolarismo, che ha radici ideali di tipo europeo e non ha alcuna venatura di antiamericanismo. L’atteggiamento verso gli Stati Uniti è una cartina tornasole: stare dalla parte degli americani, degli inglesi e degli israeliani è quella che un tempo si sarebbe definita una “scelta di civiltà”. È una civiltà che deve molto al liberalismo e quindi nel nuovo partito ci dovrà essere una buona quota di liberalismo, in tutte le sue accezioni. Il liberalismo, infatti, è una famiglia numerosa e litigiosa. Dal crollo del muro di Berlino in avanti noi abbiamo certamente assistito ad una rinascita del liberalismo in senso lato; ma se dovessimo scrivere, sulle orme di Sartori, un Liberalismo e definizioni, ci troveremmo di fronte ad un arcipelago, tra le cui varie popolazioni non sempre regna l’accordo (a volte neanche sul lessico). È difficile, ad esempio, far convivere i seguaci di Hayek con quelli di Croce (ma si potrebbero fare molti esempi). Per quello è sempre stato difficile, per i liberali italiani, “fare partito”. Abbiamo avuto, sì, lo Stato liberale, ma come è noto il Partito Liberale nacque fuori tempo massimo (nel 1924). E nel secondo dopoguerra furono i partiti a nascere prima dello Stato: di qui una partiticità congenita. Comunque, se dovessi decidere quali autori debbano necessariamente figurare in una biblioteca ideale del Pdl indicherei una serie di classici moderni e contemporanei: Burke e Constant; Minghetti e Sturzo; Mosca e Pareto; Croce e Prezzolini; Aron e Huntington.
Quanto all’identità nazionale, bisogna andare oltre il patriottismo riabilitato (meritoriamente) dal Presidente Ciampi. Bisogna andare oltre perché questo patriottismo, fondato soprattutto sul sentimento e sui simboli, si fondava su un’idea di memoria condivisa che non può reggere. Le memorie sono sempre parziali e soggettive. Quando Galli della Loggia parlò di “morte della patria” (in riferimento all’8 settembre) e spinse l’allora Presidente Ciampi ad intervenire, si aprì un dibattito al quale prese parte anche lo storico Vivarelli, il quale confessò che per difendere la patria andò – giovanissimo – a Salò. E aggiunse che lo poteva dire soltanto perché ormai era in pensione. Si trattò di una dichiarazione molto importante, che a mio avviso centrava il problema. Vede, io rivendico il mio antifascismo, che è poi – se vuole – il nostro contributo indigeno al più generale antitotalitarismo liberale. Ma non mi riconosco nell’ideologia della Resistenza. L’idea che si è a lungo accreditata è che i giovani soldati americani venuti a combattere (e morire) in Italia fossero agenti dell’imperialismo: era l’antiamericanismo del fascismo che proseguiva nel mito dell’antifascismo. Togliatti ne sapeva qualcosa e il libro di Mirella Serri sui “redenti” è un libro amaro ma importante. Quindi il problema dell’identità nazionale, declinato nei termini patriottici di Ciampi, resta in superificie. Una vera e propria identità nazionale la si può ritrovare soltanto nel faticoso processo di legittimazione reciproca tra schieramenti politici. La Prima Repubblica aveva persino esagerato in questo senso, sostituendo al parlamentarismo l’arco costituzionale. Noi oggi non abbiamo bisogno del Caw, per dirla con Ferrara, ma di un sentimento di appartenenza nazionale più forte della tentazione di sfruttare il Festival del cinema di Cannes per motivi di politica interna. E poi non si può lasciare ai magistrati dell’accusa il monopolio della Vera storia d’Italia.
Quanto al conservatorismo, ricorderà che all’inizio le ho citato Edmund Burke, ossia il padre del conservatorismo liberale. Anzitutto, dobbiamo essere conservatori sul piano delle alleanze internazionali: l’alleanza con gli Stati Uniti, il Regno Unito e Israele rappresenta ai miei occhi, come ho già detto, una “scelta di civiltà”. Personalmente, mi riconosco nell’Italia di De Gasperi, non in quella di Gronchi. Israele non nasce, come pensa D’Alema, nel 1948 all’Onu, ma a Parigi nel 1895, durante il processo Dreyfus. In secondo luogo, dobbiamo essere conservatori nel primato del parlamento come istanza rappresentativa, a fronte del quale la pretesa di “rappresentatività” del Consiglio Superiore della Magistratura è eversiva. Non mi piace, inoltre, l’idea che Porta a porta sia la terza camera, presso la quale i ministri si recano più spesso di quanto non facciano a Montecitorio o a Palazzo Madama. Infine, dobbiamo essere conservatori sul piano dei valori. Certo, non auspico che il Pdl rifiuti Capezzone e Calderisi, né che si vada a fare una conta tra le loro ragioni e quelle di Pera e Mantovano. Ma la compostezza che si addice ad un partito di centrodestra deve essere radicata nella tradizione e nell’identità cristiana. Su questo terreno la battaglia per il diritto alla vita, condotta senza il massimalismo che ostentò la Farnesina all’epoca della battaglia per la moratoria della pena di morte, va portata avanti anche nelle sedi internazionali, avendo anche il coraggio di andare in minoranza: insomma, anteponendo la storia di Condorcet alla retorica della Bonino in tema di human rights.
Pensa che continuerà ad esistere ancora, in Italia, una destra radicale o nostalgica?
CAMPI – Movimenti o partiti di destra estrema sono attivi praticamente ovunque in Europa. La loro forza parlamentare è spesso ridotta o inesistente, ma ciò non toglie nulla alla loro capacità d’attrazione, dal punto di vista ideologico e della militanza soprattutto giovanile, e alla loro capacità a dare voce e rappresentanza, in molti casi con una qualche efficacia e ragione, a forme di protesta sociale o di ribellismo antiistituzionale, a sentimenti di frustrazione o di disagio metropolitano, a forme di appartenenze e a subculture giovanili che troppo spesso si tende a leggere in una chiave criminalizzante. Da questo punto di vista l’Italia non fa eccezione rispetto al resto del continente, come dimostra la vera e propria proliferazione, negli ultimi anni, di sigle e raggruppamenti collocabili appunto sul lato destro dello spettro politico e variamente presenti anche nelle più recenti consultazioni politiche: il Fronte nazionale, la Fiamma Tricolore, l’Alternativa sociale della Alessandra Mussolini, la Destra della coppia Storace-Santanchè (senza ovviamente contare la galassia delle sigle minori e dei gruppuscoli extra-parlamentari, ivi compreso il fenomeno dei cosiddetti “centri sociali di destra”).
Naturalmente, nel caso particolare del nostro Paese il proliferare di questa galassia si spiega anche con le trasformazioni che hanno investito, a partire dal 1994, il Movimento sociale italiano, la cui scomparsa, venuto meno il suo ruolo per certi versi unificante del mondo cosiddetto neo-fascista, ha sicuramente contribuito alla frammentazione della destra estrema. Con riferimento alla nascita di Alleanza nazionale, gli osservatori sono soliti parlare di “evoluzione”, per indicare il passaggio della destra italiana ad una visione politico-culturale finalmente libera dal culto della nostalgia. Ma c’è anche chi, soprattutto a livello di militanti e attivisti, in questi anni ha letto questo passaggio alla stregua di una “involuzione”, di una vera e propria rinuncia, in cambio di una maggiore agibilità politica e di un qualche frammento di potere, al patrimonio spirituale e ideale che ha caratterizzato per un cinquantennio l’universo del reducismo neofascismo. Non tutti, insomma, hanno gradito il revisionismo su Mussolini e sulla Rsi, la rinuncia ai simbolismi del Ventennio, l’alleanza con Berlusconi e gli eredi dei democristiani, le svolte “ideologiche” imposte nel corso degli anni da Fini su tutta una serie di temi: il voto agli immigrati, l’ingresso della Turchia in Europa, la critica al confessionalismo religioso a favore di una visione laica delle istituzioni e della politica, l’approccio pragmatico all’islamismo, talune aperture in materia di diritti civili, ecc. Insomma, in molti ambienti di destra il cambiamento – politico-culturale e di strategia – dei post-missini, spesso interpretato come semplice opportunismo, è stato vissuto con disagio e fastidio ed ha contribuito a determinare una vera e propria diaspora, che sinora non ha prodotto conseguenze sul piano elettorale, ma che nell’immediato futuro potrebbe invece averne. Come verrà vissuta a destra la scomparsa di Alleanza nazionale ovvero il suo assorbimento nel più vasto contenitore del Popolo della Libertà? Quali effetti produrrà su una certa base militante la confluenza della destra italiana nella “casa comune” del Partito popolare europeo? È probabile che da qui ai prossimi 4-5 anni si creino le condizioni per la formazione di un partito di destra radicale capace di convogliare un discreto consenso elettorale. Ma perché ciò accada sono necessarie due condizioni (tra di loro strettamente connesse): un processo di aggregazione delle diverse sigle e formazioni che attualmente popolano l’area della destra estrema e, soprattutto, l’emergere di una leadership politica in grado di avviare questo processo di ricomposizione.
COMPAGNA – Come le ho detto all’inizio, sotto il profilo delle categorie generali mi considero un uomo di centro e quindi mi piacerebbero che la nostra destra fosse sempre più di centro. Ma proprio per questo non mi piacciono le pregiudiziali ad excludendum. Se alle elezioni ci siamo divisi dalla Destra di Santanchè e Storace o dal centro di Casini e Cesa, si tratta ora di verificare su entrambi i lati quanto vi era di politico e quanto di personale. A proposito di persone, non c’è dubbio che per ragioni del tutto politiche – e nient’affatto personali – il ruolo di Berlusconi nel Pdl non potrà che essere quella “presidenza d’onore” che Benedetto Croce nell’immediato dopoguerra disegnò per sé nello statuto del rinato Partito Liberale.
Vorrei anche smentire il luogo comune per cui, nel PdL, la componente che proviene da An sia portatrice di vincoli di tipo statalistico. È un giudizio ingiusto e ingeneroso. Nella dialettica politica reale Urso non è meno legato ad Adam Smith di Martino e la Polverini è meno intrisa di corporativismo di quanto non lo siano certi dirigenti della Cisl e della Uil. Va poi sottolineato come l’evoluzione della classe dirigente proveniente dalla destra missina sia ormai giunta ad una completa maturità: e credo che l’atteggiamento verso Israele, in questo processo, sia stato decisivo nella storia personale e politica di Fini, Gasparri e La Russa. Si tratta di amici ormai, con una importante esperienza parlamentare alle spalle (un parlamentarismo vero e serio, proprio perché a lungo di opposizione), all’altezza delle altre esperienze politiche del Pdl.
Esistono in Europa movimenti politici di difficile collocazione nello schema destra/sinistra, come ad esempio la Lega in Italia. Quale valutazione politica ne dà?
CAMPI – L’esistenza di un partito-movimento come la Lega – capace di muoversi lungo lo spettro politico con grande disinvoltura – dimostra sino a che punto siano entrati in crisi i criteri politico-ideologici attraverso i quali abbiamo per decenni classificato gli attori presenti sulla scena politica, a partire ovviamente dalla classica dicotomia destra/sinistra. Ma ciò non significa che essi siano divenuti del tutto inutili o inefficaci. Ancora oggi la classificazione destra-sinistra mantiene un qualche valore. È una bussola alla quale ricorrono sia gli elettori, allorché vogliono definire i loro orientamenti politico-valoriali, sia gli studiosi, quando debbono classificare o descrivere i fenomeni politici. Certo, si tratta di un criterio di distinzione che rischia di semplificare eccessivamente la complessità del mondo politico reale, come alcuni sostengono. Ma è proprio per governare la complessità che abbiamo bisogno di mezzi di semplificazione. Ciò detto, i profondi cambiamenti intervenuti sulla scena politico-culturale contemporanea ci obbligano ad utilizzare certi strumenti o concetti con una qualche prudenza. Prendiamo appunto la Lega. È un fenomeno politico che, come ha spiegato tra gli altri Sartori, trae la sua forza e la sua originalità dalla contrapposizione territoriale centro/periferia e non dalla più classica polarità destra/sinistra. Collocarlo tout court a destra, come continuano a fare molti commentatori e analisti, è un modo per non coglierne la natura profonda. La Lega non obbedisce, sin dal suo sorgere, ad una posizione ideologica, non ha un riferimento privilegiato di classe. È un partito che persegue una sola finalità: il federalismo e l’autonomia politico-finanziaria del territorio che rappresenta in polemica con la burocrazia romana e lo Stato centralistico. Ciò spiega la sua capacità di attrarre voti e consensi nelle sue zone d’insediamento in maniera trasversale: dagli operai ai piccoli e medi imprenditori, dal mondo delle professioni liberali ai giovani disoccupati che vivono più di altri il disagio metropolitano. Ciò spiega perché anche il suo gruppo dirigente sia formato da personaggi che hanno le più diverse matrici politiche: Maroni viene dalla sinistra estrema, Borghezio invece dall’estrema destra. Ciò significa che lo schema destra/sinistra è un criterio di classificazione che spiega molto ma non tutto, certamente utile ma da non impiegare in modo esclusivo e dogmatico.
COMPAGNA – La Lega è un partito di sindacato territoriale guidato da un leader che è il personaggio meno sindacale e più politico degli ultimi vent’anni. Questo movimento politico si è collocato, in diverse fasi, in tutte le posizioni dello spazio politico: è stata a destra, al centro, a sinistra. E credo che in questa legislatura giocherà tutte e tre le parti insieme. Non senza, però, una sostanziale loyalty al Presidente del Consiglio.
Cosa significa, oggi, essere di destra, anche dal punto di vista dell’immaginario?
CAMPI – È difficile dirlo, visti i cambiamenti, di mentalità e di atteggiamento politico, che nel corso degli ultimi anni hanno investito anche quest’area. Quello che è certo, dal mio punto di vista, è che la destra italiana, specie una volta che sarà nato il Popolo della libertà, corre un serio rischio: quello, per dirla brutalmente, di passare dalla sua storica irrilevanza alla sua futura evanescenza; di passare cioè da una condizione nella quale essa era sì messa ai margini della scena pubblica ufficiale, ma in qualche modo apprezzata, riconosciuta e rispettata nella sua radicale alterità, ad una nella quale, pur avendo nel frattempo acquisito agibilità politica e legittimità sociale, rischia di non avere più nulla di interessante e originale da dire e di essere fagocitata – culturalmente, mediaticamente – dalle forze con le quali in questi anni si è organicamente alleata. In questo caso la sua vittoria politica finirebbe per coincidere con la sua sconfitta storica e con la sua scomparsa o dissoluzione dal punto di vista culturale e delle idee.
La destra in Italia è stata quasi sempre associata, sul piano dell’immaginario politico, al fascismo e dunque ad una realtà percepita come negativa, come contraria al cammino evolutivo della storia. Nella percezione diffusa la destra era il passato, la negazione del progresso, il rifiuto dell’Illuminismo. Era dunque la “parte maledetta” della politica italiana. Chi militava a destra o si riconosceva nelle sue posizioni politico-culturali era un reprobo, automaticamente condannato all’isolamento e alla marginalità.
Questa condizione rappresentava certamente un limite, in particolare dal punto di vista dell’azione politica, ma al tempo stesso era un punto di forza, soprattutto sul piano culturale e della riflessione ideologica. La destra, proprio perché isolata e minoritaria si definiva – e talvolta lo era per davvero – “anticonformista” (magari solo per necessità), estranea al coro dominante, come tale capace di assumere posizioni eretiche o dissidenti. Era per definizione “contro il proprio tempo”, ma proprio per questo maggiormente in grado di coglierne lo spirito e di criticarne le derive. Certo, le sue posizioni erano spesso disorganiche, velleitarie o dilettantesche, ma avevano anche, in molti casi, il pregio dell’originalità. È questa la ragione per cui la destra, per quanto politicamente bandita, ha sempre mantenuto nel corso dei decenni una sua capacità d’attrazione culturale. Era sì oggetto di pubblica condanna nel nome dell’antifascismo militante, ma era anche capace di suscitare curiosità e attenzione, proprio per l’assoluta alterità delle posizioni che incarnava e rappresentava. Aveva, se vogliamo, il fascino un po’ morboso che sempre emanano gli “sconfitti della storia”.
Con la svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza nazionale il quadro è drasticamente cambiato. La destra italiana, lasciatasi alle spalle il reducismo e la nostalgia, è entrata nella sfera della legittimità politico-istituzionale divenendo stabilmente forza di governo, a livello locale e nazionale. Ma ciò che ha guadagnato in consenso elettorale ha perso dal punto di vista dell’identità e del profilo culturale. La destra post-missina si è presentata sulla scena come una forza post-ideologica, modernizzatrice e pragmaticamente orientata, decisa a chiudere per sempre con il suo passato missino e con quello che era il suo storico bagaglio ideale e culturale. Il che, detto per inciso, è stato certamente un bene, visto che una presenza puramente testimoniale della destra non aveva più alcun senso. Ma così facendo, limitandosi a cancellare o rifiutare il proprio passato invece di riformularlo criticamente e di innovarlo in termini di continuità, ha finito per incidere sempre meno sul dibattito delle idee e per abbracciare posizioni – penso a certe improvvisate professioni di fede liberali o ultratlantiste – incongrue o peggio del tutto estranee alla sua tradizione e sensibilità.
Insomma, nell’immaginario odierno la destra – intendendo con questo termine quella che si riconosce di preferenza in Alleanza nazionale – è sì una realtà politicamente affidabile, guidata per di più da un leader forte e apprezzato quale Gianfranco Fini, ma è al tempo stesso una forza che ha poca voce nel dibattito pubblico, senza una piattaforma ideale definita e chiara, che non sempre riesce a far risaltare le proprie battaglie ideali e le proprie posizioni di principio, diversamente da ciò che invece riescono a fare, anche se in modo diverso, la Lega di Bossi (con la sua battaglia martellante sul federalismo e contro il centralismo) o la stessa Forza Italia (con le sue battaglie sulla giustizia o a difesa della libertà di mercato). Il risultato paradossale è che per vedere riproposti al centro del dibattito culturale temi tipici da sempre della cultura di destra, italiana ed europea, quali ad esempio la critica al globalismo politico-giuridico, la difesa del comunitarismo contro l’individualismo, la denuncia dell’economicismo, per leggere argomentazioni a sostegno di concetti anch’essi tipicamente di destra quali “ordine”, “autorità”, “tradizione”, si è dovuto attendere il successo del libro scritto da Giulio Tremonti La paura e la speranza. Un esponente di spicco di Forza Italia, di matrice socialista, ha detto e scritto – incontrando un largo successo di pubblico e suscitando ampie e aspre polemiche – ciò che la destra italiana forse segretamente pensa ma non ha più, a quanto pare, il coraggio di esprimere pubblicamente, per paura di dover affrontare chissà quale pubblico esame.
Mai il termine destra ha circolato così liberamente nella pubblicistica e nel dibattito politico in Italia, mai, al tempo stesso, la destra ha presentato un’immagine di sé tanto vaga e indefinita dal punto di vista culturale e ideale. Il che rappresenta, in prospettiva, un limite per la sopravvivenza di questa stessa destra anche sul piano politico-elettorale.
COMPAGNA – Faccio difficoltà a risponderle, perché come le ho detto più volte mi sento uomo di centro. Ma penso che essere di centrodestra, nell’Italia dei nostri giorni, significhi riconoscersi in un grande partito di ispirazione popolare e liberale, i cui valori sono la libertà, le radici cristiane, la scelta occidentale, l’economia sociale di mercato.