(estratto da Paradoxa 1/2021)
Con un accorato editoriale di apertura e oltre 280 pagine dense di analisi si è conclusa nel dicembre scorso l’avventura culturale dell’elegante e colta rivista «Le Débat», edita da Gallimard a partire dal 1980. Quaranta anni e 210 numeri, sempre lo stesso piccolissimo terzetto alla guida: la direzione dello storico Pierre Nora (Nora, 1984-1992), la redazione nelle mani del filosofo della politica Marcel Gauchet (Gauchet, 2007-2017) e nell’ombra, ma nemmeno poi troppo, lo storico Krzysztof Pomian (Pomian, 2020-2021). Proprio nell’ultimo editoriale Nora esprime due concetti che possono essere utilizzati come apertura per la riflessione che seguirà. Da un lato, egli ricorda che «la fine di un titolo importante, ha sempre un significato che va al di là del titolo stesso». Come si cercherà di spiegare, parlare di «Le Débat», della sua nascita, del suo lungo percorso e della sua chiusura è soltanto un presupposto per fare qualche riflessione sull’evoluzione più ampia del dibattito politico-culturale nel contesto francese e in quello più largo continentale. Dall’altro lato, lo stesso Nora conclude il suo ultimo editoriale con una nota di speranza affermando che lo «spirito de “Le Débat” non è morto, continuiamo la battaglia». Al di là del riferimento, anche un po’ retorico, alla volontà di continuare a proporre riflessioni e sollecitazioni sulle principali evoluzioni intellettuali utilizzando i volumi che da un quarantennio la stessa casa editrice Gallimard pubblica nella collana che dalla rivista prende il nome, ciò che interessa maggiormente in questa dichiarazione di intenti è l’idea che «Le Débat», dal 1980 ad oggi, abbia condotto una «battaglia intellettuale» e che, implicitamente, quello sforzo di comprensione necessiti oggi di altri strumenti o, eventualità più triste, non vi sia più spazio né desiderio per dispiegare tale faticoso lavoro culturale.
Se questa è l’ottica di partenza, osservare la chiusura di «Le Débat», ma allo stesso modo cogliere le ragioni della sua nascita e del suo sviluppo, può costituire un interessante angolo visuale dal quale ipotizzare qualche riflessione sul rapporto tra intellettuali e spazio pubblico, sul concetto di cultura politica e in generale sul contributo che le scienze sociali hanno fornito e, forse, ad un certo punto hanno smesso di fornire all’elaborazione di scelte politiche sempre più complicate e sempre meno in grado di governare la nostra multiforme modernità. Per provare a parlare di «Le Débat» e della sua chiusura come passe-partout per qualche riflessione generale occorre prima di tutto fare il punto sulle origini e su quella che possiamo definire l’età dell’oro della rivista. Per poi passare ad individuare le criticità e l’avvio della parabola discendente. Solo a quel punto si potranno introdurre alcune riflessioni conclusive.
Una rivista per pensare in maniera ‘educata’?
Il numero di «Le Débat» pubblicato in occasione del trentennale della rivista si apre con un dialogo tra Pierre Nora e Régis Debray (Debray – Nora, 2010). Quest’ultimo non esita ad attaccare polemicamente il direttore, e di conseguenza la linea editoriale di un trentennio di rivista, affermando: «vi dirò che, ciò che mi infastidisce maggiormente della vostra condotta, è la vostra stupefacente educazione. Io adoro le maniere educate, non il modo di pensare educato». Si può senza dubbio affermare che la frase di Debray racchiuda la natura di fondo, essenziale, quasi ontologica di «Le Débat». A patto però che si definisca in maniera corretta il concetto di ‘educato’, applicato al dibattito intellettuale. Nora scrive nel suo primo editoriale del 1980: si decide di iniziare l’avventura di «Le Débat» «perché in Francia non vi è dibattito». È proprio questa la molla che fa scattare il meccanismo. La convinzione che di fronte ad un positivo assopimento delle passioni rivoluzionarie (soprattutto nell’intellettualità della gauche francese), trovandosi in una situazione di potenziale e definitiva accettazione dell’ideale democratico da parte degli intellettuali, si apra lo spazio del dialogo, del débat, gli uni con gli altri e che questa sia, in estrema sintesi, l’essenza stessa della democrazia.
Ma se si vuole tornare al «fastidio» mostrato da Debray per la supposta ‘educazione’ della rivista, occorre aggiungere che il terzetto Nora-Gauchet-Pomian fin dall’inizio si fa portatore di una forte proposta, quella cioè di aprire la strada ad una nuova figura di intellettuale, difficile da catalogare ma che si caratterizza per una netta presa di distanza da quello che è stato e ciò che ha rappresentato l’élite culturale francese nel trentennio precedente.
«Le Débat» vuole prima di tutto chiudere con la logica dell’intellettuale profetico, colui che incarna la coscienza universale e che con i suoi manifesti e i suoi proclami chiama il popolo all’azione. Si tratta dell’eclissi dell’intellettuale sartriano (ironia della sorte Sartre viene a mancare proprio nell’anno di fondazione della nuova rivista). In secondo luogo, «Le Débat» si oppone alla logica dell’intellettuale modello Michel Foucault, cioè il clerc che propone di mettere la propria conoscenza al servizio di una causa. E infine lo spirito della nuova pubblicazione. Gallimard si oppone anche al modello Pierre Bourdieu, l’intellettuale come attore collettivo, come aggregato di intellettuali, uniti per pensare un’altra via, un’altra politica.
Se questo rapido elenco rappresenta tutto ciò che «Le Débat» non è, sin dalle sue origini, voluto essere occorre ricordare quale sia stata la riflessione di partenza, la pars costruens, la vera e propria proposta culturale. Fondamentale è ricordare la congiuntura storica. L’apertura degli anni Ottanta rappresenta per certi versi la certificazione che il mondo, così come è uscito dalla lunga guerra dei trent’anni, sta perdendo importanti punti di riferimento e si prepara ad una svolta sistemica, i cui primi passi si sono mostrati ad inizio anni Settanta (Marchi, 2020). Di fronte ad un’oggettiva perdita di punti di riferimento, l’obiettivo della rivista è quello di tramutarsi in un laboratorio di idee ed analisi, uno spazio di confronto per punti di vista differenti non per appartenenze contrastanti, una comunità di esigenze, più che di opinioni, con uno scopo finale: analizzare l’attualità di fondo, rimettendola nella giusta prospettiva storica. «Le Débat» comincia con pazienza a svolgere questo ruolo di ‘cenacolo culturale’ che ha anche un altro fondamentale compito, quello di tentare di colmare il grande vuoto venutosi a creare potremmo dire nella cosiddetta epoca del ‘post’. In fondo il decennio Ottanta si caratterizza per essere post-marxiano, post-strutturalista e post-freudiano. La storia delle idee da un lato ma anche la congiuntura storico-politica dall’altro sembrano andare in questa direzione. La rivista vede la luce al termine di quell’anno cardine che è il 1979 (Le Débat, 2019). L’arrivo al potere delle leadership di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la rivoluzione iraniana e l’irruzione conseguente dell’Islam politico, così come i primi passi del pontificato giovanneo (iniziato a fine 1978), ben presto mostrano tutta la loro forza destrutturante.
È così con un misto di legittimo orgoglio, ma anche di illusione e forse di eccessivo ottimismo, che nell’editoriale per il decimo anniversario, la direzione può scrivere che lo spirito de «”Le Débat” è diventato lo spirito del tempo»(Nora, 1990). Quell’impressione è strettamente legata ad una duplice riflessione, una di natura più franco-centrica e l’altra strettamente connessa all’accelerazione subita dagli eventi legati al concludersi della Guerra fredda.
Rispetto alla logica interna al Paese, la rielezione senza particolari traumi di François Mitterrand nel 1988, il quasi eclissarsi del PCF e in generale un clima politico che fa parlare di una democrazia apaisée che dovrebbe per forza di cose essere governata al centro, contribuiscono non poco a questo giudizio (Furet – Julliard – Rosanvallon, 1988 e Garcia, 2020).
D’altra parte, vi sono poi anche notizie che giungono dall’estero e che spingono all’ottimismo, a partire dal progressivo disgregarsi dell’impero sovietico, una volta crollato il Muro di Berlino. Per certi aspetti anche «Le Débat» vive, con le sue peculiarità, il momentum «fine della storia» e il conseguente elogio del liberalismo politico ed economico come miglior antidoto per ogni forma di totalitarismo. In realtà «Le Débat» ha un modo tutto suo di interpretare questo momento di apparente trionfo a tutto campo del modello liberal-democratico. Ben presto, infatti, ci si rende conto dell’importanza delle nuove sfide e i temi della globalizzazione, dell’irruzione dell’islam radicale e della crisi economica legata alla finanziarizzazione sempre più dilagante sono centrali per la rivista nel primo ventennio di questo XXI secolo.
Ebbene dentro a questa narrazione onnicomprensiva e dietro a questo sforzo per cercare di categorizzare e trovare nuovi paradigmi, la coppia Gauchet-Nora interpreta il momento pandemico come una sorta di contemporanea chiusura di un ciclo storico e allo stesso tempo inaugurazione di un modo nuovo di pensare e provare a strutturare il mondo. L’apparente esaurirsi di un ciclo storico è sufficiente a motivare la chiusura di una così partecipata avventura intellettuale?
Un complicato e sempre più ostile XXI secolo
Per provare a rispondere a questa domanda si può prima di tutto iniziare utilmente a fotografare il clima culturale all’interno del quale si colloca la chiusura della rivista. In fondo proponendo con «Le Débat» di offrire una profondità interpretativa all’attualità, in particolare utilizzando gli strumenti della filosofia e della storia, la coppia Nora-Gauchet si inserisce nella più consolidata tradizione illuministica ed umanistica del sapere con un orizzonte virtualmente enciclopedico. Unire politica, letteratura e storia significa collocare «Le Débat» in oltre due secoli di tradizione di riviste francesi, dalla «Revue des deux mondes» alla «Nouvelle Revue Française» per arrivare alle novecentesche «Esprit», «Temps modernes» e «Commentaire». Ebbene Nora ne è profondamente convinto: l’attuale congiuntura politico-culturale ha oggettivamente chiuso con questa necessità di approfondimento e con questo desiderio di avere una qualche forma di rapporto con l’alta cultura. I segnali di impoverimento del clima culturale complessivo non mancano. È lo stesso Nora ad indicarne alcuni molto significativi. Una crisi generalizzata del modello di apprendimento scolastico, sia di base, sia a livello superiore. Una costante diminuzione dell’interesse, nazionale ed internazionale, per la letteratura francese (se si eccettuano alcuni casi molto peculiari, uno su tutti quello di Michel Houellebecq). Una oramai consolidata incapacità da parte degli intellettuali nel rivolgersi al grande pubblico, volgarizzando e diffondendo i frutti migliori della loro ricerca specialistica. Se tutto ciò è ascrivibile ad una sorta di ‘dis-intellettualizzazione’ delle élites, si tratti di élites politiche, imprenditoriali, educative, vi è poi un cambiamento strutturale generalizzato legato all’irruzione del digitale non tanto e non solo rappresentato dalla cosiddetta ‘internetizzazione’ del sapere quanto, soprattutto nel caso delle riviste di cultura, nella possibilità di scegliere all’interno della proposta editoriale di ogni singolo numero, uno o più articoli, destrutturando così la ragion d’essere stessa de «Le Débat» e la compattezza di ogni numero. Cioè fornire analisi di questioni complesse affrontate da differenti punti di vista e con l’obiettivo di proporre una visione di insieme, non una parcellizzazione iper-specialistica del sapere.
L’istantanea della fine offerta dai fondatori trova in realtà numerosi punti di disaccordo. Da una parte si punta il dito su una sorta di ‘gerontocrazia’ (Nora 88 anni, Pomian 86 e Gauchet 74) che non ha saputo trovare eredi e ora si troverebbe nell’impossibilità quasi fisica di procedere nell’operazione culturale. Da Seuil e anche dallo stesso editore di riferimento Gallimard si insiste sul buono stato di salute delle cosiddette humanities, che si sarebbero spostate maggiormente sui temi della critica sociale. Altre critiche sono rivolte a ciò che «Le Débat» rappresenterebbe: cioè un certo modo di pensare francese, troppo ripiegato su sé stesso e incapace di aprirsi all’esterno in epoca di globalizzazione. Vi è poi chi minimizza la scelta, come i vertici di «Commentaire» ed «Esprit», affermando che internet non ha assolutamente chiuso le opportunità per la sopravvivenza di riviste di cultura ‘generaliste’. Il modello statunitense, con gli esempi di «Foreign Affairs» e «The Atlantic», dimostrerebbe il contrario, con una importante e nuova penetrazione del pubblico generalista, in particolare per «Foreign Affairs», nata per specialisti di politica estera e oggi diffusa presso il grande pubblico colto (Truong, 2020). Queste legittime e anche per certi versi sensate repliche tese a minimizzare la chiusura di «Le Débat» fanno ancora tutte parte del tentativo di fissare con una serie di istantanee il chiudersi dell’esperienza del bimestrale. Se però dalla fotografia si passa all’interpretazione, si trova forse qualche causa più profonda e per certi versi generale dell’eclissarsi della ragione stessa di un luogo di incontro e dialogo come «Le Débat».
Si può partire ancora una volta dal punto di vista della coppia Nora-Gauchet: in fondo «Le Débat» muore non solo perché non vi sia più interesse per esso o perché vi siano altri strumenti più tecnologici e magari più rapidi per riflettere e apprendere. Ma perché il clima complessivo è tornato ad essere profondamente radicalizzato e troppo spesso dominato da una sorta di moralismo inquisitore, veicolato nello specifico da prese di posizione magari anche minoritarie ma fortemente amplificate dalla dominante mediatizzazione in particolare grazie allo strapotere dei social media. È evidente che a questo punto le ragioni si fanno molto più forti e profonde ed è possibile proporre un’analisi complementare e ancora una volta di medio/lungo periodo.
Dialogando con Pierre Nora su France Culture nel corso della sua nota trasmissione Répliques, Alain Finkielkraut non esita ad individuare il momento preciso di inizio della parabola discendente di «Le Débat» e dell’operazione culturale ad esso sotteso: la pubblicazione del pamphlet di Daniel Lindenberg Le rappel à l’ordre. Enquête sur les nouveaux réactionnaires (Lindenberg, 2002). Senza entrare in dettagli troppo precisi, il libretto è pubblicato prima di tutto per denunciare quello che è definito il razzismo anti-islam di Oriana Fallaci (Fallaci, 2002) e di Michel Houellebecq (Houellbecq, 2001). Il punto più generale è che si apre un vero e proprio momento inquisitorio, una articolata critica ideologica diretta prima di tutto nei confronti di molti degli intellettuali che ruotano attorno a «Le Débat» accusati di essere la punta di lancia di una sorta di versione francese del movimento neoreazionario statunitense. Primo indiziato diventa Marcel Gauchet che da tempo sulla rivista attacca la cosiddetta ideologia del «droit-de-l’hommisme» (Gauchet, 2000), ma a seguire sono attaccati Jean-Pierre Le Goff e la sua denuncia del cosiddetto «gauchisme culturel» come portato del ’68 (Le Goff, 2006 e 2008), il filosofo della politica Pierre Manent per la sua critica dell’islam politico, sino allo stesso Alain Finkielkraut in particolare per il suo sostegno alle ragioni di Israele nel conflitto israelo-palestinese. Ma per comprendere meglio il clima di odio e di trasformazione dell’avversario in nemico si può citare la definizione di impegno intellettuale così come teorizzata dal filosofo Paul-Louis Landsberg, fuggito dalla Germania nazista e rifugiatosi in Spagna, lasciata in piena guerra civile per la Francia, dove aderisce al movimento resistenziale «Combat» e collabora ad «Esprit» di Emmanuel Mounier, viene arrestato dalla Gestapo nel 1943 e non è mai rientrato dal campo di sterminio di Oranienburg. In un famoso contributo pubblicato dalla rivista «Esprit» nel 1937, egli teorizza il cosiddetto engagement intellettuale come sforzo massimo per difendere una causa tendenzialmente imperfetta (Landsberg, 1937, 1998). Le accuse di razzismo lanciate da Lindenberg a partire dal 2002 costituiscono il prototipo, il vero e proprio idealtipo della ‘causa perfetta’, chi non vi si uniforma viene automaticamente attaccato ed è costruito nei suoi confronti un meccanismo teso a discreditarlo a livello pubblico. Ma se progressivamente il nuovo femminismo, il nuovo razzismo e la nuova retorica che ruota attorno all’ecologismo, solo per fare alcuni esempi, si presentano di volta in volta come ‘cause perfette’, scompare ogni esigenza di dibattito e di confronto, le emozioni prendono il posto del ragionamento e l’atmosfera diventa inevitabilmente irrespirabile. Ad imporsi è quella sorta di cancel culture, così diffusa oramai nei Campus statunitensi, i cui effetti cominciano a farsi evidenti anche nel contesto francese ed in generale europeo. Ancora una volta, per citare un esempio concreto, basta ricordare la deplorevole parentesi dell’autunno del 2014 quando si lancia un appello a boicottare la presenza di Marcel Gauchet alla diciassettesima edizione dei «Rendez-vous de l’histoire» di Blois dedicata al tema «rebelles et rébellions». Il festival, inaugurato nel 1998 e fortemente voluto dall’ex ministro socialista Jack Lang all’epoca sindaco di Blois, il cui comitato scientifico dal 2003 è presieduto dal noto storico Jean-Noel Jeanneney e co-organizzato da numerose e autorevoli istituzioni, nell’anno incriminato è dedicato al tema della ribellione e a svolgere la prolusione iniziale è chiamato Marcel Gauchet, nella sua veste di Directeur études all’Ecole des hautes études en sciences sociales. Con una serie di interventi sul quotidiano «Libération», due giovani intellettuali della scena parigina, il filosofo Geoffroy de Lagasnerie e il sociologo e scrittore Edouard Louis, iniziano una vera e propria invettiva pubblica, seguita da una raccolta firme (tra queste spicca anche quella dello storico Enzo Traverso) per impedire l’intervento di Gauchet, definito un vero e proprio simbolo dell’oscurantismo, del reazionarismo e della peggiore opposizione al vero concetto di rébellion et révolte (Lagasnerie – Louis, 2014). È evidente che l’attacco a Gauchet, oltre ad un chiaro desidero di esposizione mediatica e di scoop giornalistico da parte di «Libération», mette in primo piano una sorta di eutanasia delle scienze sociali dal momento che la calunnia si sostituisce al dibattito e allo scambio intellettuale, anche aspro ma su un terreno di riconoscimento minimo. I cosiddetti reazionari non legittimati a parlare di ‘ribellione’ salgono sul banco degli imputati proprio perché avrebbero commesso il peccato peggiore: quello di aver rinunciato a qualsiasi forma di radicalismo. E Gauchet, da questo punto di vista, con la sua produzione scientifica è il capro espiatorio perfetto di una democrazia accusata di aver perso la sua missione originaria, quella della radicalità, a favore della creazione di meccanismi in grado di trovare risposte alle ribellioni (Truong, 2014). Se osservata da questo angolo visuale la scelta di arrestare la pubblicazione de «Le Débat» giunge al culmine di una vera e propria deriva e si tramuta in un gesto non di dismissione, ma di allerta.
Quasi automaticamente la riflessione torna ai giorni nostri. In un quadro dominato dalle emozioni e dalle passioni, nel quale sembra scomparsa ogni forma di razionalità, a trionfare sembra essere la cosiddetta intelligenza emozionale. Il dibattito intellettuale così degenerato non è altro che lo specchio che riflette una vita pubblica dominata dalla dissociazione completa tra piano dei fatti e degli argomenti e piano delle immagini che veicolano un contenuto simbolico. Si apre in questo modo lo spazio per far penetrare e potenzialmente trionfare la cosiddetta post-verità. Il meccanismo è piuttosto semplice quanto pericoloso e perverso: se mi sembra possa essere vero, non ha alcuna utilità l’utilizzo della razionalità. Ma si può aggiungere anche un altro elemento di facile diffusione del cosiddetto culto della post-verità. Condividerla è molto semplice e finisce per costituire il vero e proprio trait d’union tra i cosiddetti ‘opposti estremismi’. La ‘post-verità’ diventa terreno di condivisione per i sostenitori di ogni forma di indipendenza e di trionfo dell’individualismo più radicale, disposto ad opporsi a qualsiasi limitazione e senso di appartenenza, così come per i difensori dei principi identitari e di appartenenza più escludenti e reazionari. Si produce così un radicalismo di tipo nuovo, che pur senza avere vocazione rivoluzionaria è portatore di una postura critica violenta, che si nutre di indignazione e denuncia morale, che ha come priorità l’opposizione più assoluta. E che, seppur ultra-minoritario, può contare sull’esaltazione e sull’intolleranza vendicativa coltivata e amplificata a dismisura dai social-media. Il discorso andrebbe naturalmente allargato e approfondito anche sottolineando l’assoluta inadeguatezza delle nostre democrazie nel reagire e nel proporre meccanismi di adattamento ai due enormi cambiamenti insiti nella cosiddetta rivoluzione digitale. Da un lato essere una rivoluzione della sociabilità, prima ancora che della tecnologia. E dall’altro trasformare ogni informazione in dati, rendendo chi li può controllare il nuovo vero centro di potere. Tutto questo quadro solo abbozzato finisce per amplificare la sua portata in epoca di pandemia, con i corollari della scarsa mobilità, del distanziamento e della paradossale trasformazione del digitale in una sorta di ancora di salvezza e di strumento per perpetrare una qualche forma di normalità.
Quale che sia l’evoluzione che vedremo nei prossimi mesi e prossimi anni, se tali forme di radicalismo dovessero amplificarsi utilizzando le possibilità dei nuovi media, la cosiddetta cultura del débat non avrebbe alcuna possibilità e verrebbe a mancare una fonte di ossigeno imprescindibile per qualsiasi forma di educazione alla democrazia. A comparire all’orizzonte sarebbero allora i vecchi demoni totalitari della lotta al pluralismo e del trionfo del conformismo che assumerebbero i tratti di un nuovo totalitarismo 2.0 fatto di moralismo inquisitorio e di imposizione di cosiddetti safe spaces nei quali coltivare le proprie certezze identitarie e che, anche di recente, hanno già mostrato tutta la loro carica eversiva al di qua e al di là dell’Atlantico (Belardelli, 2020; Rémond 2006 e 2014).
Senza «Le Débat», in che mondo andremo a finire…?
Nell’introduzione di questo contributo ci si è chiesti se la fine della pubblicazione di «Le Débat» possa essere considerata un atto di resa di fronte ad un certo tipo di evoluzione del dibattito culturale, se non addirittura il segnale di un declino complessivo del ruolo degli intellettuali nello spazio del politico. In realtà, come si è cercato di descrivere, la posizione dei due fondatori è piuttosto netta: la rivista nasce come superamento, come rottura rispetto ad una certa concezione dell’intellettuale engagé e muore, verrebbe da dire, dichiarando che internet e i social media hanno contribuito a creare un clima di radicalizzazione tale da porre la parola fine alla ragione stessa di esistere dell’intellettuale. Non sono mancate le voci critiche rispetto a tale lettura quasi aristocratica della serie ‘dopo di noi il diluvio!’. Leggendo la recente autobiografia intellettuale di Pierre Rosanvallon, si trovano pagine piuttosto interessanti sulla parabola intellettuale di «Le Débat», anche se da un angolo non propriamente diretto. Come ricorda lo stesso Rosanvallon, il già citato volume di Lindenberg del 2002 è stato pubblicato dalle edizioni Seuil nella collana «La vie des idées» da lui diretta. Nel descrivere la mediatizzazione del volume ma anche il carattere non così originale delle sue tesi, l’ex professore del Collège de France sembra in parte prendere le distanze, se non sui contenuti, almeno sui modi utilizzati. Per poi giungere ad affermare che comunque, seppur in maniera non sempre così circostanziata, le critiche mosse dall’autore nei confronti di una certa deriva anti-liberale e anti Mai ’68 sono da considerarsi premonitrici di una evoluzione patologica che si condensa nello slogan del «pensiero di destra espresso con un linguaggio di sinistra» (Rosanvallon, 2018). A lasciare perplessi è che un filosofo della politica e un pensatore così attento come Rosanvallon tracci una linea di continuità tra le colte analisi di Marchel Gauchet e Jean-Pierre Le Goff e le spesso deliranti affermazioni venate di populismo di un Eric Zemmour (Zemmour, 2014) o di un Jean-Claude Michéa (Michéa, 2017) (per citare i due opposti radicalismi di estrema destra e di estrema sinistra). Ma se da un lato le pagine di Rosanvallon lasciano perplessi, dall’altro certificano la gravità della situazione: lo spazio del débat si è davvero ridotto al minimo. La lettura forse intellettualmente più onesta è quella dello storico François Dosse (Dosse, 2018) e questo probabilmente perché egli può avanzare, in tutta questa vicenda cultural-intellettuale, uno sguardo esterno e distaccato. Nora e Gauchet sono stati anche mediaticamente molto intelligenti nel mascherare la fine (forse fisiologica, vista la loro età) della loro iniziativa culturale, diluendola in un più ampio eclissarsi di un certo dibattito intellettuale. D’altra parte, conclude Dosse, la chiusura di «Le Débat» è strettamente connessa all’archiviarsi di un’epoca, ricca di vita intellettuale e di voglia di dibattere al di là della destra e della sinistra e al di là degli scontri di fazione (Maurot 2020).
A seconda della sensibilità si potrà guardare con rammarico o con un misto di compiacimento l’interrompersi dell’avventura intellettuale dell’elegante rivista edita per quarant’anni da Gallimard. Su un punto però tutti dovrebbero forse riflettere. L’attuale crisi del politico è in qualche maniera legata alla fine di un certo ruolo degli intellettuali. Se si accetta tale assunto la domanda da porsi è semplice ed evidente: vi è una possibilità per uscire dall’attuale ‘crisi di civiltà’ senza tornare a coltivare uno spazio decisivo di débat tra gli intellettuali e tra questi e i principali decisori politici?
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