Massimo Leone – SEGNALI DI PAURA: FEAR IS THE MESSAGE

(estratto da Paradoxa 1/2008)

1. LA COMUNICAZIONE DEL RISCHIO COME OGGETTO DI UNA SEMIOTICA DELLA CULTURA.

La comunicazione del rischio, la percezione del pericolo e la diffusione della paura sono fenomeni che, sempre più intrecciati nelle società globalizzate, spesso s’influenzano reciprocamente producendo effetti paradossali. Tali distorsioni possono essere analizzate da diversi punti di vista, ma è inevitabile che la riflessione s’imbatta, presto o tardi, in questioni che richiedono una competenza specifica nell’ambito dello studio dei linguaggi, dei sistemi di significazione e di comunicazione, delle loro interazioni e del modo in cui essi si articolano in relazione ai diversi contesti culturali. È evidente che la comunicazione del rischio sia oggetto di pertinenza di una semiotica della cultura; il modo in cui un individuo, un gruppo o un’istituzione segmenta il campo semantico della probabilità e dell’improbabilità degli eventi, li connota secondo una scala più o meno sfumata di pericolosità, costruisce attorno ad essi una serie di discorsi relativi alle loro cause probabili, alla loro descrizione, ai loro effetti possibili, ma soprattutto il modo in cui tali eventi diventano oggetto di un meta-linguaggio della prevenzione, indirizzato a un certo pubblico con determinati effetti persuasivi rispetto agli atteggiamenti da assumere, le precauzioni da prendere, i sentimenti da coltivare: in tutti questi processi una conoscenza dettagliata delle pratiche discorsive è indispensabile. Altrettanto si può affermare a proposito dell’altro polo della comunicazione del rischio, quello presso il qua-le si situano coloro che sono destinati a ricevere una serie di segni, messaggi, testi che, almeno teoricamente, dovrebbero colmare il divario informativo tra chi si occupa professionalmente delle situazioni di pericolo e chi, al contrario, è spinto a interessarsene solo quando esse sono probabili, o imminenti, o addirittura in atto. Vegliare che i codici della comunicazione siano uniformemente distribuiti presso la fonte e presso i destinatari, presagire le conseguenze potenzialmente disastrose di una formulazione ambigua dei messaggi di pe-ricolo, o di una loro erronea interpretazione, escogitare i modi più efficaci per ridurre le distorsioni comunicative indotte dagli stati emotivi di emergenza, ma soprattutto analizzare la storia, e i casi concreti, per costruire ipotesi esplicative sulle comunicazioni del rischio fallite, sulle reazioni sbagliate o controproducenti, sugli effetti paradossali: anche questi elementi non potrebbero essere adeguatamente affrontati senza il dovuto riguardo agli aspetti linguistici e, più ampiamente, semiotici.

2. LA PAURA COME OGGETTO DI UNA SEMIOTICA DELLE PASSIONI.

Almeno in apparenza, invece, il terzo dei punti sopra menzionati, la diffusione della paura, non è di stretta competenza semiotica, ma piuttosto appannaggio di una riflessione che si situa tra la sociologia e la psicologia sociale. In realtà, una branca della semiotica denominata “semiotica delle passioni” (Greimas e Fontanille 1991;Pezzini 1991; Pezzini 1998) ha messo in luce come le conoscenze accumulate nel campo dell’analisi dei messaggi, dei discorsi, dei testi, possano essere utilizzate per capire a) il modo in cui una cultura struttura il linguaggio delle passioni, ovvero arrangia le sfumature tra diversi stati emotivi e tende a cristallizzarle in un lessico; b) il modo in cui questa struttura semantica, e la sua controparte espressiva, mutano sia diacronicamente che sincronicamente; c) il modo in cui questo “linguaggio delle passioni” interagisce con altre articolazioni del senso in seno a un gruppo sociale. Riconoscere la componente linguistico-semiotica delle passioni è importante soprattutto perché contribuisce a spiegare come, lungi dall’essere un mero effetto della comunicazione, o un mero oggetto di essa, le passioni sono esse stesse un linguaggio, capace di veicolare contenuti secondi, ma soprattutto di spingere i suoi destinatari verso certi stati d’animo o certe azioni. A proposito della paura, dunque, si potrebbe dire che

non esiste solo una comunicazione della paura, o una comunicazione paurosa, che faccia trasparire o incuta questa passione, ma anche una paura come comunicazione, come strategia per trasmettere un ventaglio di idee, disposizioni pragmatiche, atteggiamenti. Se la paura è un linguaggio, è inevitabile che esso si articoli in modo diverso a seconda delle culture, dei contesti sociali e dei periodi storici, e chetale articolazione non sia fissa ma in divenire. Da questo punto divista, i maestri del linguaggio della paura, da Edgar A. Poe sino a Dario Argento e oltre, non sono solo quelli che sanno incutere questa passione in chi legge i loro racconti o vede i loro film, ma anche e soprattutto quelli che, attraverso un racconto della paura e delle sue sfumature, sono capaci di decifrare questo linguaggio, e di pro-porre dunque una comprensione di una cultura, di una società, di un periodo storico.

 

3. IL LINGUAGGIO DELLA PAURA: SINTASSI, STILE, TENORE.

È ovvio che ogni individuo, così come ogni gruppo sociale, abbia paure diverse, che cambiano con il passare del tempo. Decifrare il linguaggio della paura, però, non significa solo conoscere il modo in cui mutano gli oggetti di questa passione: è noto a tutti che la paura della peste fosse onnipresente nell’Europa medievale, quella della sifilide si sia diffusa solo a partire dalla fine del Cinquecento e quella dell’AIDS nell’ultimo ventennio del secolo scorso. È più complicato, ma per molti aspetti anche più interessante, riflettere sulla sintassi del linguaggio della paura, sulle regole non scritte che, in un contesto culturale, impongono che, qualunque sia l’oggetto del rischio, del pericolo e della paura, un’epidemia di influenza aviaria o l’imminenza di una recessione economica, questo linguaggio dia luogo a manifestazioni discorsive analoghe. Ragionare su questa sintassi è fondamenta-le se si vuole comprendere che, molto spesso, come si potrebbe enunciare parafrasando Marshall McLuhan, “fear is the message”, “la paura è il messaggio”: non la presenza di un rischio, o l’incombenza di un pericolo, o le informazioni su ciò che bisognerebbe sapere, sentire, fare a proposito di una situazione, ma la paura in sé, la paura come

linguaggio criptato di un ordine sociale, di un modo di gestire i flussi di informazioni, di un certo modo di concepire l’architettura politi-ca di una società (Robin 2004). Alcune di queste regole del linguaggio della paura sono sedimentate in ciò che Lotman definiva “sistema modellizzante primario”, che corrisponde grosso modo al linguaggio verbale (Lotman 1975); come ogni sedimento linguistico, tali regole sono piuttosto delle regolarità: cambiano inesorabilmente ma impercettibilmente, secondo ritmi e dinamiche che esulano dalla consapevolezza individuale. La lingua italiana attuale, ad esempio, contempla sul piano espressivo termini quali “paura”, “timore”, “spavento”, “ansia”, “panico”, “angoscia”, le cui corrispondenti aree semantiche si sovrappongono in maniera complessa ma mai totale. Ad ognuno di questi termini, infatti, ancor prima che essi siano associati a un oggetto preciso, o declinati secondo le sfumature che consente l’aggettivazione o le altre costruzioni discorsive, corrisponde una struttura passionale vuota ma ben precisa, le cui caratteristi-che è necessario conoscere se si vuole comprendere il modo in cui essa sia sintomo di un arrangiamento culturale. Tecnicamente, ad esempio, si potrebbe dire che “lo spavento”, “il panico” e il “timo-re”, solo per citare alcuni dei termini più noti del lessico italiano della paura, prevedono una diversa relazione tra aspettualità temporale e intensità: lo spavento è tipicamente improvviso e intenso, come registra il Devoto-Oli: «Intensa reazione emotiva di timore o paura avvertita di fronte a un pericolo o a un danno». Il panico, al contra-rio, è inteso generalmente come combinazione dell’intensità della passione paurosa con un suo prolungarsi nel tempo, quasi si trat-tasse di uno spavento protratto: «timore repentino di un pericolo che turba profondamente l’animo impedendo ogni reazione di difesa attiva e suscitando l’impulso alla fuga», lo definisce il De Mauro. Ancora diversa, poi, è la semantica del “timore”, che di solito s’in-tende come passione in cui la paura ha scarsa intensità (fino quasi a sfociare nell’apprensione) ma un’aspettualità temporale durativa. Quello appena delineato è soltanto un abbozzo di analisi sintattica del linguaggio della paura, eppure applicandolo allo studio dei di-scorsi che sottendono la cultura di una certa società, per esempio il discorso della classe politica italiana alla vigilia di una consultazione elettorale, si potrebbe cogliere il modo in cui esso si fa portavoce non solo di questa o quella paura specifica (la paura dell’inflazione, la paura della criminalità, la paura dell’immigrazione, e così via) ma anche di un “linguaggio della paura”, di un certo modo in cui la società italiana, attraverso le sue complesse fibre nervose e gli intricati fenomeni imitativi che le percorrono (Girard 1995), mantiene un “tenore passionale”, una certa attivazione collettiva rispetto al rischio, al pericolo, alla possibilità più o meno astratta, più o meno concreta di avere paura. Identificare questo tenore passionale, lo “stile della paura” che vige in una certa società è solo il primo passo; assai più complicato, ma altrettanto urgente, è comprendere per-ché questo stile si è insediato, attraverso quali passaggi, obbedend oalle esigenze e agli interessi di quali agenti sociali, con quali ricadu-te per la comunicazione del rischio, del pericolo, della paura.

4. IL DISCORSO DELLA PAURA NEI MEDIA STATUNITENSI.

Per rispondere a questi interrogativi non è sufficiente scandagliare il modo in cui uno “stile della paura” si è sedimentato all’interno della semantica di una lingua. Come sosteneva Lotman, infatti, il linguaggio verbale è solo uno dei tanti gangli, forse il più decisivo, o perlomeno quello per lo studio del quale gli analisti sono meglio attrezzati, a conferire un ordine e una struttura all’insieme dei se-gni, dei messaggi, dei testi che circolano in una società e nella cultura che essa esprime. David Altheide, per esempio, ha dimostrato in maniera piuttosto convincente che i me-dia statunitensi hanno un modo specifico di identificare nella realtà alcuni “qua-dri problematici” in base ai quali si generano strutture narrative ricorsive, che a loro volta raccontano una situazione di crisi e producono contemporaneamente controllo sociale e ciò che Altheide chiama, con felice definizione, una “iconografia della paura” (per certi versi concettualmente assai simile a quanto si è denominato “stile” o “tenore” della paura) (Altheide 2002). Il racconto della paura proposto dai media statunitensi, dunque, sarebbe caratterizzato da una persistente influenza delle strutture narrative tipiche dell’intrattenimento commerciale, per cui le situazioni di rischio o di pericolo sarebbero evocate, descritte e analizzate secondo stilemi tipici di questo genere: la presenza di una precisa struttura narrativa, la possibilità di iden-tificare rapidamente alcuni (pochi) valori morali “universali”, un tempo e uno spazio specifici, un contenuto non ambiguo, una focalizzazione sul disordine come minaccia, la valorizzazione di una “armonia culturale”. Questa cornice narrativa genererebbe discorsi che sintatticamente si riproducono sempre uguali a sé stessi, indipendentemente da quale specifico evento o situazione li abbia suscitati: qualcosa esiste che è indesiderabile – molte persone sono colpite da questo problema – aspetti o parti del problema sono facilmente identificati senza ambiguità – questo qualcosa può essere cambiato o ri-solto – c’è un meccanismo o procedura per risolvere il problema –l’agente di cambiamento o soluzione è noto in anticipo (di solito, il governo). L’incapacità della maggior parte dei media di render conto della complessità crescente di eventi o situazioni che, specie nelle società globalizzate, conduce a conseguenze potenzialmente rischio-se o pericolose sarebbe dunque, secondo Altheide, un sottoprodotto della straordinaria diffusione, e del successo planetario, di formatmediali che hanno nella tensione emotiva, e nelle varie sfumature della paura, il loro meccanismo chiave, quello grazie al quale essi riescono a fidelizzare gli spettatori-consumatori. Il tedio che inevitabilmente si cela dietro ogni descrizione articolata del rischio e del pericolo – l’insopprimibile ambiguità della realtà – sarebbe quindi espulsa a vantaggio di una comunicazione del rischio in cui non corre grande differenza fra il serial e il telegiornale; il dilagare dell’info-tainment farebbe allora sì che la percezione collettiva del rischio, del pericolo e della paura s’infantilizzi, sia sottratta alla costruzione di un discorso razionale per essere consegnata a una sorta d’incantesimo mediale, a una specie di gioco in cui non è più chiaro se la paura sia una passione da scrutare per meglio regolare i meccanismi della società liberale (Shklar 1989) ovvero un’emozione da trasformare in routine commerciale.

5. L’HOMELAND SECURITY ADVISORY SYSTEM.

Che l’ipotesi di Altheide sia corretta o meno, sta di fatto che le distorsioni prodotte dal “discorso della paura” sono comunque macroscopiche. Un esempio potrà forse servire a chiarire meglio i termini della questione. Negli aeroporti statunitensi ci s’imbatte sistematicamente in una specie di “totem della paura” ufficialmente denominato “Homeland Security Advisory System”, “sistema di avvertimento sulla sicurezza nazionale” [d’ora in avanti, HSAS]. Si tratta di una sorta di semaforo a cinque luci (rosso, arancione, giallo, blue verde) adottato in tutto il territorio statunitense in seguito a una direttiva presidenziale emanata sei mesi dopo l’11 settembre 2001.Essa descrive questo sistema come «inteso a creare un vocabolario, un contesto e una struttura comuni per una continua discussione nazionale a proposito delle minacce con cui si confrontano la nazione e delle misure appropriate da adottare come risposta». È significativo che questa direttiva parli di “vocabolario comune”, in quanto, perlomeno dal punto di vista semiotico, essa consiste nel tentativo di istituire un “linguaggio nazionale della paura”, un sistema di segni che consenta una comunicazione efficace a proposi-to delle situazioni di rischio, in particolare di quelle legate agli attacchi terroristici. È allora interessante analizzare questo sistema disegni e il tipo di “stile della paura” che esso rivela. Come ogni sistema semiotico, l’HSAS si compone di un piano dell’espressione e di un piano del contenuto. Il piano dell’espressione consiste in un’arti-colazione cromatica che individua cinque dominanti: è opportuno segnalare che, prima ancora che questa articolazione espressiva en-tri in relazione con una certa articolazione semantica, essa corrisponde già a una scelta simbolica precisa e tutt’altro che neutra; tale arti-colazione cromatica, infatti, prevede già una dissimetria tra i colori “caldi” (rosso, arancione e giallo) e quelli freddi (blu e verde). L’im-pressione di tale dissimetria è confermata se si analizza l’articolazione semantica proposta dall’HSAS: ai cinque colori corrispondo-no cinque etichette verbali, “severe”, “high”, “elevated”, “guarded” e“low” e cinque enunciati che dovrebbero descrivere lo stato di rischio rispetto a eventuali attacchi terroristici: “severo rischio di attacchi terroristici”, “alto…”, “significativo…”, “generale…” e “basso…”.Anche in questo caso la dissimetria del modo in cui si articola questo piano del contenuto è evidente: non solo il sistema non prevede la possibilità che il rischio di attacchi terroristici sia nullo, ma seg-menta il continuum del rischio attribuendo solo all’ultimo dei gradini una denotazione di “basso rischio”, mentre di fatto conferisce ai primi tre denotazioni quasi sinonimiche – non vi è poi molta differenza fra rischio “severo”, “alto” ed “elevato” – e al quarto una denotazione comunque più vicina alla zona di rischio elevato che a quella di basso rischio. Che questo sistema di segni non sia affatto neutro, ma sia sintomo, al contrario, di un ben preciso “stile della paura” è ancora più chiaro se se ne analizza non solo la sintassi (le regole interne secondo cui sono costruiti i suoi messaggi) o la semantica (le denotazioni di rischio che questi messaggi cromatici dovrebbero esprimere) ma la pragmatica, ovvero gli effetti che i messaggi prodotti con questo sistema di segni sortiscono nella realtà sociale americana. Un’analisi dettagliata della documentazione ufficiale relativa all’HSAS rivela che, in pratica, non vi è alcuna caratterizza-zione precisa di quali eventi o situazioni di terrorismo possano corrispondere ai diversi livelli di rischio segnalabili tramite questo “semaforo della paura”; inoltre, non si comprende come un’articolazione semiotica così povera (cinque elementi sul piano dell’espressione, cinque sul piano del contenuto) possa davvero informare la popolazione statunitense su una minaccia così complessa come quella del terrorismo, considerando anche il fatto che questa segnalazione è adottata in tutto il territorio nazionale, quasi che i livelli di rischio, la loro comunicazione e la loro percezione fossero uniformemente distribuiti dalle Hawaii sino a New Orleans. Ancora più inquietante è, però, il fatto che il governo non riveli apertamente quali effetti pragmatici questo sistema di segni dovrebbe avere sia sulla popolazione sia sui centri principali dell’amministrazione e della burocrazia statunitensi. Quali reali fenomeni di terrorismo sono maggiormente probabili se si passa, per esempio, dal livello blu a quello giallo? In che modo è necessario modificare la propria attitudine emotiva, cognitiva, pragmatica quando ciò avviene? Nessuno pare in grado di spiegarlo, e le informazioni che si leggono in proposito nelle pagine web della Casa Bianca si rivelano, di fatto, una serie di astratte indicazioni burocratiche. A ciò si aggiunge che, se si esamina questo sistema di segni non tanto come meccanismo sincronico, cioè come centro di alcune possibilità virtuali di comunicazione del rischio e del pericolo, ma come funzionamento diacronico, ossia come effettiva fonte di comunicazione nella sto-ria, ci si accorge che, dal momento della sua istituzione, l’HSAS non ha mai utilizzato i colori verde e blu, ma si è generalmente assesta-to sul giallo, “elevato”, segnale cromatico che indica un “rischio significativo di attacchi terroristici”; nello stato di New York, poi, il sistema è rimasto sempre sull’arancione, “alto rischio di attacchi terroristici”. Le osservazioni semiotiche sulla struttura dell’HSAS in-dicano che non si tratta di un buon sistema di comunicazione, dal punto di vista sintattico (è un sistema sbilanciato verso la percezione del rischio), semantico (è un sistema che offre un’articolazione espressiva troppo esigua rispetto alle complesse realtà che dovrebbe denotare) e pragmatico (non è chiaro quali percezioni e comportamenti debbano essere attivati dalle segnalazioni di rischio del sistema). Le osservazioni storiche sull’impiego effettivo dell’HSAS rafforzano ancor più la convinzione che esso sia suscettibile di generare due distorsioni comunicative in un certo senso contrarie ai suoi obbiettivi: da un lato, un clima sociale di paura generalizzata, costante e senza un’immaginazione precisa rispetto ai possibili scenari di rischio (Escobar 1997); dall’altro lato, un’assuefazione generalizzata rispetto a una comunicazione del rischio così ridondante e poco articolata. Se si considera l’HSAS come un sintomo del “linguaggio della paura”, dello “stile di paura” vigente negli USA a partire dall’11 settembre 2001, lo si potrebbe descrivere, allora, come una sorta di rumore di fondo, come una specie di acufene che accompagna la vita quotidiana dei cittadini generando uno stato di tensione nervosa perlopiù subcosciente (Castel 2003; Bauman 2006).Se questo sistema è sostanzialmente inutile, se non dannoso, è allo-ra inevitabile porsi la domanda di Medea: cui prodest? È significati-vo che, almeno in due circostanze, l’HSAS abbia registrato variazioni, l’una verso il basso, l’altra verso l’alto, fondamentalmente immoti-vate, ovvero senza che né i media, né l’amministrazione statale abbiano potuto addurre elementi fattuali che motivassero l’innalza-mento o l’abbassamento del livello di pericolo. Nel 2003, lo stato delle isole Hawaii ha abbassato il livello di rischio a “blu” (quando invece il primo governo Bush aveva appena decretato un suo innalza-mento al livello “arancione”), mentre un innalzamento scarsamente motivato è stato decretato in tutta la nazione tra l’1 agosto e il 10novembre 2004. I due fenomeni potrebbero sembrare irrelati, eppure il fatto che in entrambe le circostanze l’HSAS sia stato utilizzato per costruire un messaggio probabilmente ingiustificato da uno stato di rischio attuale rivela che anche questo sistema di segni apparentemente anodino, può, come ogni linguaggio, essere utilizzato per scopi manipolatori. Rispetto a quali siano tali scopi, si possono solo formulare alcune ipotesi. È perlomeno bizzarro che, di tutti gli stati della nazione statunitense, l’unico che abbia abbassato il livello di allerta sia quello in cui l’economia dipende in modo più rilevante dall’industria turistica (24,3% del PIL nel 1997). In realtà questo fattore dovrebbe aumentare, e non diminuire, la possibilità di attacchi terroristici, considerando quanto negli ultimi anni essi abbiano preso di mira alcune mete del turismo internazionale così come alcune pratiche ad esso strettamente legate (quali i viaggi aerei, per esempio). D’altra parte, ma è soltanto un’ipotesi, l’amministrazione di questo stato aveva forse ogni interesse a dichiararne la relativa sicurezza rispetto al resto del territorio statunitense, proprio per salvaguardare il ruolo che le Hawaii rivestono nell’immaginario di questa nazione: un arcipelago non solo geografico ma anche psico-sociale, un luogo in cui, pagando profumatamente, si può fuggire dalla società statunitense e dai suoi scontenti (compresa la minaccia del terrorismo). Quanto al repentino innalzamento del livello di pericolo decretato dal governo dal 1 agosto al 10 novembre 2004, si può perlomeno sospettare che, ancora una volta, quel rudimentale sistema semiotico che è l’HSAS sia stato utilizzato non per denotare questa o quella situazione di rischio, ma per connotare l’idea stessa del pericolo, per parlare all’intera nazione il linguaggio della paura. Non pochi commentatori, infatti, hanno sottolineato che il periodo in questione coincideva in maniera in-quietante con l’ultima fase della corsa elettorale per le elezioni presidenziali USA 2004 e Brigitte L. Nacos, ricercatrice presso la Columbia University, ha persino ipotizzato che, negli ultimi anni, vi sia stata una relazione di proporzionalità diretta fra l’innalzamento del livello di allarme tramite l’HSAS, poi ripreso e ampli-ficato dal discorso mediale USA, e il livello di popolarità del governo Bush nei sondaggi (Nacos 2007).

6. PAURA E LINGUAGGIO: IL COMPITO DELLA SEMIOTICA.

Non è possibile considerare queste “coincidenze” come “prove” del fatto che la comunicazione sul rischio e sul pericolo, e la concomitante costruzione di un discorso della paura siano sempre intimamente legati a una strategia manipolatoria dai fini politici. Allo stesso tempo, un esame attento e razionale dei sistemi di significa-zione di cui le società si dotano per divulgare informazioni è forse utile per individuare le distorsioni comunicative che essi possono produrre ma anche per evitare che gli effetti paradossali di queste distorsioni corrodano la capacità di scelta razionale dei membri ditali società.

BIBLIOGRAFIA

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Roberto Escobar, Metamorfosi della paura (Bologna: il Mulino, 1997).
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Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, trad. it. RemoFaccani e Marzio Marzaduri (Milano: Bompiani 1975).
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Isabella Pezzini (a cura di), Semiotica delle passioni: saggi di analisi semanticae testuale (Bologna: Esculapio 1991)
Isabella Pezzini, Le passioni del lettore: saggi di semiotica del testo (Milano:Bompiani 1998).
Corey Robin, Fear – The History of a Political Idea (Oxford e New York: OxfordUniversity Press 2004).
Judith N. Shklar, “The liberalism of fear”, in Rosenblum, Nancy L.. Libera-lism and the Moral Life (Cambridge, MA: Harvard University Press 1989), 21-38.

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