Luisella Battaglia e Stefano Semplici – MORTE NOSTRA, MORTE DEGLI ALTRI, ETICA DELLA CURA

(Estratto da Paradoxa 1/2025)

Le questioni legate alla ‘entrata’ nella vita e alla ‘uscita’ da essa si sono guadagnate uno spazio importante nell’etica medica fin dalle sue origini e dal giuramento di Ippocrate. Negli ultimi 50 anni il confronto su questi temi è stato al centro della bioetica, ne ha accompagnato la nascita e alimentato la fortuna. A ciò hanno contribuito sia la dinamica di un sempre più vivace pluralismo di prospettive normative e quindi proposte applicative sia il tumultuoso sviluppo delle scienze biomediche e delle tecnologie a esse connesse.

Per quanto riguarda più specificamente i problemi che ci si è ormai abituati a definire del fine vita, sono cambiati profondamente, nel volgere di pochi decenni, le circostanze, le modalità, il modo stesso di ‘guardare’ alla morte. Tali trasformazioni hanno prodotto esiti complessi e non sempre convergenti, che coinvolgono la libertà dell’individuo rispetto alle diverse forme del potere – quello politico e delle istituzioni, ma anche quello dei medici –, i valori di autonomia e dignità, il limite nell’uso di trattamenti sempre più efficaci, ma al tempo stesso sempre più invasivi e intrusivi rispetto a un evento inevitabile e al tempo stesso eminentemente ‘personale’, da assumere coscientemente e responsabilmente, nella misura massima possibile, come momento riassuntivo dell’intera esistenza.

Lo storico francese Philippe Ariès, ne L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, ha mostrato come si sia passati, nei secoli, da un atteggiamento di accettazione della morte, affrontata come un evento naturale, a una vera e propria proibizione della morte, che non è solo lotta contro di essa per allontanarne il momento, ma anche tendenza a confinarla ai margini dell’orizzonte sociale, lontano dai luoghi del vissuto quotidiano. Il rovesciamento dell’antico paternalismo medico ha riconosciuto la centralità del principio di autonomia, che sancisce il diritto della persona di decidere in merito ai trattamenti medici e quindi anche di rifiutarli, se non corrispondono ai suoi valori e alla sua filosofia della vita. Quando si parla della morte, tuttavia, la dimensione individuale e quella sociale non possono evitare di continuare a incontrarsi: da qui la necessità di ripensare continuamente e senza chiusure pregiudiziali gli stessi strumenti giuridici che regolano un contesto in tumultuoso divenire, nel quale l’innovazione erode quotidianamente le barriere che la natura poneva alla libertà di scelta sul modo di vivere e di morire, consentendo scelte e decisioni dove prima regnavano il caso e il destino. Da qui, soprattutto, il riemergere del bisogno dell’aristotelica phronesis, ovvero dell’arte della ragion pratica innestata sulla consapevolezza che i principi ultimi di un sistema morale, pur se enunciati con la massima precisione, non sono in grado di offrire risposte univoche a tutti i problemi che si pongono gli uomini e agli uomini nell’infinita varietà delle situazioni concrete.

Il filo di Arianna di questo fascicolo di «Paradoxa» è offerto dall’etica della cura, ma in una prospettiva allargata rispetto a quella che ha guadagnato sempre maggiore spazio nella riflessione contemporanea. Gli articoli raccolti nella prima parte hanno così l’obiettivo di esplorare aspetti diversi della cura mortis, utilizzandola come una cartina di tornasole che consente di approfondire e meglio comprendere non solo i fini e le forme di esercizio della professione medica, ma anche il fatto che è proprio in essa che si verificano in modo esemplare il significato e la forza delle relazioni delle quali è intessuta l’esistenza umana.

Salvatore Amato, muovendo dalla tensione fra ‘scegliere la morte’ (l’espressione suprema del potere sugli altri, ma anche il gesto estremo che afferma il senso che si riconosce alla propria vita) ed essere ‘scelti dalla morte’ (il dominium sui come accettazione che la natura faccia il suo corso e condivisione con gli altri di questa attesa), non si limita a disegnare l’orizzonte all’interno del quale collocare anche l’analisi della sua medicalizzazione. Il rispetto dell’autonomia non può essere disgiunto dall’esercizio della solidarietà e questo non implica soltanto il ruolo del diritto – law – e l’assistenza sanitaria come diritto – right. Si può dire che, più in profondità, il pensiero della nostra morte non può essere disgiunto dal pensiero della morte degli altri, che diventa riconoscimento, legame, responsabilità.

I contributi di Luisella Battaglia, Davide Sisto e Stefano Semplici esplorano alcuni dei percorsi più significativi che è possibile tracciare a partire da questa premessa e confrontandosi con le prospettive più sfidanti che rinviano ai mondi distinti e insieme reciprocamente porosi della cultura, della scienza, della politica. Battaglia mostra come il problema della morte degli animali solleciti a portare fino in fondo l’idea che in essa la dimensione della vulnerabilità emerge come ciò in cui gli esseri umani possono riconoscere la loro vicinanza agli altri esseri viventi: l’animale è il soggetto di una vita del quale l’uomo è chiamato a prendersi cura e del primo – per riprendere l’immagine di Francesco d’Assisi – la morte è ‘sorella’ come del secondo, a sottolineare la comune dimensione di finitezza e appartenenza alla natura. Sisto offre al lettore gli strumenti per orientarsi nel contesto nuovo, allo stesso tempo seducente e inquietante, dell’applicazione alla morte della ibridazione sempre più spinta di online e offline, confrontandosi anche con la prospettiva della ‘immortalità digitale’. Semplici affronta la questione della disuguaglianza di fronte alla morte che nasce dalle tante disuguaglianze nei social determinants of health, a livello globale ma anche nazionale. La morte degli altri può ‘contare meno’ quando non è la morte dei ‘nostri’?

Gli articoli della seconda parte intercettano alcuni nodi fondamentali della più tradizionale declinazione del curare come prendersi cura, farsi carico responsabilmente dei bisogni e delle sofferenze della persona nella fase terminale della sua vita. Sandro Spinsanti si sofferma sui diversi atteggiamenti che possono essere assunti dai ‘professionisti’ della cura, indicandone le componenti essenziali – la spinta motivazionale, la dotazione epistemica, i modelli etici di riferimento, la collocazione nel sistema della cura – e illustrando le diverse ‘posture’: scientista, vitalistica, specialistica, filantropica, conversazionale. Carlo Casalone propone una rivisitazione della nozione di proporzionalità dei trattamenti nella prospettiva del ‘bene globale’ della persona, soffermandosi sui contesti nei quali i pazienti non sono ancora o non sono più in grado di decidere (le fasi iniziali della vita, quelle avanzate delle patologie che compromettono consapevolezza e volontà) e dunque le scelte terapeutiche sono più difficili. Andrea Manazza e Mario Picozzi discutono una serie di casi che sollecitano una più approfondita riflessione etica. Il primo, muovendosi nell’ambito delle cure palliative, sottolinea l’importanza di rispondere ai bisogni reali delle persone e dunque di un approccio flessibile, sostenuto da competenza, vicinanza al malato (relazionalità), comunicazione. Il secondo evidenzia nel percorso di donazione e trapianto di organi, in riferimento a situazioni che possono apparire al limite ma non sono affatto estranee alla vita reale, l’esigenza di non accontentarsi dell’idea che l’applicazione rigida di norme comuni sia tutto ciò che serve per la correttezza della scelta morale. Completa il fascicolo un dialogo con Luca Savarino sugli aspetti fondamentali della legge n. 219 del 2017.

Non stupirà constatare come su alcuni temi ci siano approcci diversi, come riconoscono gli stessi autori – citiamo per tutti l’applicazione delle disposizioni anticipate di trattamento e la morte medicalmente assistita –, e come emergano questioni sulle quali il confronto appare destinato a restare aperto, pur nella chiarezza delle indicazioni normative che possono essere fornite dalle leggi (che sono spesso, a loro volta, diverse fra i diversi Stati). Da qui l’esigenza di una discussione che si mantenga equilibrata e serena nelle scuole, negli ospedali, nelle associazioni, nella consapevolezza della straordinaria complessità delle questioni che dobbiamo affrontare. In questa prospettiva, un’esperienza significativa può essere quella dello ‘Spazio etico’, un organismo in via d’introduzione nel nostro Paese, modellato sull’esempio dell’Espace éthique de l’assistance publique, operante in Francia da oltre un trentennio. Inteso come luogo d’ascolto e d’incontro, esso si propone di dar voce ai singoli cittadini e alle associazioni che li rappresentano al fine di favorire il dialogo, condividere esperienze di vita, affrontare difficoltà e incomprensioni. La sua funzione primaria – come si sottolinea nel parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Vulnerabilità e cura nel welfare di comunità. Il ruolo dello Spazio etico per un dibattito pubblico (2021) – è quella di individuare le diverse condizioni di vulnerabilità – specie quelle in cui si manifestano sofferenza, senso di esclusione, isolamento – al fine di ridurre le occasioni che le generano e di costruire nuove forme di assistenza e cura.

Si tratterà sempre, in ogni caso, di garantire la compatibilità di ‘autonomia’ e ‘cura’. Il cardinale Martini, interrogandosi, a proposito del caso Welby, sull’appropriatezza di un intervento medico, metteva in guardia dall’ancoraggio rigido a regole generali, quasi matematiche, da cui dedurre il comportamento adeguato in ogni situazione. Occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, la situazione in cui l’evento si svolge, tenendo al centro la persona come centro di libertà e di relazioni. Ma questo, come si è detto, non vale solo per le questioni del fine vita, a partire da quelle più controverse. È come contributo a questo ‘metodo’, ospitale nei confronti di posizioni e sensibilità diverse, che presentiamo questo numero di «Paradoxa».

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