(editoriale di Paradoxa 1/2018)
Nell’esercizio della razionalità, nella nostra ricerca di senso, nel tentativo di rispondere alle questioni ultime del nostro stare al mondo, possiamo dirci ancora ‘moderni’? La domanda è dichiaratamente filosofica e si può legittimamente avere la tentazione di lasciarla ai filosofi di professione: tanto più che non è nemmeno subito evidente quale sia la posta in gioco.
Se però cediamo alla tentazione, se abbandoniamo il termine ‘moderno’ al linguaggio ordinario, che premia con quest’aggettivo chi (o quel che) è alla moda, aggiornato, attuale – «quant’è attuale!»: uno dei massimi elogi che sappiamo concedere ad un classico del passato – , allora la filosofia ci mette di fronte ad uno specchio che riflette un’immagine poco lusinghiera. Nessuna icona di questa modernità, infatti, è più pertinente del placido ruminante con il quale Nietzsche, nelle prime pagine della Seconda considerazione inattuale, azzarda un fallimentare tentativo di dialogo: il filosofo, malato di storia e di vecchiaia, vorrebbe carpire all’animale il segreto della sua spensierata felicità; e da parte sua il ruminante, «che non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, [che] salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno», vorrebbe anche rispondergli, ma è talmente attuale, talmente immerso nel modo (adesso) della sua modernitas, che dimentica la risposta un attimo dopo averla formulata. E rumina, modernissimo e ottuso, istante dopo istante, suggerendoci indirettamente che tutto sommato può convenire porsi il problema e concedere al filosofo quel tanto di attenzione che basta a non farci trovare in una posizione così poco elegante. Dalla quale, in effetti, la filosofia ci toglie subito: la domanda sulla ‘modernità’, infatti, come ogni interrogativo genuinamente filosofico, presuppone una presa di distanza dal significato corrente del termine, la quale si realizza innanzitutto come acquisizione di una consapevolezza storica. Si tratta insomma di chiedersi se possiamo, vogliamo, magari dobbiamo considerarci ancora pienamente interni ai problemi, al lessico, ai valori, alle istanze teoriche che sono state plasmate da eventi e pensatori dell’Europa, appunto, ‘moderna’, tra il cinquecento e il settecento.
Una risposta positiva non è affatto scontata. Gli slogan che segnalano la necessità di un congedo definitivo da queste istanze e valori sono molti: morte del soggetto, fine delle grandi narrazioni, nichilismo, post-verità e, infine e per l’appunto, postmodernità sono espressioni à la page, pervasive e potenti ben al di là dei confini degli addetti ai lavori. La tesi impegnativa che il curatore propone innanzitutto agli autori e poi al lettore è espressa con la doppia negazione del celebre titolo crociano: ‘non possiamo non’ dirci di nuovo moderni; ‘non possiamo non’ riprendere daccapo le grandi questioni che sembravano sepolte dall’atteggiamento rinunciatario e irresponsabile di un certo modo novecentesco di filosofare: la verità, il soggetto, il senso della storia. Tesi che, in senso generale, ‘non si può non’ sottoscrivere, per il fatto stesso di continuare a impegnarsi nell’esercizio del pensiero. E tuttavia, come spesso accade nei fascicoli di «Paradoxa», più interessanti della concordanza sull’ispirazione di fondo sono le modulazioni, le sfumature, i diversi gradi di adesione con cui in ciascun contributo essa viene ripresa, rielaborata e rilanciata. Della modernità, o neo-modernità o forse (come suggerisce qualcuno) iper-modernità, viene fuori un’immagine plurale, variegata, del tutto priva dell’arroganza che generalmente viene imputata ai filosofi moderni. Emerge una (neo)modernità assai più incline al gesto negativo della critica che a quello positivo della fondazione: non a caso, per riprendere la suggestiva immagine del curatore, lo spazio neomoderno non è un dato di fatto ma è costitutivamente «u-topico»; va raccontato piuttosto che fondato; e, se è vero che esige una pars construens accanto a quella destruens, è anche vero, come suggerisce uno degli autori, che questo costruire non è l’edificazione di imponenti cattedrali del pensiero, ma è piuttosto un «aggiustare» (Tagliapietra, p. 49).
A rischio di forzare l’intento esplicito di queste pagine, e con tutte le cautele di fronte al rischio di risucchio in vortici dialettici, si può forse sostenere che la neomodernità che emerge dal complesso dei contributi ha assimilato e rimeditato più di un’istanza del post-moderno (cui pure intende opporsi frontalmente) e si è riletta alla luce di questo. E il ‘soggetto’ neo-moderno si scopre figlio del fondazionalismo di Cartesio e dello scetticismo di Montaigne, dell’autonomia di Kant e dell’empirismo di Locke; si scopre alle prese con una realtà intrecciata a doppio filo con l’esperienza (Pirni, Staiti) e intrisa di virtuale (significativo il ricorso al postmodernissimo Deleuze nel contributo di Panattoni); si scopre libero in un modo molto problematico (come mostra la mappa del dibattito sul libero arbitrio disegnata da De Caro) e si scopre autonomo, sì, ma solo in un senso – difficile da pensare – «relazionale» (Fabris). Forse il problema è che il post-moderno non è soltanto un’ubriacatura filosofica nichilistica cui opporre una giusta sobrietà e i giusti valori; non è soltanto un errore teorico da correggere, ma una condizione epocale, con risvolti persino economici (Giovanola), con la quale confrontarsi non soltanto utilizzandolo come «testa di turco» (p. 55). Forse la (neo)modernità non può non essere in tutti i sensi post-postmoderna.