(Editoriale di Paradoxa 2/2023)
Il modo in cui, per lo più, ci si rappresenta l’azione di una forza nello spazio è ancora largamente debitore del paradigma newtoniano. La forza di gravità terrestre, per esempio, viene immaginata come quella capacità del nostro pianeta di agire a distanza su corpi di massa significativamente più piccola, attirandoli a sé senza toccarli: in questo tipo di rappresentazione, lo spazio ha il ruolo di una semplice cornice, sostanzialmente indifferente ai drammi delle prove di forza che si svolgono al suo interno. Per quanto intuitivo e apparentemente ovvio, questo modello è obsoleto e la fisica contemporanea lo ha sostituito con quello relativistico che, secondo l’icastica formulazione del celebre fisico John Archibald Wheeler, può essere sintetizzato così: «Lo spazio-tempo dice alla materia come muoversi, la materia dice allo spazio-tempo come curvarsi» (Geons, Black Holes and Quantum Foam, 2000, p. 235). Secondo quest’altra prospettiva, la gravità non è una misteriosa azione a distanza che un corpo esercita su un altro, ma una curvatura dello spazio, il quale si piega, come fa un lenzuolo teso sotto il peso di un grave, col risultato che il corpo più piccolo scivola verso quello più grande per il semplice motivo che è lo spazio stesso che lo muove. È evidente che qui lo spazio non è uno spettatore disinteressato, ma un attore coinvolto in prima persona, che, in quell’interazione che ci rappresentiamo come azione di una forza, riveste un ruolo contemporaneamente attivo (muove) e passivo (è piegato).
In un certo senso, la geopolitica, dei cui equilibri si discute in queste pagine, mette in opera la stessa inversione prospettica del paradigma relativistico rispetto a quello newtoniano. Secondo la definizione che il Curatore propone in un precedente fascicolo di «Paradoxa», che è utile tener presente, «l’obiettivo di un paradigma geopolitico è comprendere prima facie la “politica internazionale” quale prassi concreta e storicamente determinata nello spazio geografico» (La geopolitica che viene, 2/2016, p. 12). Potrebbe sembrare un truismo: è ovvio che qualsiasi azione politica insiste concretamente in uno spazio geograficamente determinato. Ma la definizione citata intende dire di più e cioè che lo specifico del «paradigma geopolitico» consiste nel complicare l’idea che tale spazio sia il semplice scenario, politicamente indifferente, di forze e conflitti che si dispiegano secondo leggi del tutto autonome e che si riflettono poi in una certa configurazione di confini e suddivisioni territoriali, che lo spazio si limita a subire. Non che la geografia non sia anche il risultato della politica e, anzi, nel suo intervento introduttivo a questo fascicolo Diodato lo sottolinea a chiare lettere: «Sia chiaro: è la politica che dà senso allo spazio e non viceversa» (p. 21). Ma lo spazio non è solo un ricettacolo passivo, come per altro emerge – chioserebbe un filosofo – già solo dal fatto che ‘senso’ è un concetto in sé strutturalmente spaziale, per cui avere un senso significa essere orientato in una certa direzione. Il punto della geopolitica è che lo spazio geografico nudo e crudo, quello brutalmente materiale, scabro, mai del tutto riassumibile nella levigatezza delle forme geometriche con cui si prova a rappresentarlo, ‘curva’ qualsiasi azione abbia luogo (appunto) sul piano della politica internazionale, perché contribuisce in modo determinante a suggerirla, legittimarla, agevolarla o ostacolarla.
I contributi che seguono tentano di offrire una mappa di queste curvature, degli squilibri che provocano e dei riequilibri che sollecitano, mettendo in evidenza diversi centri gravitazionali verso cui piega l’ordine politico internazionale: primo fra tutti l’Europa Orientale, come è inevitabile che sia dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma anche la Germania, l’Artico, il Sahel, la Cina e poi le traiettorie seguite dai flussi energetici e migratori. Ne emerge una cartografia complessa, che obbliga l’analisi a non adagiarsi troppo velocemente sulle tradizionali faglie Est/Ovest o Nord/Sud. E che fa risuonare, forte e chiara, l’esigenza di non sottoscrivere troppo velocemente un paradigma universalizzante, che, a forza di sovrastimare i grandi fenomeni globalizzanti – dalla pandemia alla rete, alla finanza – rischia di dare l’illusione di una completa deterritorializzazione: proprio il modo in cui gli analisti finanziari lavorano sul rischio conferisce, per esempio, una nuova centralità dell’elemento ‘locale’, ossia dell’intervento dei singoli stati, rispetto alla tendenza delocalizzante delle grandi multinazionali, il che provoca veri e propri «movimenti tettonici» (Sottilotta, p. 49).
La prospettiva geopolitica non si propone come un totale cambio di paradigma, ma semmai come un’integrazione rispetto ad altri approcci. Certo è che, da questo punto di osservazione, è legittimo sollevare una domanda che, nel quadro di una considerazione dell’Occidente come ideale universale, non territoriale, ma valutativo – secondo una prospettiva come quella sostenuta nel fascicolo Orgogliosamente Occidente («Paradoxa» 1/2023) al quale il Curatore fa esplicito riferimento –, non può nemmeno essere formulata: «se la sconsiderata decisione della Russia di invadere l’Ucraina (nel 2014 e poi nel 2022) sia imputabile all’errore strategico di non aver incluso l’Ucraina nell’Occidente, oppure se non sia vero proprio il contrario» (Diodato, p. 15).