(Editoriale di Paradoxa 1/2025)
Di Francesco d’Assisi, Max Scheler scrisse una volta che «per fortuna sua e nostra non è stato né teologo né filosofo» (Essenza e forme della simpatia, 1922), volendo intendere che, se avesse provato a formulare in concetti rigorosi le sue intuizioni, sarebbe con ogni probabilità incappato in qualche eresia. Se a questo si aggiunge che la morte, nel Cantico delle creature, non è una, ma sono due – una che è «sora nostra» e l’altra che non lo è affatto – si capisce subito che il titolo di questo fascicolo non può essere inteso come il richiamo a un atteggiamento genericamente ‘francescano’ (e un po’ stucchevole) nei confronti della fine della vita, ma va letto innanzitutto come avvertenza del fatto che ci si sta consapevolmente arrischiando in un’operazione piuttosto delicata.
Al di là del senso specifico che assume nel quadro teologico del Cantico, l’affermazione per cui la «morte corporale» non coincide con la «morte secunda», la quale non riguarda il corpo, ma qualcos’altro, significa che il morire non è un fatto semplice (perché appunto è duplice) né semplicemente naturale, ma investe una dimensione che non è chiaro quale sia esattamente (l’anima? lo spirito? la persona?). Detto più precisamente, per il vivente umano morire non è (solo) un fatto, ma (anche) una possibilità: è anche, e inevitabilmente, una presa di posizione che in questo senso, ben prima che intervenga la tecnica, è radicalmente ‘innaturale’; e gli sviluppi della tecnica, amplificando il ventaglio del possibile, non fanno altro che rendere tale innaturalità più evidente, ma ne sono conseguenza e non causa. Che lo si voglia o no, morire comporta un’assunzione di responsabilità in prima persona, che ovviamente può esser declinata anche nelle forme negative ben note della fuga o della rimozione, che sono anch’esse prese di posizione. Per questo il pharmakon epicureo – quando c’è la morte non ci siamo noi – non ha mai tranquillizzato nessuno e anzi, come ha chiarito Heidegger, ha senso solo se capovolto: è solo di fronte alla morte che io ci sono, che io sono io, perché non si muore, ma io muoio. E nessuno può (né deve) farlo al posto mio.
In fondo, i problemi, tanto urgenti quanto estremamente concreti, affrontati nelle pagine che seguono derivano tutti da qui, da un doppio vincolo che solo all’apparenza è molto astratto: quello tra l’impossibilità di condividere quel che è assolutamente individuale e la necessità teorica e pratica, fattuale e morale, di farlo.
Chi muore è solo: il vissuto di abbandono a sé stessi non ha risparmiato nemmeno il morente sulla croce e non è che l’altra faccia della propria ineludibile e non trasferibile responsabilità. Se non si prende sul serio questa solitudine radicale, qualsiasi tentativo di interazione fallisce. Rischia di trasformarsi in una forma di prevaricazione, che normalizza l’irripetibile in protocolli collaudati e impone stili di morte prêt-à-porter. Oppure finisce con il risolversi in un palliativo, nel senso non tecnico e deteriore del termine, come accade nelle inquietanti ‘relazioni’, si fa per dire, con i thanabot, di cui si parla in uno dei contributi.
È per questo che tentare di pensare un qualche affratellamento nella e con la morte, con tutte le implicazioni pratiche che i curatori mettono in evidenza nell’introduzione, non è una constatazione, ma una contestazione. Non è la presa d’atto di una pacifica realtà naturale che non chiede altro che di essere riconosciuta, ma il rifiuto di appiattirsi su di essa. Il che implica, per l’appunto, contestare il dato di fatto su più livelli: contestare i confini ‘naturali’ (di spazio o di specie) delle morti che ci interpellano; contestare la convinzione che riportare, nuda e cruda, una verità fattuale equivalga a comunicare con un paziente; contestare l’idea che prendersi la responsabilità di qualcuno significhi illudersi di potergliela sottrarre o che accompagnarlo fino alla fine sia inutile, se comunque la solitudine di fondo non viene superata; contestare l’illusione di chi vorrebbe regole senza interpretazioni e l’irenismo di chi pensa che sia necessario essere d’accordo su tutto per tracciare un orizzonte di riferimento efficace.
Chiamare ‘sorella’ la morte significa optare per un agire nonostante tutto, con la stessa paradossale ostinazione di chi nel lamento contesta – e, così facendo, di fatto smentisce – la propria solitudine: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».