(editoriale di Paradoxa 4/2017)
Un ipotetico lettore di «Paradoxa» che fosse tanto appassionato da non perdersi un numero, e che fosse per giunta dotato di buona memoria, potrebbe trovarsi stavolta in qualche imbarazzo: come tenere insieme nell’ambiente teorico e culturale di una medesima rivista il fascicolo 3/2009, che, riproponendo e rilanciando alcune riflessioni di Vittorio Mathieu, stigmatizzava il Senso perduto della pena, ossia il progressivo venir meno di quest’ultima come architrave del sistema giuridico, e questo fascicolo sulla «giustizia riparativa», che azzarda la messa in questione dell’idea stessa che tra colpa e pena vi sia un nesso logicamente consistente? Sarebbe fin troppo facile cavarsela rimettendo a ciascun curatore le sue responsabilità: in realtà la responsabilità davvero sollecitata è quella di «Paradoxa» (e di rimbalzo di chi la legge), la quale, proponendosi come luogo di tensione e non di conciliazione, è chiamata al tentativo di far reagire in modo creativo prospettive che sono e restano diverse, senza alcuna garanzia che tale tentativo riesca. In via del tutto esplorativa, provo a sottolineare due punti di frizione, che scaturiscono da una lettura incrociata dei due fascicoli e che mi sembra costituiscano altrettante feconde direzioni di approfondimento.
- Uno degli elementi qualificanti della Restorative Justice è l’idea di una differenza qualitativa e di principio tra i diversi punti di vista coinvolti nella giustizia (il reo, la vittima, la società). Si tratta di un’idea ricca di implicazioni teoriche, che sembra rendere effettivamente inevitabile una revisione sostanziale del concetto tradizionale di ‘pena’ e del ‘senso’ stesso del punire: in particolare esprime la necessità di riconsiderare a fondo l’impianto kantiano, sul quale faceva perno il fascicolo del 2009, non tanto mettendo in questione il nesso (inaggirabile) tra punizione, imputabilità e libertà, quanto piuttosto prendendo molto sul serio quella declinazione alla seconda persona del soggetto morale kantiano («tu devi»), che si scopre libero solo in quanto destinatario di un imperativo che lo pone come responsabile «di fronte a»: forse di fronte a qualcuno, come suggeriscono le riflessioni qui sviluppate, prima ancora che di fronte alla sola Legge morale, cioè alla ragione, cioè, in ultima analisi, a se stesso. Da questo punto di vista, la giustizia che ripara è innanzitutto il riconoscimento del fatto che in questione ci sono prima di tutto persone di cui prendersi cura e solo in secondo luogo norme e trasgressioni.
- Simmetricamente, anche e proprio in considerazione di quanto appena detto, appare forse troppo rapida l’idea che dietro la pena vi sia semplicemente una sorta di mitologema religioso e pseudorazionale. E questo per almeno due motivi: innanzitutto perché il ruolo del ‘religioso’ in questo contesto è tutto da definire, così come è tutt’altro che scontato che la tradizione greca e quella ebraico-cristiana stiano sullo stesso versante. Per dirla rimeditando un suggestivo riferimento del Curatore: il contrappunto di lamentazione e teofania di cui vive il Libro di Giobbe sfocia in un rifiuto senza mezzi termini dell’ordine impersonale di Anassimandro e ne dichiara definitivamente l’ingiustizia profonda, lanciando una sfida all’idea retributiva di giustizia che viene portata alle sue estreme conseguenze nei testi neo-testamentari. In secondo luogo perché, proprio situando il problema in uno spazio strutturalmente plurale e intersoggettivo piuttosto che in un ordinamento sacrale, emerge forse nell’esigenza della pena qualcosa di più profondo della semplice restaurazione di un equilibrio turbato e di irriducibile alla logica della vendetta.
Consideriamo un momento l’esperimento, utilizzato nell’ambito della teoria economica, noto come «ultimatum game». Ad un giocatore viene consegnato un certo bene, una somma di denaro o la classica torta. Gli viene detto che deve offrire ad un secondo giocatore una certa quota di quel bene e, nel caso in cui il partner accetti la sua offerta, può tenere per sé il resto. In caso di rifiuto, nessuno otterrà niente. A quanto sarà disposto a rinunciare il primo giocatore per convincere il secondo ad accettare l’offerta? Dal punto di vista puramente logico, al giocatore 1 conviene offrire una quota minima e al giocatore 2 conviene accettare in ogni caso: tutti e due, infatti, si trovano di fronte all’alternativa tra guadagnare qualcosa (anche molto poco) piuttosto che niente. La pratica effettiva di questo gioco dimostra che le cose vanno diversamente: se l’offerta del giocatore 1 non viene percepita come equa il giocatore 2, nonostante ci rimetta, tende a rifiutare l’offerta. Perché? Tra le molte letture possibili, azzardo una proposta: il giocatore che riceve un’offerta iniqua rifiuta molto semplicemente perché non si sente riconosciuto dall’altro. Se questo è vero, significa che l’equa ripartizione non è subordinazione ad un ordine pseudorazionale, ma è uno strumento per vedersi riconosciuti dagli altri interlocutori (nel caso specifico tanto il reo quanto la società) anche nel proprio sentirsi violati o offesi, di essere riconosciuti nella propria dignità di vittime. Forse la pena è anche o prima di tutto una risposta a questa domanda radicale. Non per caso una delle domande più affascinanti che attraversano l’intero fascicolo è se il modello della giustizia riparativa sia alternativo o complementare rispetto a quello tradizionale.