(editoriale di Paradoxa 1/2019)
Uno degli obiettivi con cui nasce «Paradoxa» – non tanto come rivista, quanto come operazione culturale – è quello di aiutare il non specialista a dare una forma più precisa alle proprie domande, curiosità, convinzioni, per lo più inespresse, grazie al lavoro di specialisti che, prestandosi a sconfinare dal proprio territorio, riescono spesso a ribaltare quel che per lo più si crede o si pensa, quasi a propria insaputa. In fascicoli particolarmente tecnici, come questo, tale (felice) dinamica risulta particolarmente evidente.
È sensazione diffusa che l’economia sia il vero luogo in cui si concentra oggi il potere e in cui accadono decisioni rispetto a cui la politica non può che adeguarsi. Mercati finanziari e multinazionali sono i veri attori capaci di determinare, secondo i propri interessi, l’accadere degli eventi; e una realtà politica, e politicamente fragile, come l’Unione Europea, che assomma le debolezze dei singoli paesi membri, appare come un orpello inutile e peggio dannoso.
In netta controtendenza con questa narrazione diffusissima e probabilmente vincente sotto il profilo del consenso, questo fascicolo rilancia l’idea di una politica economica. Praticando la distinzione, ovvia per gli specialisti, meno per gli altri, tra l’economia (reale) e l’Economia (teorica) i diversi contributi aiutano il lettore a prendere atto di quanto vi sia di ‘scelto’ – frutto cioè di decisione tutta politica – dietro meccanismi e dinamiche che sembrerebbero invece dati di fatto da accettare come tali. In certo senso, questo fascicolo si presenta come un attacco deciso al dogma del TINA (there is no alternative) e come una difesa del margine di manovra che in realtà accompagna sempre l’economia, come qualsiasi altra realtà umana. Sancire che la stabilità (finanziaria e monetaria) sia un bene pubblico primario e inderogabile, optare per un certo sistema tributario, concentrarsi sul governo della moneta unica piuttosto che sull’armonizzazione e sul potenzialmente degli strumenti di welfare, costituzionalizzare regole (come il Fiscal Compact) che sono esito di una specifica dottrina economica – tutti questi non sono fatti dell’economia, ma scelte di politica economica. Rinunciare a quest’ultima, secondo la tesi forte di uno degli autori, significa legittimare una limitazione della democrazia in nome di una (tutta presunta) efficienza economica.