(editoriale di Paradoxa 4/2016)
È frutto di un caso. Ma che il decimo compleanno di «Paradoxa» cada in un fascicolo dedicato al tema delle lobby è una circostanza fortunata, oltre che fortuita, perché mette in risalto, come meglio non si potrebbe, due tratti salienti della fisionomia della rivista.
Il primo, nomen omen, è la paradossalità: in queste pagine viene, infatti, argomentata una tesi che concede molto poco all’opinione comune; una tesi che non solo non è populista, ma che non è nemmeno popolare. A fronte dell’idea diffusa per cui gli interessi corporativi di notai, farmacisti, magistrati, tassisti, sindacati, professori, e via categorizzando, rappresentano il nemico pubblico numero uno del pubblico interesse, gli autori convergono sostanzialmente nell’affermare che le lobby sono in linea di principio un elemento essenziale della vita democratica. Lasciamo al lettore il gusto di confrontarsi con le ragioni che consentono di sostenere una simile posizione: conta sottolineare, qui, che il tentativo sistematico di non cedere mai al punto di vista più ovvio è un filo importante della trama di questi dieci anni; un filo che parte dal primo numero sul carattere positivo del ‘conflitto’ e lega i tanti tentativi di decostruzione di termini utilizzati nel dibattito pubblico come slogan più che come concetti: democrazia, liberalismo, destra, sinistra, valutazione, merito, welfare, solo per evocare alcuni dei fascicoli più dibattuti.
Il secondo tratto di consonanza tra questo specifico tema monografico e la rivista in genere è ancora più intrinseco e consiste nel fatto che, a conti fatti, «Paradoxa» non è altro che il tentativo, di volta in volta più o meno riuscito, e senza dubbio del tutto sui generis, di fare lobbying. Soltanto chi pensa che la cultura sia l’occupazione disinteressata del tempo dell’otium può scandalizzarsi di un simile accostamento. Per parte nostra, convinti che pensare significhi anche scontrarsi con la quotidianità del vivere nella polis, senza però cedere ai diktat dell’urgenza, siamo convinti anche del fatto che l’elaborazione di informazioni e paradigmi interpretativi si accompagni in modo naturale e inevitabile al tentativo di coagulare gruppi di interesse attorno ai contenuti trattati: un interesse che non è certo quello di un ritorno in termini economici, ma che tuttavia implica un prendere parte e un essere di parte, un attivarsi, a tutti i livelli in cui questo sia possibile, perché prevalga una certa idea, e certe conseguenze pratiche della medesima, piuttosto che un’altra. Che si tratti di pensare, misurare e promuovere il valore immateriale della cultura, o di saggiare il tasso effettivo di liberalismo nelle istituzioni del nostro paese, o di ridisegnare i confini dell’immigrazione in Italia in una logica deliberatamente anti-emergenziale, è chiaro che si sta lavorando con idee non neutrali né innocue e che richiedono, come si dice, di essere implementate. Questo richiede la costruzione di legami e alleanze: l’ampliarsi progressivo del circuito di autori e curatori (sull’autorevolezza dei quali, di nuovo, è il lettore a doversi pronunciare) è un indizio del lavoro svolto in questi anni in questo senso. E nella stessa direzione si muove la recente attivazione di uno strumento online – il forum di «Paradoxa» (www.paradoxaforum.com) – , che intende favorire l’interazione e lo scambio nei tempi più rapidi della rete e sollecitare dibattiti che possono prendere spunto dal cartaceo o, viceversa, stimolare nuovi fascicoli.
Naturalmente la pretesa di esser lobbisti, ma a modo nostro, di creare piccole lobby a geometrie variabili, secondo i temi e i contenuti piuttosto che a partire da vincoli estrinseci di appartenenza, non è indolore: non esser funzionali a nessun interesse o lobby in senso stretto significa condividere il destino complicato di chiunque continui a pensare che fare cultura, coltivare idee e terreni di confronto, rappresenti un valore, immateriale, appunto, ma non per questo meno prezioso, e un modo di costruire futuro. Significa confrontarsi con risorse sempre più esigue e difficili da intercettare, accettare il fatto che troppo spesso i fondi pubblici, o quel che ne resta, sono destinati alla conservazione più che all’innovazione: è più facile trovare residui di sostegno pubblico in un film di Natale piuttosto che destinati ad una rivista come questa. E questo porta a porsi domande non semplici, come quella se continuare ad esistere nella tradizionale (e onerosa) forma cartacea o decidere di traghettare «Paradoxa» in una versione esclusivamente digitale. Domande che affrontiamo, anche queste, a modo nostro, e cioè facendo del vissuto quotidiano un’occasione di elaborazione teorica: il primo numero del 2017, che sarà realizzato in collaborazione con il CNR, sarà dedicato ad una riflessione sull’open science e sull’open access quali esiti (inevitabili?, auspicabili?) verso cui preme la pratica culturale della nostra epoca.
Tra gli obiettivi che ci ponemmo dieci anni fa, quando lanciammo «Paradoxa», vi era quello di dar vita ad una rivista tale per cui, dato un tema, il lettore non avrebbe potuto indovinare in anticipo come sarebbe stato trattato, semplicemente basandosi sulla ‘linea’ della rivista. Forse, almeno questo obiettivo, lobbisti a modo nostro, l’abbiamo raggiunto.