Laura Paoletti – LA SCIENZA DEL FUTURO

(Editoriale di Paradoxa 2/2021)

Questa riflessione sul ‘dopo’ conclude idealmente il percorso – dettato dalle cose stesse più che pianificato ex ante – avviato con la denuncia della tendenza contemporanea alla rimozione del passato («Paradoxa» 4, 2020) e proseguito con l’analisi del presente come transizione verso un’epoca nuova («Paradoxa» 1, 2021).

Lo spartiacque rispetto al quale gli autori provano a disegnare un futuro è il fatto della pandemia. Come accade di fronte ad ogni fatto storico al quale si intenda riconoscere il carattere di ‘evento’, cioè di marcatore di una discontinuità significativa, c’è da chiedersi se la pandemia si limiti ad acuire processi già in atto o se introduca elementi non preventivabili rispetto al pregresso, che configurano un paradigma effettivamente nuovo. Non che le due possibilità necessariamente si escludano; e quel che si ricava dal complesso dei contributi qui raccolti è che forse è troppo presto per affacciarsi sulla seconda ipotesi, mentre è sicuramente possibile rintracciare robuste e interessanti evidenze a conforto della prima. In ciascuno dei versanti esplorati, infatti, la pandemia emerge come cartina di tornasole che rimarca differenze (per esempio tra sistemi politici) e diseguaglianze (per esempio di reddito); che ribadisce carenze strutturali (per esempio del sistema sanitario o scolastico); che conferma tendenze (per esempio alla finanziarizzazione dell’economia) e accelera, talora vertiginosamente, processi (per esempio quello della digitalizzazione). D’altra parte, in più di un caso l’analisi smentisce innovazioni precedentemente date per sicure: la pandemia non ha innescato (anzi) alcuna crisi irreversibile della democrazia e ha prodotto trasformazioni nel mondo del lavoro assai diverse da quelle che si prefiguravano (non c’è stato, per esempio, alcun rimpiazzo dell’umano da parte dell’automazione digitale).

Fin qui lo stato dell’arte: ma come tracciare traiettorie plausibili di quel che accadrà dopo? Qui emerge la specificità metodologica di questo fascicolo rispetto ai due precedenti; e proprio nella pluralità di modi (ciascun autore ha il suo) di gestire la difficoltà risiede una delle sue sollecitazioni teoriche più interessanti. Il Curatore pone il problema con forza, sin dalle primissime battute, opponendo in modo molto deciso i «pii desideri» a «ricerche con il crisma di una qualche scientificità» (p. 11). E, pur rilevando la (momentanea) insufficienza qualitativa e quantitativa dei dati a disposizione per produrre «previsioni la cui validità sia accertata e verificabile», assume, e propone agli autori, proprio quel «crisma» come il faro dal quale farsi orientare: non per caso subito dopo richiama il criterio di falsificabilità di Popper che, come è noto (e semplificando un po’), permette di distinguere la conoscenza scientifica da tutto ciò che scienza non è. Ferma restando la (sacrosanta) esigenza di evitare un modo di pensare illusorio che non ha presa sulla realtà e non dà informazioni se non sulla soggettività privata di chi lo formula, non è però affatto scontato, in questione essendo il futuro, che l’alternativa ad opinioni peregrine sia una scienza popperianamente intesa.

Problema evidentemente smisurato, che scaturisce direttamente dalla refrattarietà del futuro ad essere annoverato tra quei ‘fatti’ (participio passato) di cui la scienza è tenuta ad alimentarsi: certo, «nessun ‘dopo’ può prescindere dal suo ‘prima’» (p. 13) e considerare il futuro come conseguenza del passato è una buona strategia per addomesticare l’imprevedibile. L’operazione non è priva di rischi, però. Come rileva uno degli autori che con più attenzione tematizzano l’aspetto metodologico, stringere troppo il nesso tra passato e futuro significa piegarsi al dogma thatcheriano del «there is no alternative»: «una volta che si consideri il futuro come un dato di fatto […] della politica resta solo la dimensione competizione», mentre essa è «spola tra presente e futuro, anche confrontandosi nel presente sulle diverse prospettive di futuro» (Parsi, p. 188). Se questo è vero, se il futuro ha una dimensione intrinsecamente progettuale, cioè politica più che scientifica, tra politica e scienza (anche scienza politica) resterà sempre uno scarto: uno scarto che va salvaguardato piuttosto che colmato.

La presa in carico del futuro sembra esigere una razionalità più ampia di quella soggetta al controllo della falsificabilità: una razionalità per cui il conflitto di posizioni non è semplicemente imputabile a carenze conoscitive e soprattutto non è qualcosa che sarebbe auspicabile eliminare ‘scientificamente’. Quel che sarebbe invece davvero auspicabile – un pio desiderio? – è che dopo, dopo la pandemia, dopo aver visto ‘scienziati’ offrire soluzioni certe, scientificamente provate e sistematicamente contrapposte, alla politica, si ponesse finalmente in modo serio il problema dei limiti della scienza, quei limiti entro i quali soltanto la scienza è davvero scienza (e la politica davvero politica). Ma il fatto è che, il Curatore ce lo ricorda, quanto a questo siamo ancora in mezzo al guado e «i barcaioli litigano fra loro» (p. 24).

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