(editoriale di Paradoxa 1/2020)
Il caso vuole che questo fascicolo vada in stampa in una circostanza che si presenta sotto molti aspetti come uno «stato d’eccezione» e che sembra rilanciare, quasi in extremis, ambizioni e spazi di manovra di una politica che – volente o nolente, potente o impotente – è comunque chiamata a governarlo. Ci siamo ancora troppo dentro per azzardare ipotesi su come andrà a finire e pronosticare se tutto ciò porterà qualche cambiamento di lunga durata; certo è che, al momento, il Covid-19 ha tutta l’aria di riuscire a ripristinare condizioni precedenti alla cosiddetta ‘post-politica’: la globalizzazione frena, la sovranità si ri-territorializza, le esigenze delle multinazionali si piegano (incredibile dictu) alle decisioni degli stati nazionali, il popolo tutto, anche quello dell’antipolitica, si aspetta dalle autorità politiche indicazioni vincolanti ed efficaci sulla gestione dell’emergenza. In generale, come è stato già da più parti osservato, è come se l’epidemia avesse innescato un contromovimento rispetto a quello tipicamente postmoderno che trasporta il reale nel virtuale e sostituisce il senso letterale con quello metaforico: e così come ‘virus’, ‘antivirus’ e contenuti ‘virali’ ritornano dal dominio etereo della rete a quello di carne e sangue dei corpi umani, allo stesso modo la nozione astratta, leggera e multifunzionale di ‘confine’ viene assumendo l’aspetto quanto mai hard e ipersemplificato delle mura di casa propria, con tanto di forze dell’ordine a rafforzarne l’efficacia contenitiva.
Questa consistente (almeno all’apparenza, almeno per ora) obiezione di fatto alla sensazione diffusa di un declino della politica è in sintonia con una tendenza di fondo di questo fascicolo, che non per caso correda l’idea di ‘crepuscolo’ con quella di ‘eternità’, a suggerire che quel che appare una novità tipica della nostra epoca di decadenza accompagna, in realtà da sempre e da subito, la politica come altra faccia della stessa medaglia, come la possibilità, iscritta nella sua stessa essenza, di rovesciarsi nel suo contrario. Pur nell’analisi lucida e impietosa delle ragioni diversificate di crisi, e dei motivi per cui quest’ultima assume tratti del tutto peculiari, il Curatore conclude sull’idea che «la politica può conoscere momenti di crisi più o meno acuta, ma non scompare mai dall’orizzonte degli uomini» (p. 32). Robuste argomentazioni a sostegno di questa tesi si trovano in tutti i contributi qui raccolti, che aiutano il lettore a sbrogliare matasse di piani e concetti eterogenei, e a non confondere, per esempio, la crisi di una certa forma di governo (la democrazia) con la crisi della politica tout court (Fisichella).
Proprio le sollecitazioni emergenziali e ineludibili con cui il quotidiano rivendica i suoi diritti, cogliendo alla sprovvista ogni assunto più o meno teoricamente fondato, incoraggiano il lettore non specialista a interrogare queste pagine con qualche domanda consapevolmente ingenua. Ci si può chiedere, per esempio, se le numerose concezioni e definizioni di politica che emergono dalle prospettive dei vari autori (non sempre agevolmente componibili) non possano o non debbano esser fatte reagire con un’idea senz’altro meno tecnica e tuttavia imprescindibile per orientarsi nella gestione del quotidiano: quella della politica come campo d’azione di un agente (individuale e/o collettivo) orientato al perseguimento di determinati scopi. Certo, dalla modernità in avanti l’idea di telos, o di causa finale, è stata per lo più snobbata dalla teoria, che ha privilegiato in modo esclusivo la causa efficiente come criterio esplicativo valido sotto il profilo scientifico; ma, per l’appunto, qui non è in gioco il punto di vista teorico o della scienza, ma del cosiddetto ‘mondo della vita’, che definisce l’ambito del pre-politico, della società civile, di tutti coloro che, al di qua di ogni specialismo e di ogni codificazione e settorializzazione dell’esperienza, sono portatori di istanze ed interessi che la politica è poi chiamata ad interpretare. Da questo punto di vista la crisi della politica appare come impossibilità di azione, ossia come la difficoltà nello stabilire nessi coerenti tra l’agire e il fine che con esso si persegue: vuoi perché sbiadisce l’agente, frantumato in una serie di centri decisionali nessuno direttamente responsabile, vuoi perché risulta difficile ricondurre gli eventi a realizzazioni di scopi razionalmente posti, vuoi perché quel che era stato progettato come azione si disperde in una quantità di effetti collaterali nei quali non vi è più traccia dello scopo originariamente perseguito. Se questo è vero, molti dei fenomeni esaminati in queste pagine appaiono come conseguenze inevitabili e perfettamente prevedibili: la scomparsa del conflitto (primo fra tutti quello tra destra e sinistra), posto che esso ha senso esclusivamente come lotta tra scopi contrapposti, in mancanza dei quali si hanno urti e non conflitti; la moralizzazione della politica, che sostituisce al crollo delle ideologie il telos eterno e riconoscibile del bene di contro al male; persino l’antipolitica, che appare come il tentativo quasi disperato non già di eliminare la politica, ma di tornare ad essa, saltando le intermediazioni e tornando (ingenuamente e illusoriamente) al mettere al centro della scena un agente chiaramente identificabile con interessi e scopi comprensibili a chiunque.
È nel mondo della vita che la politica produce i suoi effetti ed è al mondo della vita che essa è innanzitutto chiamata a dare risposte. Ma, se questo è vero, è anche, se non soprattutto, nel mondo della vita – di cui la politica è espressione e riflesso – che il crepuscolo eterno di quest’ultima, il suo vulnus o virus originario, deve essere cercato.