(editoriale di Paradoxa 4/2018)
Tra l’immagine utilizzata qualche anno fa dal non più giovanissimo Michele Serra per riferirsi ai ‘giovani’ – Gli sdraiati (Feltrinelli, 2013) – e l’autodescrizione di un giovane doc come lo scrittore Giacomo Mazzariol – Gli squali (Einaudi, 2018) – c’è un punto di contatto, che fa premio sul conflitto (forse intergenerazionale) tra la staticità della prima e la fluidità della seconda: la dimensione dell’orizzontalità. Sdraiati o squali, stesi sul divano o impegnati a scivolare nel gran mare di possibilità più o meno virtuali del contemporaneo, i giovani sembrano colpire l’immaginario collettivo per la loro monodimensionalità, per l’assenza di una proiezione verticale che renda loro possibile sollevare la testa, mettersi a distanza dal qui ed ora e guardarlo da una prospettiva diversa da quella di chi vi è semplicemente immerso. Se questo fosse vero, il problema del loro rapporto con la politica non potrebbe più esser contenuto nel luogo comune, e asfittico, di un generico disinteresse, ma dovrebbe esser posto in termini più profondi (appunto), chiamando in causa proprio la dimensione assente, provando per lo meno a darle un nome. Questo è esattamente quel che accade nelle pagine che seguono, che sollecitano il lettore a una duplice operazione.
La prima è appunto quella di ripensare (se non correggere) l’opinione comune del disimpegno delle giovani generazioni nei confronti del bene comune: intanto perché, dati alla mano, non sembra esserci un significativo scarto tra la disaffezione nei confronti della politica da parte dei giovani e quella che manifestano gli adulti in genere; poi perché persiste la disponibilità dei giovani ad attivarsi in forme di partecipazione ‘politica’ in senso ampio («in altri ambienti e con altri repertori di azione», come scrive Tuorto, rispetto a quelli dei partiti tradizionali); ancora, perché sembra che in certe circostanze – vedi il caso del Movimento 5 Stelle, che ha saputo intercettare proprio la fascia cosiddetta ‘indifferente’ – siano stati proprio i giovani a convincere le generazioni più anziane a tentare il nuovo, invertendo la più tradizionale logica di influenza up-bottom (Valbruzzi); e infine perché magari quel che interpretiamo in termini di apatia è forse il segnale dell’avvento di una nuova fase politica in cui le giovani generazioni, come hanno sempre fatto, cercheranno di sottrarre il potere alle precedenti (Campi).
Tutto questo non significa certo che una crisi nel rapporto tra giovani e politica non vi sia: i contributi speculari di Cuperlo e Tarchi convergono nel restituire efficacemente il tono e quasi il sapore di cosa significasse per un giovane appassionarsi alla politica in un passato che sembra (ma in realtà non è) remotissimo. Significa piuttosto che l’origine di tale crisi – e qui interviene la seconda sollecitazione – va cercata altrove rispetto ad una non meglio precisata indolenza.
La proposta che viene qui avanzata, e che viene suggerita nel contributo di apertura del Curatore nella forma di un dialogo, è di provare a rintracciarla nella mancanza di ‘formazione’, più precisamente nell’incapacità dei luoghi tradizionalmente deputati ad offrirla – famiglia, scuola, partiti – a dar forma al bisogno, nonostante tutto forte e chiaro nei giovani, di politica. Ma qui il problema assume confini ben più ampi e diventa, in un senso preciso, epocale. Non solo perché, come opportunamente rileva Sofia Ventura, è necessario chiedersi di nuovo «a cosa» si debba formare e gestire i conflitti strutturali che questa domanda porta con sé (in primis quello weberiano classico tra convinzione e responsabilità); ma anche perché è tutt’altro che ovvio che siano date in questa epoca le condizioni stesse perché la formazione abbia luogo. Nel Bildungsroman classico, generalmente piuttosto ponderoso, la ‘formazione’ accadeva come faticosa conquista di sé attraverso una serie di peripezie tenute insieme da un filo narrativo che nel dipanarsi modellava il protagonista. Oggi, nell’epoca del tramonto dei grand récits (Lyotard), sarebbe impensabile farla tanto lunga, e si preferisce un meno ambizioso, ma più rapido, storytelling, dove quel che conta è che la storia tenga, almeno per un po’, e che sappia catturare, almeno per un po’, l’attenzione di chi l’ascolta. Ma questa episodica presa di contatto con un senso, che è tipica dell’ambiente reticolare nel quale tutti (non solo i giovani) siamo immersi, non è sufficiente a quell’appropriazione di sé nel tempo, a quel rendersi figli di una storia, propria e non solo propria, che è indispensabile alla formazione. La dimensione assente, che ci rende tutti (non solo i giovani) tendenzialmente privi di verticalità, è quella del tempo: per questo è urgente ricominciare a porre con forza, come il titolo di questo fascicolo esorta a fare, la questione della politica in termini di futuro. Si dice che i giovani sono il futuro: il problema è che emergere dal presente non è affatto scontato, e bisogna dar loro il tempo – ossia formarli – perché lo diventino davvero.