(editoriale di Paradoxa 4/2010)
Qualche numero fa, nell’introdurre la riflessione sul rapporto tra capitale e cultura (Paradoxa 1/2009), ci chiedevamo se trattare di argomenti simili in tempi di crisi economica non avrebbe fatto lo stesso effetto dell’infelice battuta attribuita a Maria Antonietta: il popolo ha fame e, invece che al pane, si pensa alle brioches. Scegliemmo di correre il rischio. Non potevamo immaginare, allora, che la questione della commestibilità e dello scarso valore nutritivo della cultura sarebbe divenuta il Leitmotiv dell’acceso dibattito in corso sulla legittimità dei drastici tagli al comparto culturale: dibattito non propriamente esaltante, per la verità, che in certe sue approssimazioni (e talvolta cecità) nei confronti di quale sia davvero l’oggetto in discussione conferma l’opportunità della scelta di allora.
L’intuizione che fosse produttivo lavorare su una definizione teorica più precisa di ciò che provvisoriamente chiamavamo “il capitale cultura” si è venuta nel frattempo irrobustendo in un progetto strutturato, del quale i contributi e gli studi presentati in questo numero rappresentano una prima tappa. Non presentiamo risultati definitivi, ma una direzione di ricerca e alcune ipotesi di lavoro che richiedono ora un confronto più ampio, non soltanto nel senso dell’allargamento delle competenze disciplinari (che pure è indispensabile), ma anche e soprattutto nel senso del coinvolgimento di interlocutori altri, provenienti dalla società civile e politica.
Una delle tesi guida è quella che si trova ampiamente argomentata nel contributo di Stefano Zamagni, che ricapitola i risultati acquisiti negli altri contributi in una proposta unitaria e innovativa: il termine “cultura”, sul quale si concentrano dibattiti e polemiche, veicola molti significati disparati, ma troppo spesso non quello fondamentale. Siamo infatti ancora molto lontani dal prendere atto fino in fondo del fatto che la “cultura” è un’attività e non un prodotto; che è un generatore di utilità sociale e non un bene di consumo. In tempi di crisi, ad un bene di consumo, per altro non essenziale alla sopravvivenza, si può rinunciare. Ad un fattore di sviluppo, no. Ed è per questo che Zamagni propone di introdurre una nozione nuova, che faccia chiarezza una volta per tutte su questo equivoco: quella di “capitale culturale”. Nozione spesso diluita in altre più frequentate (capitale umano, sociale, etc.), e che però individua una forma di capitale (e dunque di risorsa) di tipo del tutto specifico, come si vede non appena se ne individui in modo corretto la relazione al più ampio “capitale civile”. Il valore della sistematizzazione concettuale proposta da Zamagni, può essere pienamente apprezzato se si tiene presente l’ampia disamina bibliografica effettuata da Pedrini, che disegna i contorni di uno spazio teorico che però il dibattito specialistico lascia vuoto o riempie in modo confuso.
A questa prima tesi se ne lega una seconda, all’apparenza forse sorprendente. L’incapacità di riconoscere (e quindi di far fruttare) l’elemento specifico del capitale culturale dipende, secondo Zamagni, dalla «difficoltà, tuttora irrisolta, di sottoporre a valutazione l’attività culturale svolta», cioè di «giungere a misurare la qualità – e non tanto la quantità […] – del lavoro “immateriale” realizzato»(p. 15). Si potrà essere d’accordo o meno, e la discussione è aperta: ma quel che è certo è che una tesi simile presuppone una riflessione sulla natura profonda della valutazione, che è piuttosto distante dagli usuali proclami con cui generalmente si brandisce il termine. Più scarseggiano le risorse disponibili, più la valutazione guadagna il centro della scena: che si parli di università (e di Anvur), dei nuovi criteri in discussione per l’istituzione della tabella triennale dei Beni culturali, della riorganizzazione della cosiddetta “seconda rete di ricerca”, si ha spesso l’impressione che la valutazione sia una soluzione in sé, piuttosto che uno strumento.
La tesi di Zamagni mette impietosamente l’accento sul punto davvero debole di questa convinzione: è ingenuo pensare che valutare consista semplicemente nel contare quante volte una certa grandezza (unità di misura) è contenuta in un oggetto, univocamente definito (in modo del tutto indipendente da quella grandezza) e chiaramente circoscritto nei suoi contorni. Valutare (qualitativamente) non è misurare (quantitativamente). Una valutazione non è mai innocua, né neutrale rispetto alla definizione dell’oggetto valutato: istituisce una certa partizione della realtà, piuttosto che un’altra, la quale disegna certi oggetti, piuttosto che altri e risponde a certi valori, piuttosto che ad altri. Riconoscere i limiti dell’oggettività della valutazione non significa affatto consegnare quest’ultima all’arbitrio: significa piuttosto provare ad introdurre strumenti di indagine più raffinati (come quello, per esempio, di “oggettività posizionale”); ma significa prima ancora – e soprattutto – riconoscere che la correlazione tra la procedura valutativa e l’oggetto da valutare è talmente stretta e crea un’interdipendenza tale che in assenza di criteri ad hoc, consoni all’oggetto in questione, quest’ultimo semplicemente si dissolve. Come accade appunto alla “cultura”, che continua ad essere misurata in funzione di criteri adeguati alla sola dimensione materiale: quanti studenti laureati? quante pubblicazioni? quanti volumi posseduti? quante mostre realizzate e quanti visitatori? In questo modo, il prodotto accampa l’intero spazio della dimensione “cultura”, così che il versante dinamico e attivo della produzione, i momenti e livelli intrinsecamente connessi a quest’ultima spariscono dalla vista. Spariscono i fruitori, che vengono confinati nel ruolo fondamentalmente passivo di consumatori. E spariscono intere categorie di “produttori”, che vengono ridotti a semplici gestori, custodi o ripetitori di una cultura prodotta prima o altrove: per quanto povera, è esattamente questa l’immagine degli istituti culturali che emerge dalle griglie e dai criteri che vengono per lo più utilizzati nell’erogazione dei finanziamenti (si veda la ricerca di Bucciaglia).
La proposta che presentiamo muove dalla convinzione che una strada diversa sia percorribile; che sia cioè possibile afferrare – in qualche modo, certo, ed entro determinati limiti – il “capitale culturale” proprio nel suo carattere più specifico e insieme più sfuggente: nel suo carattere, cioè, immateriale, propulsivo, dinamico, generativo. È in vista di questo che proponiamo di introdurre una grandezza nuova: il valore aggiunto culturale. Stante quanto detto è chiaro che non è certo una definizione rigida che potrà consentire di metterlo a fuoco, ma un gioco incrociato di parametri scelti ad hoc, con l’intento esplicito, del tutto consapevole della propria parzialità, di far emergere questo “valore” piuttosto che altri: di mostrare lo scarto (l’elemento, per l’appunto, “aggiunto”) che passa tra un archivio e un laboratorio di cultura, tra la pubblicazione di un libro e la messa in circolazione di un’idea, tra l’organizzazione di un convegno e la creazione di una rete di ricerca. Non si sta dicendo che nei fatti i due lati non possano coincidere, ma, appunto, un conto è rilevare il fatto, un conto il suo valore aggiunto.
Non è questa la sede per entrare nel numero e nel merito dei cinque parametri presentati nel contributo di Zamagni: l’obiettivo non è tanto quello di proporre una lista definitiva, quanto piuttosto quello di indicare una direzione e di sollecitare un contributo da chi saprà e vorrà aggiungerne di nuovi o proporne di migliori. Quel che è importante ribadire qui, invece, è che questa ricerca, che prevede nella sua seconda fase la realizzazione di una griglia di valutazione (con relativo scoring attribuito a ciascuno dei parametri), non intende semplicemente proporre uno strumento più efficace a chi si trovi nella posizione di stabilire in quale direzione orientare risorse; ma vorrebbe sollecitare un vero e proprio cambio di paradigma, innanzitutto attivando un confronto diretto e una collaborazione tra sostenitori e beneficiari, che è sin qui del tutto inedito. È un percorso difficile, inutile nasconderselo. Promuovere l’accumulazione di capitale culturale, riconoscendone la funzione di generatore di utilità sociale, assumere come criterio il valore aggiunto culturale, richiede da parte dei soggetti erogatori una buona dose di coraggio: innanzitutto perché ci si muove in un territorio nuovo e tra categorie interpretative ancora lontane dall’essersi consolidate in un gergo condiviso; in secondo luogo, perché accettare questo tipo di logica impone di assumersi l’onere di quell’inevitabile quota di rischio e di “spreco”, che è lucidamente tratteggiata nel contributo di Semplici: non tutto quel che si elabora può e deve esser reso immediatamente fruibile; talvolta è necessario pazientare, e consentire ad un laboratorio di far maturare un’idea innovativa a porte chiuse.
Ci sono motivi fin troppo evidenti per cui, soprattutto in questo momento, non è certo al settore pubblico che si può chiedere il coraggio necessario per sopportare e supportare un cambio di paradigma di questo genere. La configurazione specifica del panorama italiano dei soggetti grant-making suggerisce semmai di cercare un interlocutore privilegiato in quelle realtà che di fatto sopperiscono all’assenza – tipica del nostro Paese – di un vero mecenatismo culturale, fiorente in altri contesti: le fondazioni bancarie. Non che non vi siano, anche su questo versante, difficoltà notevoli. Il contributo di Blasi rappresenta in questo senso un documento importante di quali siano i vincoli, strutturali e contingenti, che restringono il campo d’azione di chi si trovi impegnato nella gestione concreta delle risorse di una fondazione bancaria: ma proprio per questo è tanto più prezioso il fatto che dall’analisi di questi vincoli Blasi non concluda semplicemente alla necessità della rassegnazione, ma colga anzi l’occasione per un chiaro invito ad esplorare percorsi innovativi.
In effetti, della possibilità che proprio su questo fronte qualcosa possa muoversi e di fatto si muova, abbiamo il privilegio di essere testimoni diretti. Non soltanto perché Paradoxa ha goduto sin dalla nascita di un’attenzione costante da parte di chi – e non è un caso – ha ereditato la nobile tradizione del mecenatismo fiorentino, ma anche perché proprio questa ricerca è stata – coraggiosamente – voluta e sostenuta dalla Fondazione del Monte di Bologna e di Ravenna, cui va la nostra riconoscenza.
Ci vuole coraggio, è vero. Ma è altrettanto vero che è venuto il momento di osare.