(Editoriale di Paradoxa 3/2024)
Dall’insieme di queste incursioni sui diversi aspetti del ‘pluralismo’, quest’ultimo emerge come un concetto in senso tecnico ‘instabile’, che tende cioè, come gli isotopi radioattivi, a trasformarsi in elementi diversi da quello di partenza, innescando tensioni talvolta feconde talaltra pericolose con i concetti con cui entra in contatto: è in rapporto strettissimo con il liberalismo o la democrazia, ma non coincide né con l’uno né con l’altra; somiglia moltissimo al multiculturalismo, al relativismo, allo scetticismo, ma non può esser confuso con quelle che, a ben guardare, non sono altro che sue semplificazioni o degenerazioni.
È così che, pagina dopo pagina, questa variegata fenomenologia dei campi d’applicazione e dei risvolti pratici (e talora drammatici) del pluralismo – dalla teoria politica a quella sociale, dalla bioetica alla storia – rende via via più acuta la domanda sulla curiosa struttura interna di un’idea che sembra tanto irrinunciabile, quanto votata al cortocircuito.
Si consideri, per esempio, quello che è senz’altro un presupposto condiviso (e inevitabilmente condivisibile) delle diverse analisi: il pluralismo – nel senso della pluralità dei valori, delle visioni del mondo e delle relative etiche – è un fatto. Basta però guardare appena sotto la superficie dell’ovvietà, per rendersi conto dell’insidia che si nasconde in un’affermazione apparentemente tanto lineare: si può davvero constatare come un fatto la presenza o assenza di un valore? Oppure la constatazione viene immediatamente risucchiata dall’oggetto su cui vorrebbe esercitarsi, così che quest’ultimo, il valore, la trasforma in ciò che non era, e che non avrebbe voluto essere, e cioè in una valutazione? In effetti è impossibile limitarsi a prendere atto della presenza del ‘bello’ in qualcosa senza prendere anche posizione, senza cioè affermare (valutativamente) che questo qualcosa è bello. Allo stesso modo non si può davvero constatare la presenza di una pluralità di valori, senza attribuire un valore positivo a ciascuno di tali valori e a tutti nel loro insieme, trasformando il fatto della pluralità nel valore del pluralismo. Con tutto ciò che ne consegue: accanto a Isaiah Berlin, che è il nume tutelare indiscusso di questo fascicolo, vale la pena richiamare anche Weber, che non per caso si esprimeva in termini di «politeismo», piuttosto che di pluralismo, a sottolineare la dimensione tragica di quella che non coglieva affatto come una pacifica convivenza, ma come una vera e propria «lotta tra gli dei»; lotta che imponeva allo scienziato una (difficilissima) «avalutatività» (La scienza come professione, 1919). Può darsi che tale avalutatività sia un ideale irraggiungibile; per lo meno essa ha il merito di tener sempre desta l’attenzione contro il rischio di spacciare un valore per un fatto, piegandolo alle proprie esigenze, come proprio il pluralismo dimostra nel modo più evidente: invocato o temperato secondo convenienze e punti di vista, secondo che ci si senta esclusi o inclusi in un certo consesso di riferimento.
Ma i cortocircuiti non finiscono qui: se davvero il pluralismo non è un fatto, ma un valore, riconoscere fino in fondo tale valore implica rinunciare in modo definitivo alla concezione di un pluralismo provvisorio e faute de mieux, all’idea cioè, più o meno apertamente confessata, per cui prima o poi, in un tempo magari infinitamente lontano, la differenza tra i valori e i conflitti che ne conseguono, sarà finalmente riassorbita in una concordia pacificante che funge da ideale regolativo. Il prezzo è alto e non è affatto detto che si sia davvero disposti a pagarlo. Uno degli autori lo afferma in tutta chiarezza: «Qual è però la conditio sine qua non affinché il pluralismo sia possibile? Molto probabilmente la convinzione che una verità, sia pure a distanza siderale, umanamente irraggiungibile nella sua interezza, esista» (Breschi, p. 60). Ma, con ciò, il pluralismo è superato, nel senso hegeliano del termine.
È possibile che le tensioni interne alla nozione di ‘pluralismo’ siano in realtà il segno della necessità di un cambio di paradigma, che sembra affiorare qua e là dalle riflessioni che seguono, e che scaturisce dal radicamento del valore nella valutazione, dall’assumere, cioè, senza riserve l’idea che la molteplicità di valori, concezioni, etiche, culture deriva da una molteplicità, questa sì irriducibile, di punti di vista ossia di persone. In fondo non è questo il senso originario, e originariamente kantiano, del termine per cui il «pluralismo» non è altro che il contrario dell’«egoismo», quel «modo di pensare che include nel proprio sé il mondo intero» (Antropologia dal punto di vista pragmatico)?