Poiché ora vediamo come in uno specchio
[…] ma allora vedremo faccia a faccia
(1 Cor 13, 12)
(Editoriale di Paradoxa 3/2022)
Potrebbe sembrare una battaglia di retroguardia: strappare un fazzoletto di spazio al paradigma epistemologico dominante, in modo che questo, per gentile concessione, consenta alla riserva indiana delle humanities o scienze umane (lingua e lessico, si sa, sono imposti dai vincitori) di sopravvivere ancora per un po’; purché, certo, si conformino a criteri di valutazione e di ripartizione dei finanziamenti del tutto esogeni e funzionali a far risaltare la loro irrilevanza e inutilità.
In realtà, come il lettore potrà cogliere fin dalle prime pagine, la domanda guida di questo fascicolo rivela un tratto decisamente ironico, perché l’ambizione di fondo non è certo quella (perdente in partenza) di dimostrare che forse, a ben guardare e con tutte le cautele del caso, un piccolo spazio per le discipline umanistiche ancora si può salvaguardare, ma quella di proporre riflessioni e argomenti che in definitiva puntano ad un ribaltamento dei presupposti stessi del paradigma tecnologico: i quali presupposti – questo il Leitmotiv dei contributi che seguono – tecnologici non sono.
La messa a punto di alcuni strumenti concettuali fondamentali – come la distinzione tra tecnica e tecnologia, la ricomprensione di quest’ultima in termini di ambiente, la differenziazione tra conoscenza e machine learning – consente di far emergere fino a che punto la riduzione dell’agire umano a procedura, che di fatto sancisce la morte delle humanities, sia un’operazione che muove, appunto, dall’umano e che umana resta da cima a fondo. Come sottolinea con decisione il curatore, non si tratta di un destino, ma di una scelta: ed è per questo che, per riprendere la tesi e il titolo di uno dei contributi, l’ipotesi apparentemente realistica (e affascinante o angosciante secondo i punti di vista) di una tecnologia etsi humanities non darentur è in realtà intrinsecamente contraddittoria. Sembrerebbe una tesi del tutto astratta, ma le pagine che seguono si incaricano di offrirne verifiche più che tangibili. L’umano rispunta là dove teoricamente la tecnologia dovrebbe averlo messo a tacere: nelle scelte valoriali embedded nei dispositivi tecnologici, nella «non neutralità» etica delle performances robotiche (Tomasi), nella «responsabilità ibrida» che continua a legare l’uomo alla macchina (Valera) e persino nell’«equivoco singolare», lucidamente segnalato da Morcellini, per cui si pretende dall’umanistica – dichiarata obsoleta, irrilevante e quindi sottofinanziata – che faccia da argine a povertà culturali di ogni sorta, dal populismo al negazionismo nei confronti della scienza (p. 18).
Ora, questa inespungibilità dell’umano dal tecnologico non ha niente di rassicurante, ma significa soltanto che il tradimento dell’umano e lo sconfinamento nel disumano sono possibilità riservate all’uomo. E significa quindi che è urgente scongiurarle offrendo alternative all’interpretazione tecnologica di quel che tecnologico non è e tentando, soprattutto, di andare alla radice di questa autocomprensione riduzionistica. A questo proposito, il suggerimento lanciato da Fabris merita di essere raccolto, meditato e rilanciato: nella tecnologia e nei suoi output ci guardiamo come in uno specchio, con tutte le ambivalenze che ciò comporta. Per un verso, l’essere umano ha bisogno di riconoscere nel dispositivo tecnologico una fisionomia familiare, qualcosa di simile ad una faccia, sia perché questa è una condizione minima per l’interazione sia perché il terreno comune della somiglianza massimizza l’efficacia delle prestazioni richieste al dispositivo stesso. Per altro verso, questa possibilità di riconoscimento è un’arma a doppio taglio, perché la relazione è biunivoca; e dunque, per contraccolpo, lo specchio del dispositivo rimbalza all’uomo l’immagine della sua inadeguatezza: inadeguato rispetto a prestazioni enormemente più efficaci, che inutilmente si sforza di eguagliare; inadeguato rispetto ad un’idea(le) di sé che si rivela una pia illusione, visto che la macchina gli rivela di non essere nient’altro che un sistema, e nemmeno troppo evoluto, di prestazioni che la tecnologia non ha alcuna difficoltà a riprodurre.
Si delinea allora una possibilità teorica tutta da esplorare: forse è la logica stessa dello specchio a dover essere superata. Se e come ciò possa aver luogo, se una logica altra sia possibile, è questione che richiede evidentemente un impegno teorico non comprimibile in qualche riga introduttiva. Può essere utile, però, almeno abbozzarne l’idea ricorrendo al recente e bellissimo romanzo di Ishiguro Klara e il sole.
Klara è un androide, in tutto e per tutto simile agli umani. La sua funzione è quella di essere un Amico Artificiale, un compagno di giochi, e come tale viene acquistata per una bambina di nome Josie. Il romanziere ha le mani più libere del filosofo e può permettersi di collocarsi d’emblée molto al di là della domanda sulla possibilità dell’intelligenza artificiale di eguagliare le capacità umane più complesse: Klara ragiona, prova emozioni, è capace di amare e persino di pregare. Il problema classico è superato, l’intelligenza artificiale ha vinto su tutta la linea, ma proprio questo consente di spostare la questione del rispecchiamento su un piano diverso, che è quello decisivo.
Stanti le precarie condizioni di salute della bambina, che è in serio pericolo di vita, la madre incarica un ingegnere, Capaldi, di costruire un androide in tutto e per tutto simile a Josie sul piano dell’aspetto, nel quale inserire la memoria di Klara, che nel tempo passato insieme ha imparato a conoscerla a fondo fino a rivelarsi in grado di imitarne alla perfezione gesti e comportamenti. In questo modo, nel caso che Josie fosse morta, la madre avrebbe avuto a disposizione una replica tanto precisa della figlia da risultare indistinguibile da lei: da risultare dunque non propriamente una sostituzione, ma una vera e propria «prosecuzione». La situazione evolve in modo tale che l’esperimento non si rende necessario, ma quel che conta è la riflessione conclusiva di Klara a questo proposito: «Mr. Capaldi pensava che dentro Josie non ci fosse niente di tanto speciale da non poter esser proseguito. Diceva alla Madre che aveva cercato dappertutto e non l’aveva mai trovato. Ma adesso credo che non cercasse nel posto giusto. C’era invece qualcosa di molto speciale, ma non era dentro Josie. Era dentro quelli che l’amavano. Ecco perché ora credo che Mr Capaldi si sbagliasse» (p. 253). Il suggerimento è prezioso: finché si continua a pensare l’identità dell’umano (e forse anche delle humanities) come un nucleo di resistenza irriducibile, inattaccabile e refrattario a qualsiasi tentativo di rispecchiamento esterno, non si sta davvero parlando dell’umano. L’identità dell’umano non è ‘dentro’ un sé, ma ‘fuori’ di esso, è in una consegna di sé ad altri, i quali non sono frammenti di specchio che restituiscono più o meno nitidamente l’immagine di un sé già dato, ma sono costitutivi del sé. L’umano non si vede come in uno specchio, ma semmai ha luogo in un faccia a faccia che si sottrae a qualsiasi riproducibilità tecnica.