(editoriale di Paradoxa 3/2018)
Una delle serie televisive più seguite dello scorso anno –Tredici (Thirteen Reasons Why), tratta da un romanzo di Jay Asher – mette in scena in modo molto efficace, talvolta crudo, il disorientamento profondo di un gruppo di adolescenti alle prese con un’ordinaria realtà fatta di scuola, sport, amicizia, amore e sesso, che viene squassata dal suicidio di una di loro, Hannah Baker. Ognuno dei tredici episodi della serie illustra una delle ragioni che hanno condotto la ragazza al gesto disperato: è lei stessa a spiegarle in una lunga testimonianza postuma affidata a delle audiocassette, che raccolgono il suo racconto testamentario attraversato da una violenza via via più esplicita. Ogni audiocassetta è rivolta ad un destinatario specifico, chiamato in causa per essere più o meno profondamente coinvolto nella responsabilità della tragedia. Il contrasto tra l’onnipresenza degli smartphone, che mediano praticamente ogni tipo di interazione tra i protagonisti (non ultimo il cyber-bullismo, che svolge un ruolo significativo nella catena degli eventi), e la scelta di questo medium così antiquato da sembrare ridicolo, così smaccatamente analogico e poco digitale, si carica di spessore metaforico: in fondo, sottrarsi all’iperconnessione, mettersi fuori dal circuito vorticoso di sms e post, significa già, simbolicamente, suicidarsi. E significa, come ogni suicidio, non soltanto il desiderio di una presa di distanza, ma anche una richiesta di aiuto, che non a caso viene indirizzata ogni volta ad un singolo, chiamato per nome e cognome, e non lanciata all’anonimato della rete.
Al fondo della questione ‘scuola e digitale’, sempre più urgente e dibattuta, c’è una richiesta in tutto e per tutto simile: lo specifico di questo fascicolo, rispetto ad altre riflessioni sugli stessi temi, consiste nell’opzione metodologica di prenderne atto, di considerarla prioritaria rispetto a ogni domanda teorica o controversia di principio. Non si tratta in primo luogo di chiedersi se il digitale a scuola sia o meno opportuno, se le nuove tecnologie siano utili o dannose per l’apprendimento, se sia o meno giusto schermare i cellulari in classe, ma di accogliere e decifrare la richiesta forte e chiara che, più o meno consapevolmente, la cosiddetta «generazione Z» sta rivolgendo al mondo degli adulti educatori: richiesta che non è certo quella di uscire dalla rivoluzione digitale, ma quella di imparare a starci nel modo giusto, ossia in prima persona. Il che implica un percorso molto faticoso, che è quello di rileggere la propria identità con la consapevolezza che i confini che la definiscono non sono affatto immutabili, ma vengono sollecitati, sfidati, messi in questione da quelle stesse tecnologie di cui crediamo semplicemente di servirci.
L’esortazione a portare in classe il proprio smartphone – Bring Your Own Device (BYOD) –, su cui convergono molti dei contributi qui raccolti, non è soltanto l’espressione dell’unico atteggiamento sensato nei confronti di tecnologie che sarebbe ridicolo pretendere di ‘neutralizzare’, come opportunamente osserva il Curatore: è anche la constatazione del fatto che forse quel che va ripensato è proprio il carattere di ‘device’, di dispositivo ‘esterno’ che potrebbe anche non essere portato con sé, di accessorio che può esser facilmente messo a distanza. Le profezie sempre più insistenti sulla prossima scomparsa degli smartphone potranno anche rivelarsi false, ma costringono comunque a prendere in considerazione scenari in cui la realtà virtuale sarà accessibile in forme via via più invasive e aderenti al corpo. In ogni caso, l’‘aderenza’ della tecnologia all’identità è qualcosa di assai più profondo, che richiede la capacità nient’affatto ovvia di tracciare confini di tipo del tutto nuovo. Tra i molti casi interessanti che affiorano nelle pagine che seguono, tre in particolare sono all’origine di alcune delle emergenze educative più difficili e ricorrenti: a) lo spazio dei social network mette in questione la tradizionale dicotomia tra privato e pubblico, tra quel che è legittimo ‘postare’ e quel che non lo è, tra quel che mi appartiene e quel che, pur essendo sul mio smartphone, non è veramente mio, perché magari ho fotografato o filmano qualcosa che invade l’intimità di qualcun altro o un evento accaduto nello spazio, in nessun modo pubblico, dell’aula; b) l’accessibilità immediata dello sterminato deposito di informazioni rappresentato dalla rete, induce a ritenere che quel che è disponibile sia, per ciò stesso, anche parte della mia identità, così da far apparire superfluo il difficile processo di integrazione tra la memoria collettiva e quella personale: un processo che richiede invece un’incorporazione e un vaglio critico; c) immergendosi nelle cosiddette echo chambers, l’io trova in rete soltanto quel che conferma le proprie convinzioni e che gli torna amplificato dagli utenti selezionati in funzione dello stesso criterio: questo conduce ad una rappresentazione ipernarcisistica del reale, che non consente più di entrare in relazione con un punto di vista davvero altro.
Si tratta di fenomeni nuovi e non deve stupire che manchino protocolli che consentano di gestire i problemi educativi (e le sofferenze) che essi portano con sé: quel che è certo è che tener fuori il ‘digitale’ dalle aule non sembra una soluzione molto efficace.