(Editoriale di Paradoxa 3/2008)
Questo fascicolo di “Paradoxa” affronta un tema tanto attuale quanto, per certi versi, scontato. Tuttavia ci è parso opportuno dedicare a questa dicotomia storica – destra/sinistra – una riflessione non già nella presunzione di potere risolvere alcuno dei tanti problemi politici e filosofici che questo tema porta inevitabilmente con sé, quanto per fare il punto del tema, come si dice, alla luce di numerosi e significativi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. D’altra parte, non sarà un caso se proprio nel momento in cui gli italiani sono chiamati a scegliere il proprio governo dovendo optare tra una coalizione di centro destra e un’altra di centro sinistra, la riflessione sulle categorie di destra e sinistra ha prodotto numerosi contributi di notevole livello.
Il tema, non a caso, si è prestato a diversi livelli di lettura. La lettura, per intenderci, più “ideologica”, che è stata propria fino agli anni Settanta e che vede nella inconciliabilità dei due termini due opposte visioni del mondo; quella più “antropologica” che invece è stata affrontata negli anni successivi alla crisi delle ideologie, e che comunque teneva ben presenti gli schemi di riferimento tra i due termini: comportamenti diversi, magari non strettamente ideologici, ma comunque sempre derivanti da ben precise categorie valoriali. Infine, è stata anche proposta una lettura che prende atto delle presenti difficoltà di riempire di contenuti termini che spesso hanno perso molto del proprio significato, ma che persistono nel linguaggio della politica e tendono a presentarsi come modelli più nell’immaginario che nella cultura politica.
Questo contributo, si è detto, intende lumeggiare quanto di “immaginario” e di antropologico può ancora esserci nella distinzione fra destra e sinistra ma contemporaneamente tenta di cogliere, al di là delle questioni politiche attuali, quanto di riferimenti alle culture politiche i due termini conservano e soprattutto quanto di cultura politica abbia ancora bisogno (se ne ha) il nuovo scenario politico che si è aperto con le elezioni del 2008; infine, quanto le varie culture politiche possano coniugarsi con la realtà politica dell’oggi.
Il vero problema di tale tentativo consiste nella profonda evoluzione concettuale e, in qualche caso anche semantica, che i termini di destra e sinistra hanno subito nel Novecento. Una evoluzione che rischia di rendere difficoltosa una qualsiasi interpretazione.
Il caso italiano, in questo senso, è paradigmatico.
A partire dalla prima guerra mondiale, soprattutto in Italia, la Destra e la Sinistra hanno subito una profonda mutazione genetica, pari forse a quella che era già avvenuta in Francia, allorché la nazione e la socialità si erano incontrate sotto i buoni uffici di Sorel ed era nata quella che Sternhell ha definito la “destra rivoluzionaria”, una sorta di ossimoro del pensiero politico, essendo tradizionalmente controrivoluzionaria la destra e tradizionalmente rivoluzionaria la sinistra. Anche in Italia, la destra, che era stata sempre lontana da ipotesi di carattere eversivo (la “controrivoluzione”, raccomandava il savoiardo Giuseppe de Maistre, non è una rivoluzione di segno contrario, ma il contrario della rivoluzione), incontra nel fascismo quella mistura di elementi nazionalistici e socialisti che la portano all’accettazione del concetto di rivoluzione e che troverà espressione nella dialettica tra fascismo regime e fascismo movimento, per usare la nota distinzione di Renzo De Felice. La destra assorbe quindi il fascismo rimanendone condizionata a lungo.
Il problema, a ben vedere, è nell’accettazione della categoria rivoluzionaria: un categoria che accompagna il prima, il durante e il dopo della grande guerra: dall’interventismo rivoluzionario, alla evocazione della rivoluzione d’Ottobre, alla rivoluzione fascista degli anni Venti. La rivoluzione evoca cambiamenti radicali e insurrezioni di massa: fu il lascito di una guerra che spazzò via il liberalismo e il positivismo dalla carta politica d’Europa introducendo come soggetto centrale la massa, le sue aspirazioni, i suoi diritti, le sue violenze.
La sinistra, fino a quel momento, conteneva elementi di antagonismo bilanciati da altrettanti, e forse prevalenti (si pensi alla Cgdl), elementi riformistici: non a caso, proprio attraverso questi ultimi, Giolitti aveva costruito quella stagione di riforme che caratterizzò il primo decennio del secolo con la costituzionalizzazione del socialismo riformista e con il suffragio universale maschile. Allo stesso modo la destra storica, espunte definitivamente le pulsioni reazionarie e le nostalgie per gli Stati preunitari, si avviava a rappresentare, nel quadro politico, un importante elemento di equilibrio nella costruzione del nuovo Stato.
Con la guerra mondiale tutto cambiò. La sinistra divenne progressivamente succube del neonato Partito Comunista, secondo l’esempio che veniva dalla rivoluzione d’Ottobre, mentre il campo della destra veniva “invaso” di fatto dal fascismo: dal liberalismo conservatore si passò al fascismo il quale per altro, secondo la lezione di Giovanni Gentile, seppe inglobare e omogeneizzare le varie componenti fondendole in un progetto culturale che trasformava le caratteristiche della destra postunitaria.
In particolare, il primo elemento che emerse in questa trasformazione fu la reciproca condanna dei rispettivi riformismi. Sia per il comunismo (si pensi all’accusa di “socialfascismo” rivolta per anni ai socialisti da parte del partito di Togliatti), sia per il fascismo (si pensi al mito della rivoluzione fascista e alle polemiche contro la borghesia nei secondi anni Trenta), il riformismo costituiva uno degli aspetti più pericolosi contro il quale i rispettivi progetti totalitari andavano a scontrarsi.
Tale elemento, l’antiriformismo, ha costituito un serio problema politico per questo paese. Fino a Craxi, a sinistra, e fino alla fine del Msi, a destra, dirsi riformisti significava uscire dalle logiche della destra o della sinistra e avviarsi ad essere inseriti nel mare magnum del centro, controllato dalla Dc. Significava soprattutto venire meno ai principi ideologici di riferimento, essere dei traditori (si pensi alla scissione di Democrazia nazionale nel Msi del 1976), accettare un compromesso con la società borghese, per la sinistra comunista. Intendiamoci, in realtà ciò avveniva soltanto in termini di enunciazione ideale, perché in realtà, sia la destra missina, sia la sinistra comunista andavano cercando frequenti occasioni (ciascuna secondo le proprie forze e possibilità) di inserimento e di dialogo con il centro democristiano. Ma ciò avveniva sottobanco, a fronte di una vis polemica mai sopita nella quale la fedeltà ai principi doveva apparire inossidabile. E ciò, ai fini del nostro discorso, è quasi più importante di quanto avveniva realmente.
Il secondo elemento conseguenza di tale trasformazione fu la considerazione dell’altro come “nemico assoluto”. Tipico portato della grande guerra, il nemico non poteva essere l’avversario con il quale, conclusasi la tenzone, si tornava a discutere e a collaborare. Nella migliore tradizione ideologica, il nemico è il “male assoluto” e come tale va estirpato. Tra fascismo e comunismo, in Italia, al di là dei contatti che furono tanto importanti quanto sempre sottaciuti, la lunga striscia di sangue si sviluppò dagli anni Venti agli anni Ottanta.
La crisi delle ideologie, la caduta del muro di Berlino, la fine dei partiti di massa tradizionali in seguito a Tangentopoli ha modificato di molto la situazione e ha permesso che i rispettivi riformismi venissero alla luce in una ricerca del “possibile politico” in luogo del “necessario ideologico”.
La situazione, oggi, è ancora ulteriormente mutata. Una delle conseguenze principali dei sommovimenti culturali e politici degli anni Ottanta e Novanta è stata la trasformazione della idea di partito: dal partito geloso conservatore dell’identità culturale e ideologica, promotore di cultura, organizzatore delle masse verso una visione del mondo che costituisce insieme l’obiettivo e la ragion d’essere del partito stesso, si è passati a partiti che hanno una forte intercambiabilità di programmi e di obiettivi, non più frutto di rigide concezioni ideologiche ma di compromessi con la realtà e con il contingente.
Tutti i contributi che qui presentiamo mettono bene l’accento su questa situazione che è tanto ovvia a vedersi quanto significativa per delineare il futuro. Sia i contributi che tendono a sistematizzare il problema (Dino Cofrancesco, Stefano De Luca, Giuseppe Vacca e Pasquale Serra), sia quelli che ne colgono gli aspetti più attuali (Luciano Lanna, Gianfranco Pasquino), rappresentano con efficacia la situazione presente, nella quale i due termini sono talmente modificati nel loro significato politico tradizionale da chiedersi se possano essere ancora utilizzati in qualche modo nel campo politico.
Alla fine, però, tutti concordano – e questo potrebbe essere uno dei fili conduttori del fascicolo – nel porre il problema del rapporto tra il significato che oggi assume (o non assume) la dicotomia di destra/sinistra e il ruolo delle culture politiche. In altri termini, se abbia ancora valore un rapporto tra le culture politiche e le due categorie in una situazione come l’attuale, così come l’ebbero nel secolo passato.
In questo quadro, significativa è la sezione dedicata ai cattolici. Il cui movimento, inteso in senso più lato possibile (politica, laicato, ecclesialità), sfugge naturalmente alla dicotomia di cui sopra. E sfuggendo, cosa saggia sarebbe stata non parlare neppure dei cattolici, se non per dire che, appunto, non fanno parte né della destra, né della sinistra. O fanno parte di entrambe. Insomma, i cattolici rappresentano una anomalia nella dicotomia, e la loro storia lo sta a dimostrare, come emerge in maniera incontrovertibile dal denso saggio di Giovanni Tassani.
Tuttavia, al di là delle incompatibilità e delle incongruenze, i cattolici – e lo dimostrano, su piani diversi, sia il contributo di Franco Nobili, sia quello di Stefania Fuscagni – rappresentano un fattore di estrema importanza laddove il discorso su destra e sinistra finisca con l’arrivare (e, a mio avviso, non può non farlo) a individuare, come si è già detto, il ruolo delle culture politiche rispetto alla situazione attuale della nota dicotomia.
La storia italiana dimostra come i cattolici, nel momento in cui la situazione politica diventa complessa o critica, iniziano ad operare nel pre-politico e nel campo culturale. Lo fecero dopo il 1870 e il non expedit assunse un significato non soltanto negativo: l’Opera dei Congressi ha rappresentato un fondamentale laboratorio nel quale i cattolici, perso il potere temporale, cominciarono a studiare un nuovo rapporto con la società civile. Nacquero così banche, casse mutua, giornali, scuole, università e si sviluppò il rapporto con il territorio in termini di presenza, assistenza, educazione. Una cultura così articolata e così concreta permise al movimento cattolico, in tutte le sue declinazioni, di informare di sé la classe politica per quasi tutto il secolo XX, superando e assorbendo anche il tentativo totalitario fascista. Già dopo il 1968, il fiorire dei movimenti di ispirazione cattolica ha risposto in termini significativi alla medesima esigenza, nella persuasione che si fosse determinata una scissione fra potere politico e società. Se infatti, il governo del paese restava ancora saldamente in mano al partito dei cattolici, quello reale, quello che si sarebbe dovuto innervare profondamente nella società a livello di proposte nuove, era già sfuggito di mano alla Dc, la quale per molto tempo ritenne superfluo o addirittura pericoloso – come aveva segnalato con preoccupazione Augusto Del Noce – curare la cultura e la declinazione sul reale di quella che un tempo si chiamava “dottrina sociale della Chiesa”. I movimenti nati dal laicato cattolico ebbero in questo senso una funzione pre-politica, risposero a una insopprimibile esigenza culturale e determinarono un sostanziale rinnovamento nel mondo cattolico a tutti i livelli.
L’esempio dei cattolici è oggi estendibile a tutti, anche a chi ritiene, avendo vinto le elezioni del 2008, di avere un ampio consenso a disposizione. Le categorie di destra e sinistra rischiano di risultare mere indicazioni comportamentali, via via prive di effettivo significato, se non si pone mano rapidamente alla creazione di luoghi della riflessione e della mediazione culturale e politica, “case del pensiero” come le chiama in questo fascicolo Stefania Fuscagni, che possano elaborare progettualità politica in sintonia con le varie culture politiche.
I partiti, com’è noto, sono destinati ad essere sempre più contenitori organizzativi e sempre meno momenti di riflessione e di elaborazione culturale. Com’è anche giusto, visto che il partito-tutto, quello che si occupava dei giovani e delle donne, dell’assistenza e della educazione, della politica e della vita privata, non esiste più, non se ne sente una particolare mancanza e, con la fine delle ideologie, il legame indispensabilmente stretto fra partito e visione del mondo è venuto a mancare.
Ciò non vuol dire che se il partito non è più garante ideologico della politica, la politica non possa avere più un pensiero o una cultura di riferimento. Ci sarà, come in parte già c’è, spazio per le fondazioni e le associazioni le quali, in un’ottica di elaborazione culturale saranno in grado di preparare progettualità politica per un partito pragmatico ed essenzialmente operativo. Un lavoro prepolitico che sarà ancora più necessario e che, senza le barriere ideologiche e la sindrome dei “mali assoluti” e delle demonizzazioni, può rappresentare un elemento di rinnovamento e di positività nelle dinamiche politiche evitando che la politica vera si riduca a mera prassi senz’anima e senza progetto.