(estratto da Paradoxa 4/2020)
Potrebbe sembrare eccessivo chiedersi se la storia – la storia come rappresentazione del passato, ovviamente, perché intesa in senso generale essa coincide con l’esistenza umana – sia prossima alla fine, come si fa nel titolo di questo fascicolo di «Paradoxa». Potrebbe sembrare eccessivo, visto che la storia continua a insegnarsi nelle scuole, si continuano a pubblicare molti libri sui più vari argomenti attinenti al passato, mentre giornali, riviste, serie e programmi Tv danno spazio a temi e avvenimenti che vanno dall’antichità agli ultimi decenni; temi e avvenimenti sui quali, soprattutto se riguardano la storia contemporanea, si accendono spesso animate discussioni. Ma in realtà, come vedremo, qualcosa di decisivo è effettivamente cambiato negli ultimi decenni nel rapporto che il nostro paese e più in generale l’intero mondo occidentale intrattengono con il passato. E si tratta di un cambiamento – anzi di una serie di cambiamenti – di portata tale da indurre appunto a parlare di una crisi di quel rapporto, dunque di una crisi della storia. Si tratta di una crisi che implica una trasformazione profonda della cultura occidentale, se solo si pensa al posto rilevante che quest’ultima ha sempre assegnato alla storia: «I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione», scriveva Marc Bloch nelle pagine introduttive della sua Apologia della storia (Bloch, 2009: 8).
Che la principale democrazia del globo, gli Stati Uniti d’America, sia all’avanguardia – come vedremo – in questa marcia di allontanamento dalla storia getta una luce inquietante sul secolo presente; tanto più che la superpotenza emergente, la Cina, sta cercando invece di fornire al proprio regime non democratico solide radici nel passato attraverso il richiamo alla tradizione confuciana, mentre al contempo si impegna a cancellare la storia e la cultura delle sue minoranze. A quest’ultimo proposito mi limito a ricordare come di recente il Museo di storia di Nantes abbia dovuto annullare una mostra su Gengis Khan e l’impero mongolo, organizzata insieme alla Cina, perché le autorità di Pechino pretendevano che da ogni testo, come ha dichiarato il direttore del museo, venissero fatti «sparire del tutto la storia e la cultura mongola a beneficio di un nuovo racconto nazionale» che appunto esclude tutti i riferimenti a Gengis Khan e ai mongoli.
1. Una storia mediatizzata e politicizzata
Come si sarà capito, quel che qui ci interessa non è tanto un discorso di tipo storiografico, attinente cioè allo specifico lavoro degli storici di professione, bensì il rapporto delle nostre società con il racconto del passato. Al riguardo, sgombriamo anzitutto il campo da un paio di possibili equivoci.
Il primo riguarda la mediatizzazione dei temi storici. Quella diffusa attraverso i media, per un verso, è spesso una storia inventata – si pensi allo pseudomedioevo del genere Game of Thrones, che riscuote un costante successo – e, per l’altro, offre «senza sosta passati che spesso intrattengono solo un lontano rapporto con quelli ricostruiti nell’ambito della ricerca universitaria». Per giunta, programmi e serie televisive sono spesso il veicolo principale o l’unico attraverso il quale il pubblico adulto entra in relazione con una storia basata su «sintesi stereotipate [che] puntano sulla vena melodrammatica e sull’evasione, sacrificando ogni sguardo critico» (Gruzinski 2016: 27). Ma questo in fondo è sempre avvenuto: da che la storia si è organizzata e affermata come disciplina autonoma nel corso dell’Ottocento, la storia degli storici ha avuto caratteristiche diverse dalla visione del passato – spesso semplicistica, inesatta, deformata di sana pianta – diffusa tra la massa della popolazione.
Direi dunque che la reinvenzione/distorsione mediatica della storia, nonostante la crescente rilevanza e diffusione che ha acquisito a partire dalla comparsa della televisione, non rappresenta una vera novità; per quanto fatti e fenomeni vi compaiano deformati e alterati, non costituisce di per sé un segno di crisi della storia. Anche perché nulla impedisce che possano essere proprio i media a larga diffusione a essere utilizzati per una divulgazione, per così dire, storiograficamente corretta o quanto meno non troppo lontana dal lavoro e dalle conclusioni degli storici (si pensi, in Italia, agli ottimi ascolti di Rai Storia e al vero e proprio fenomeno rappresentato dalle conferenze su YouTube di Alessandro Barbero, che hanno ricevuto anche centinaia di migliaia di visualizzazioni).
Il secondo possibile equivoco riguarda la frequente politicizzazione del richiamo al passato, il fatto che la storia venga spesso piegata, nel discorso pubblico, a finalità direttamente politiche. Come è noto, la storia si è sempre sviluppata in costante tensione con la politica. Esemplare è il caso dei due libri con cui negli anni Venti nasceva in Italia la storiografia sul primo cinquantennio dello Stato nazionale, entrambi collegati – benché su opposti versanti – allo scontro tra fascismo e antifascismo: L’Italia in cammino di Gioacchino Volpe e la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce. Naturalmente, opere come le due appena citate erano innervate da una specifica visione politica ma rappresentavano anche due magistrali ricostruzioni del passato. Lo stesso non si può dire della esplicita politicizzazione della storia, della sua diretta strumentalizzazione a fini politici di cui qui si sta parlando, che è stata molto frequente nel corso degli ultimi due secoli. L’Ottocento è stato definito il secolo della storia anche per il ruolo decisivo che certi riferimenti al passato ebbero nel giustificare la politica degli Stati europei e dei movimenti che puntavano all’indipendenza nazionale. Si pensi – ma è davvero solo uno degli innumerevoli esempi possibili – al richiamo ai comuni del medioevo che caratterizzava il Risorgimento e in particolare all’enfasi attribuita allora alla battaglia di Legnano e alla Lega lombarda, interpretata come prima manifestazione di un sentimento nazionale italiano. La diretta e spregiudicata politicizzazione della storia è stata molto diffusa anche nel corso del Novecento, ad esempio negli anni della prima guerra mondiale, ciò che ha alimentato accuse e critiche anche molto radicali: «La Storia – scriveva Paul Valéry nel 1928 – è il prodotto più pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia elaborato. […] Essa fa sognare, inebria i popoli, produce in loro falsi ricordi, esagera i loro riflessi, mantiene aperte le loro vecchie piaghe, li tormenta nel riposo, li conduce al delirio di grandezza o di persecuzione, rende le nazioni amare, superbe, insopportabili e vane. La Storia giustifica ciò che vuole. A rigore non insegna nulla, perché contiene tutto e dà esempi di tutto» (Valéry 1960: 935).
Questa accusa, più volte ripetuta di fronte alle guerre e ai massacri che la storia spesso è stata chiamata a giustificare nel corso del XX secolo, ha certamente contribuito a gettare un’ombra sulla sua capacità di assicurare una visione del passato tendenzialmente obiettiva e indipendente dalla politica. Tuttavia questo uso politico, benché non sia certo scomparso nelle democrazie (si pensi, nel caso dell’Italia, alla costante denuncia di un pericolo fascista sempre attuale, perfino di un «fascismo eterno» secondo l’incauta definizione di Umberto Eco), vi svolge un ruolo limitato, se non altro perché il pluralismo delle opinioni consente di tenere a bada il fenomeno. Mettendo ora da parte il caso degli Stati Uniti, che verrà affrontato più avanti, direi dunque che non è neppure su questo terreno che possiamo individuare le ragioni vere di una crisi della storia, quantomeno in riferimento alle democrazie europee. Diverso sarebbe il discorso in relazione ai regimi non democratici o a quelle democrazie che presentano tratti illiberali, dove l’uso politico della storia, che spesso implica una sua totale riscrittura, si afferma in condizioni di quasi monopolio del discorso sul passato da parte dell’autorità di governo, condizionando anche la ricerca storica e l’insegnamento nelle scuole. Questo accade ad esempio nella Russia di Vladimir Putin, dove sono sostanzialmente ignorati i crimini del comunismo e viene dunque recuperato in gran parte il passato sovietico, compresa la stessa figura di Stalin perché artefice della «grande guerra patriottica» e per aver trasformato la Russia in una potenza mondiale; ma avviene anche nell’India di Narendra Modi, dove si cerca di imporre una lettura della storia del paese che la identifica in via esclusiva con la religione e la civiltà indù.
2. Crisi della storia e Stato nazionale
Nel passato dunque, e in parte ancora oggi, la storia è stata spesso piegata agli interessi della politica dei singoli Stati. Questo fatto non deve però far dimenticare che il legame con lo Stato nazionale ha anche costituito negli ultimi due secoli un fattore importante di promozione dell’interesse per la storia, ha favorito lo sviluppo di una narrazione del passato che, sia a livello accademico sia come parte della cultura di un paese, era fortemente ancorata a una prospettiva nazionale. Gli storici stessi, qualunque fosse l’oggetto specifico dei loro studi, si sentivano profondamente legati alle vicende del proprio paese. La Francia – scriveva nel 1940 uno dei fondatori delle «Annales», Marc Bloch – «resterà, qualsiasi cosa accada, il paese da cui mai saprei sradicare il mio cuore. Vi sono nato, ho bevuto alle fonti della sua cultura, ho fatto mio il suo passato, non respiro bene che sotto il suo cielo […]» (Bloch, 1995: 8). Tutto questo non è più vero da tempo.
Da qualche decennio, i processi di globalizzazione hanno determinato una perdita di sovranità da parte dei singoli Stati, svuotati di molti loro poteri in favore di entità o istituzioni sovranazionali: dai mercati finanziari a un organismo come l’Unione europea. E tuttavia lo Stato nazionale continua ancora a rappresentare la dimensione territoriale e istituzionale della cittadinanza, e al suo interno la focalizzazione della collettività sulla propria storia resta ancora notevole (anche se in alcuni paesi è resa problematica dalla presenza di significative minoranze con una diversa identità culturale e religiosa, come in Francia la comunità musulmana). Dunque a favorire la crisi della storia non è di per sé la perdita di importanza dello Stato nazionale, quanto l’ideologia che la ha accompagnata, basata sulla convinzione che ogni legame con la propria nazione costituisca l’anticamera del nazionalismo prevaricatore e razzista.
Il punto veramente importante, insomma, riguarda il fatto che, nelle democrazie europee, il rilievo ancora dato alla storia del proprio paese è guardato oggi con sospetto da una parte della cultura e delle élites, che tendono a concepire la democrazia stessa come un sistema fondato su un’ideologia dei diritti universali che vede i cittadini come membri – più che di uno specifico Stato nazionale, considerato una forma istituzionale obsoleta e pericolosa – di una cosmopoli democratica, di una democrazia dei diritti dell’uomo che abbraccia l’intero globo. Diventata, come molti hanno osservato, una vera e propria religione secolarizzata, l’ideologia dei diritti dell’uomo guarda con diffidenza, anzi combatte in quanto discriminatorio, tutto ciò che nei paesi occidentali «rimane dell’attaccamento alla loro storia nazionale, alle loro tradizioni, al loro passato» (Harouel, 2018: 41). Le differenze che si fondano su una base storico-culturale vengono considerate altrettanti ostacoli all’affermarsi di una generale eguaglianza/identità tra tutti gli esseri umani. Una prospettiva del genere, che plasma anche quella che potremmo definire l’ideologia ufficiale di Bruxelles, induce a valutare negativamente tutto ciò che abbia a che fare con l’identità e la storia nazionale, viste come un ostacolo alla formazione di un sentimento di cittadinanza universale.
Una simile visione ha conquistato anche una parte della storiografia, in particolare quanti si richiamano – soprattutto nel mondo anglosassone – a una world history tutta concepita appunto in chiave universalistica e antinazionale. Si tratta di un approccio che soffre a mio avviso di un limite insuperabile, poiché sembra ignorare che si fa storia (anche globale) sempre da un punto di vista particolare, correlato a una determinata cultura e a un contesto politico-istituzionale specifico. Se uno studioso o una persona colta europea può nutrire, che so, un vivo interesse per la storia dell’Impero del Mali, fiorito dal XIII al XVII secolo, è illusorio – benché, certo, molto politically correct – presupporre che la maggioranza degli italiani sia più attratta da quello specifico tema che dalla storia dei Comuni medievali o del fascismo. La storia liberata dalla «gabbia paralizzante» dello Stato nazionale, che alcuni vagheggiano, rischia perciò d’essere una storia che interesserà alla fine solo gli storici, e neppure tutti.
In teoria potrebbe essere la scuola a promuovere (a preservare, verrebbe da dire) lo studio della storia e il rapporto di una collettività con il suo passato, che non può essere evidentemente il passato dell’intero genere umano; ma temo avvenga il contrario. Ormai si è affermata infatti, non solo in Italia, una pedagogia mainstream che non ama affatto la storia, accusata di promuovere un’«ideologia identitaria nazional-eurocentrica», e preme anch’essa perché l’insegnamento si ispiri invece a un’«ideologia universale cosmopolita» (Galli della Loggia, 2019: 157). Si tratta di una pedagogia che punta a fare di bambini e ragazzi altrettanti cittadini del mondo, non vincolati ad alcun passato particolare e dunque finalmente liberati – così si ritiene – dal fardello delle proprie anguste vicende nazionali.
3. L’eterno presente
Nell’Ottocento l’uomo europeo prendeva pienamente coscienza della sua dimensione storica, sentiva di essere fondamentalmente il prodotto del passato, percepiva che la sua identità faceva tutt’uno con la sua storia. Questa percezione diffusa è entrata in crisi da tempo per molte ragioni alle quali è qui impossibile anche soltanto accennare. Mi limito a osservare come, tra di esse, vada collocata la stessa crisi dei partiti politici novecenteschi, i quali erano e si percepivano come prodotti della storia. Particolarmente rilevante, in quest’ambito, è stato il crollo dei regimi comunisti e con essi la crisi dell’ultima grande ideologia politica che ancora assegnava alla storia un ruolo centrale, fino al punto di sostenere (credendoci sempre meno, ma questo è un altro discorso) di sapere dove essa avrebbe portato. Ciò che soprattutto appare rilevante è però che, alla crisi della dimensione della storicità già in atto da decenni, si sia poi aggiunto un potentissimo fattore di accelerazione: il web. Internet alimenta l’illusione che si possa conoscere la storia senza studiare, poiché tutto si trova già disponibile senza dover fare alcuna fatica nell’immenso deposito della Rete. Come si capisce, questo modo di porsi di fronte alla storia (ma il discorso, evidentemente, vale anche per altre branche del sapere) si è incontrato alla perfezione, in Italia e non solo, con l’affermarsi della sciagurata didattica delle competenze di matrice anglosassone che ha scalzato la tradizionale didattica delle conoscenze. Se per quest’ultima la storia andava studiata per poterla conoscere, per l’altra basta in fondo saper navigare in Rete per trovare immediatamente qualunque cosa si cerchi riguardo al passato. Del resto, ormai si ritiene che la approfondita conoscenza della disciplina sia secondaria per gli stessi docenti.
Ma la conseguenza negativa del web sulla crisi del nostro rapporto col passato è soprattutto un’altra. Attraverso Internet si è affermata una nuova dimensione esperienziale e cognitiva che ha avuto varie definizioni, tra le quali la più efficace è probabilmente quella di «eterno presente»: in essa, infatti, ogni distinzione temporale sembra annullarsi nell’istante che assorbe tutto e nel quale ogni fatto diventa contemporaneo. Lo diventa, evidentemente, in un senso ben diverso da ciò che intendeva Benedetto Croce quando affermava che la storia è sempre storia contemporanea, muove cioè sempre da domande e interessi di chi la indaga. Ora tutta la storia è diventata contemporanea perché «esiste» contemporaneamente nel tempo annullato del web, nel suo eterno presente o – come potremmo anche dire – nel suo eterno istante. Se pensiamo a quanto la percezione del tempo e dunque del passato caratterizzi e distingua gli esseri umani rispetto a ogni altra specie animale, si affaccia qui il rischio di una vera e propria trasformazione antropologica: «Osserva il gregge che ti pascola innanzi – scriveva Nietzsche –: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell’istante, e perciò né triste né tediato» (Nietzsche, 1979: 6).
Se per chi si è formato nell’età della scrittura la Rete può rappresentare anzitutto uno straordinario strumento di documentazione, per i cosiddetti nativi digitali – che spesso vivono in simbiosi con lo smartphone – le cose stanno diversamente. Sono soprattutto loro che, di fronte all’enorme numero di informazioni storiche che il web rende disponibili facilmente e contemporaneamente, vedono sconvolta e tendenzialmente annullata la percezione dello scorrere del tempo; vivendo una parte significativa della loro giornata in contatto con i social media, la dimensione del tempo, per così dire, si soggettivizza rendendo perciò problematico mettere a fuoco un tempo storico estraneo a sé. Lo stesso medium attraverso cui la conoscenza del passato è stata comunicata per secoli – la parola scritta –, già sempre meno rilevante nella nuova civiltà dell’immagine, risulta ormai poco familiare a ragazzi e ragazze che tra i social media amano in modo particolare quelli che si fondano sulla rappresentazione visiva: Instagram per le foto, TikTok per i video. Non a caso, chi si trova a insegnare materie storiche all’università sperimenta da qualche tempo un nuovo tipo di ignoranza, quella di chi non è che ignori semplicemente in che anno si è svolta la Gloriosa rivoluzione inglese o quando è nato il Regno d’Italia e così via. Gli studenti impreparati sono sempre esistiti. La novità sta nel fatto che oggi molti di loro non percepiscono neppure perché dovrebbe essere rilevante, che differenza faccia mai collocare Lutero nel Trecento o Cavour nel Settecento. È che a costoro appare sempre più estranea la dimensione stessa del passato, di una storia concepita come una serie di epoche diverse, in una successione che non può essere composta e scomposta a piacimento come avviene invece nella navigazione in Rete. Si tratta di un fenomeno tanto più gravido di conseguenze poiché, anche in questo caso, non è contrastato dall’unica struttura che sarebbe in grado di farlo: la scuola. Ormai infatti, in forme diverse nei vari paesi, l’insegnamento scolastico, di fronte alla perdita della stessa capacità di percepire l’alterità del passato, rischia di operare come acceleratore del fenomeno invece che come fattore di contrasto (su ciò si vedano più avanti gli articoli dedicati all’Italia e agli Stati Uniti).
Ma per mettere a fuoco la crisi della storia di fronte alla quale ci troviamo, non è meno rilevante un altro fattore.
4. L’età della memoria
«In questa fine di millennio – scriveva Tzvetan Todorov nel 1995 – gli europei […] sono ossessionati da un nuovo culto, quello della memoria» (Todorov, 2001: 60). Un quarto di secolo dopo, la sua affermazione appare se possibile ancora più esatta, visto quanto il nostro discorso pubblico sia ormai caratterizzato dalla costante denuncia del pericolo di dimenticare il passato (una denuncia, sia detto per inciso, dalla fortissima carica emotiva perché la perdita della memoria è cosa che tutti individualmente temiamo e denota una delle malattie incurabili del nostro tempo, l’Alzheimer). Su una tale denuncia si fonda il costante richiamo al dovere della memoria, al quale si accompagna nei vari Stati l’indicazione di precisi eventi da ricordare in date stabilite, a cominciare dal Giorno della memoria il 27 gennaio dedicato alle vittime della Shoah. Come è sotto gli occhi di tutti, quella della memoria è una presenza ormai diffusa, a partire dalle stesse aule scolastiche; del resto la memoria è diventata nei paesi democratici il fulcro di una nuova religione civile. Spesso si pensa che il culto della memoria sia un modo per promuovere la conoscenza storica, ma non è così. Proprio la centralità assunta dalla memoria contribuisce invece alla crisi della storia, come ora vedremo.
Non va dimenticato che il culto della memoria si è affermato sì a partire dal ricordo della Shoah, ma dopo un lungo periodo in cui lo sterminio degli ebrei perpetrato da Hitler riceveva un’attenzione del tutto inadeguata e non aveva dunque la peculiare centralità ed epocalità che ha assunto oggi. Per limitarci all’Italia, ricordo come uno dei manuali di storia per le scuole più diffusi negli anni Sessanta, opera di uno studioso di valore come Armando Saitta, trattasse del tema in poche striminzite righe, senza fare alcun preciso riferimento alle dimensioni quantitative assunte dallo sterminio degli ebrei. E ancora al principio degli anni Settanta poteva accadere che il manifesto di una sezione romana del Partito comunista ricordasse il rastrellamento degli ebrei della capitale compiuto dai tedeschi il 16 ottobre 1943, cioè l’episodio più grave nel «capitolo italiano» della Shoah, limitandosi però a parlare di «cittadini romani» deportati e dunque senza usare la parola ebrei. Va perciò riconosciuto che l’affermarsi nelle democrazie occidentali del culto della memoria ha avuto senz’altro un impatto positivo, nella misura in cui ha spinto a dare risalto adeguato a un episodio tragicamente centrale della storia del XX secolo. Tuttavia quel medesimo culto, una volta istituzionalizzatosi in forme ufficiali, ha anche contribuito, come si diceva, a una crisi della storia.
Converrà anzitutto ricordare come la storia e la memoria siano due cose differenti, che implicano due modi diversi di entrare in relazione con il passato: la prima cerca di ricostruire fatti e fenomeni lontani nel tempo attraverso procedimenti critici che aspirano a essere scientifici, naturalmente di una scienza i cui risultati sono sempre provvisori e modificabili; se la storia cerca di oggettivizzare e contestualizzare il passato, la memoria ci consegna al contrario un’immagine degli eventi (solo di alcuni, come è ovvio) che resta inevitabilmente legata all’esperienza individuale del testimone. Resta anche legata, per la verità, all’epoca e al contesto particolare in cui quest’ultimo ricorda: la testimonianza di un ebreo italiano colpito dalle leggi razziali espressa negli anni Cinquanta non è identica a quella resa oggi dalla stessa persona, perché anche il ricordo individuale è una costruzione sociale, varia in relazione ai giudizi e al rilievo che la società attribuisce in un certo momento a un determinato fatto o fenomeno. L’evento rappresentato dal testimone, il quale lo riconduce alla sua personale esperienza, viene in parte decontestualizzato rispetto al momento storico in cui si è verificato, per essere ricontestualizzato in relazione al momento in cui si produce il ricordo (ma questa seconda operazione generalmente avviene senza che il testimone e il suo pubblico ne siano consapevoli). Riguardo agli ebrei sopravvissuti allo sterminio, è stato ad esempio osservato come le loro testimonianze possano a volte contenere immagini e ricordi che derivano non dall’esperienza diretta ma da «una massiccia esposizione a documentari, film, autobiografie e romanzi successivi alla guerra» (Browning, 2011: XIX).
Tutto ciò non toglie che per lo storico la memoria di chi ha personalmente vissuto certi avvenimenti sia importante: può servire ad accertare o comunque meglio conoscere specifici fatti (si pensi alle testimonianze dei deportati che sono state inizialmente l’unica fonte per documentare la persecuzione in atto nel Gulag); gli permette inoltre di avere una percezione meno astratta e fredda dei sentimenti – dal grande entusiasmo alla sofferenza estrema – che si sono manifestati in specifiche situazioni. Resta il fatto che la memoria rappresenta qualcosa di profondamente diverso rispetto alla ricostruzione storica vera e propria, e anzi può risultare deformante poiché tende necessariamente a soggettivizzare il passato. Non vorrei dare un’immagine oleografica e apologetica della storiografia: è successo molte volte, e continua a succedere, che anche gli storici forniscano una rappresentazione deformata del passato (si pensi a quanto, ancora oggi, i manuali di storia di molti paesi risentano di un’impronta di tipo fortemente nazionalistico); potremmo dire che lo storico è soggetto a un campo magnetico in cui l’aspirazione a una ricostruzione critica e tendenzialmente scientifica del passato si scontra di continuo con spinte interne ed esterne riconducibili a determinate visioni politiche, a pressioni dell’ambiente o del gruppo culturale di provenienza ecc. Ma la deformazione del passato, se è un rischio sempre presente nell’attività dello storico, è invece costitutiva della rappresentazione che la memoria ci fornisce del passato, necessariamente vincolata alla percezione del testimone.
Nell’opinione comune la memoria del testimone, in quanto fondata sull’esperienza vissuta, gode di un crisma di autenticità: mentre lo storico pretende di raccontare cose che non ha visto di persona, il testimone riferisce fatti ai quali ha direttamente assistito ed emozioni che ha direttamente provato. Ciò fa sì che spesso la memoria sia ritenuta una forma di conoscenza dell’avvenimento passato superiore a quella affidata alla ricostruzione storica, che anche per questo viene a essere svalutata. Nell’età della memoria in cui viviamo non si fa neppure caso al fatto che, proprio in relazione ai grandi crimini del Novecento, far ricorso a essa come forma di «vera conoscenza» è intrinsecamente contraddittorio. La inevitabile scomparsa dei testimoni, per ovvi motivi anagrafici, ci riconsegnerebbe infatti a una condizione di conoscenza gravemente imperfetta se non impossibile: se soltanto i sopravvissuti allo sterminio degli ebrei possono con la loro testimonianza diretta farci capire cosa «veramente» è stata la Shoah, come viene ripetuto, cosa ne sarà di quell’avvenimento, che in tanti già oggi mettono in dubbio, una volta che l’ultimo testimone sarà scomparso?
Peraltro, il culto della memoria non sembra poi così adatto a realizzare l’obiettivo che pure è stato all’origine della sua nascita: diffondere la consapevolezza e la conoscenza del grande crimine rappresentato dallo sterminio degli ebrei d’Europa da parte del regime nazista. Abbiamo continue testimonianze della diffusa ignoranza riguardo alla Shoah: secondo il Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, ad esempio, il 15,6% degli italiani concorda con l’affermazione che lo sterminio degli ebrei non c’è mai stato, mentre il 16,1% ritiene che non abbia prodotto tante vittime quanto viene sostenuto. Si noti che il primo dato, quello riferito a chi nega l’esistenza stessa della Shoah, risulta in netto aumento rispetto al 2004, quando la percentuale era solo del 2,7% (la seconda percentuale subisce un aumento più leggero: dall’11,1% nel 2004 al 16,1% nel 2020). Dati del genere ricevono giustamente risalto, ma si tralascia per solito una considerazione che pure dovrebbe essere elementare: la negazione e la minimizzazione della Shoah che emergono dal sondaggio citato si verificano in un paese che, come altri, da anni dedica al ricordo dell’evento una specifica giornata, vero fulcro della religione civile della memoria. È dunque lecito chiedersi se l’aumento di quanti negano la Shoah o tendono a minimizzarne la portata non riveli anche l’inadeguatezza di un rapporto con il passato e le sue tragedie fondato sul culto della memoria, dunque su un supporto in fondo passeggero e superficiale come la commozione che il racconto del testimone inevitabilmente suscita.
Tornando alle differenze tra storia e memoria, si pensi a quanto quest’ultima finisca con il far gravitare la nostra attenzione verso la storia più recente – quella per la quale esistono ancora dei testimoni – nella implicita presunzione che tale storia sia anche quella veramente rilevante. Nel caso dell’Italia è questo assunto, pur di nessuna fondatezza, che ha giustificato la dilatazione dello spazio riservato al Novecento nell’ultimo anno delle superiori disposta nel 1996 dall’allora ministro Luigi Berlinguer. Sul tema, che non può essere qui approfondito, mi limito a citare quello che uno dei grandi storici del secolo passato, Henri Pirenne, disse a un più giovane collega: «Faccio molta fatica a scrivere l’ultimo volume della mia Histoire de Belgique, dedicato alla storia contemporanea. In un libro del genere ci si deve occupare soltanto dei fatti importanti. […] Ma come faccio a pesare l’importanza di fatti di cui si attendono ancora i risultati?» (Bloch, 2014: 58).
Un’altra caratteristica della memoria, che tende anch’essa a distinguerla dalla storia, risiede nel fatto che il culto della memoria si fonda anzitutto sul ricordo della Shoah, cioè di un avvenimento che ha una valenza sovranazionale e universalistica: lo sterminio degli ebrei, come il crimine contro l’umanità che lo ha determinato, interroga e chiama al dovere del ricordo l’intero genere umano. Il culto della memoria si concilia dunque perfettamente con quella ideologia democratico-universalistica di cui si è detto più indietro; e questo fatto rappresenta probabilmente una delle ragioni che ne spiegano la diffusione e il successo soprattutto in ambito europeo. Le cose stanno diversamente per la storia. Se infatti il singolo storico può occuparsi degli argomenti che più lo interessano, riferiti ai più diversi secoli e aree geografiche del globo, l’interesse prevalente di una collettività nei confronti del passato – come abbiamo già osservato e come del resto è sotto gli occhi di tutti – tende inevitabilmente a orientarsi in primo luogo verso la storia nazionale, vista come il deposito di tradizioni e costumi di cui si è eredi e che plasmano la propria identità.
5. Un passato criminale
La memoria alla quale si fa riferimento in queste pagine si costruisce a partire dalle memorie individuali e di gruppo delle vittime delle grandi tragedie e dei grandi crimini del Novecento, che sono fatte proprie dalla collettività quale elemento centrale della propria rappresentazione del passato. Ci troviamo così di fronte a una memoria collettiva che ha ad oggetto, in via decisamente prevalente, quelle tragedie e quei crimini: in primo luogo lo sterminio degli ebrei perpetrato dal regime nazista, ma anche – con variazioni da un paese all’altro – la tratta dei neri, le vittime dei regimi comunisti, le foibe, il genocidio degli armeni e così via. Nei vari Stati la memoria collettiva – se la intendiamo come la visione della propria storia che una società sviluppa in un momento determinato – era caratterizzata già da tempo da ricorrenze ufficiali, che però – questo è il punto – celebravano soprattutto le vittorie e i successi della nazione, nonché i principali artefici delle une e degli altri. Spesso gli avvenimenti ricordati erano ingigantiti nella loro importanza e deformati rispetto alle caratteristiche effettive, ma comunque avevano un carattere positivo, rappresentavano qualcosa di cui tutta la nazione doveva andare orgogliosa. Anche le date che erano dedicate al ricordo dei caduti, ad esempio dopo il primo conflitto mondiale, non sono affatto equiparabili alle attuali giornate della memoria: mentre queste ricordano le vittime di crimini di massa, quelle celebravano dei cittadini che avevano dato la vita per la patria; mentre le vittime non desideravano certo morire, i caduti – a stare alla retorica ufficiale, beninteso – si erano volontariamente sacrificati per la loro nazione (ma non a caso si sta ormai affermando un’idea dei soldati caduti nella Grande guerra come vittime dell’orientamento bellicista dei loro governi).
A costituire una peculiarità della nuova età della memoria sta dunque il fatto che il passato interessa anzitutto per i crimini che vi sono stati commessi. Mentre la storia aspira a una ricostruzione che comprenda sia avvenimenti e fenomeni considerati positivi sia avvenimenti e fenomeni considerati negativi (ed è ovvio che una tale qualifica può mutare nel corso del tempo, poiché è essa stessa un dato storico: si pensi al colonialismo europeo in Africa o alla rivoluzione culturale cinese), la memoria collettiva dei nostri tempi tende a ricordare soltanto i secondi. Se Ernest Renan, in un famoso passo, invitava una nazione a saper dimenticare certe pagine buie segnate da sanguinosi conflitti intestini, come fu per la Francia la notte di san Bartolomeo, nell’età della memoria ci viene invece chiesto di ricordare proprio le date negative, anzitutto i grandi crimini del Novecento, dei quali dobbiamo considerarci responsabili anche se siamo vissuti molti anni dopo l’epoca in cui vennero commessi e spesso anche se siamo cittadini di un altro paese. Sempre più l’immagine della storia passata che se ne ricava è dunque quella di una serie interminabile di violenze, orrori, genocidi. Il dovere della memoria al quale veniamo chiamati, incentrato sul cordoglio per quei fatti, viene considerato come l’unico modo che abbiamo per farci perdonare le colpe che abbiamo ereditato, offrendo così una riparazione simbolica ai superstiti e a quei gruppi che sono gli eredi delle vittime di un determinato crimine di massa.
Per quanto appena detto, la rappresentazione del passato incentrata sulla memoria ha un suo peculiare soggetto, un suo peculiare eroe: la vittima, che si è trovata al centro degli avvenimenti e si trova ora al centro del ricordo, anche se generalmente il suo ruolo è stato solo passivo. Gli ebrei, ma anche i kulaki in Urss o gli italiani gettati nelle foibe, erano infatti colpiti non per ciò che facevano ma per ciò che erano, come ha chiarito Hannah Arendt delineando le caratteristiche del «nemico oggettivo» in pagine giustamente famose. Nel caso dell’Italia, si possono forse comprendere nella categoria anche le vittime di mafia e terrorismo, ricordate in due apposite date, 2 marzo e 9 maggio. Le vittime rappresentano un eroe collettivo, ma possono anche avere un volto e un nome precisi. Si pensi agli eroi che più ricorda oggi il nostro paese: da Falcone e Borsellino al generale Dalla Chiesa, da Moro a Giorgio Ambrosoli, si tratta sempre di morti ammazzati.
Nelle varie giornate della memoria le vittime incolpevoli vengono ricordate, il crimine di chi le ha condotte alla morte viene esecrato e poco altro c’è da aggiungere; per questo quelle giornate rischiano di trasformarsi in occasioni di una rituale e scontata condanna del male, anno dopo anno inevitabilmente ripetitiva. Soprattutto nel caso dell’evento fondativo della nuova religione della memoria, la Shoah, l’avvenimento che si ricorda viene di fatto destoricizzato: «Auschwitz – è stato osservato – viene ripensata quale luogo in cui si è sviluppato il confronto fra il Bene, impersonato dagli ebrei sterminati, e il Male, impersonato dai nazisti, con una vittoria di quest’ultimo» (Germinario 2017: 65). La Shoah assume così il carattere di una peculiare rivelazione, del tutto opposta rispetto a quella cristiana: è infatti una rivelazione del male.
La condanna dovrebbe almeno renderci più consapevoli di certi terribili fatti, ma non vi è alcuna prova che sia effettivamente così. Condannare e comprendere sono infatti operazioni mentali molto diverse: se la prima è il terreno di elezione della memoria, la seconda è attività essenziale della ricostruzione storica. Per lo storico la vittima non ha alcuna posizione privilegiata, semmai – quando ha a che fare con i grandi crimini collettivi – ha una posizione marginale; in genere per la ricostruzione e interpretazione del passato alla quale egli lavora – sia detto con tutto il rispetto che le vittime meritano – sono più importanti il ruolo e i moventi del carnefice.
Si può citare di nuovo, a questo proposito, Hannah Arendt che, in una pagina delle Origini del totalitarismo, si interrogava sulle ragioni delle uccisioni di massa compiute dagli europei in Africa. Non le interessava ricordare le vittime, ma spiegare quei «terribili massacri» guardando agli assassini. Scriveva, a proposito della colonizzazione del Sud Africa, che «i boeri non riuscirono mai a liberarsi del primitivo orrore provato davanti a una specie di uomini che l’orgoglio e il senso della dignità umana impedivano loro di accettare come simili». Gli africani «si comportavano come una parte della natura, che trattavano come loro indiscussa padrona», e apparivano perciò ai boeri come «irreali fantasmi», «esseri “naturali”, privi dello specifico carattere umano, di modo che gli europei non si rendevano quasi conto di commettere un omicidio quando li uccidevano» (Arendt, 2004: 268-269). Qui non è rilevante stabilire se questa spiegazione, insieme ad altre («il massacro insensato faceva parte delle tradizioni del continente nero»), sia convincente o meno. Quel che importa è che Arendt non fosse interessata a celebrare le vittime, a esprimere un giudizio morale di condanna dei crimini commessi dagli europei (peraltro piuttosto ovvio). Era interessata a capire.
L’affermarsi del culto della memoria e dell’idea di un passato criminale ha avuto molti corollari significativi, ai quali qui si può solo fare cenno. Tra essi va annoverato il moltiplicarsi delle vittime dopo il carattere di evento fondativo assunto dallo sterminio degli ebrei, in conseguenza della tendenza di alcuni gruppi a richiedere anche per sé il riconoscimento dello status di vittima. «Se si giunge a stabilire in modo convincente che un certo gruppo è stato vittima di ingiustizie nel passato, questo fatto gli apre una linea di credito inestinguibile» (Todorov 2001: 64). Anche per questo, cioè per la necessità di verificare la condizione di vittima ed eventualmente il diritto a un risarcimento (economico o simbolico), l’indagine sul passato ha spesso assunto i caratteri di un accertamento giudiziario di colpe e crimini. Proprio questo processo di giuridificazione della storia, come è stato definito, cioè il ruolo assunto dalla dimensione giudiziaria e dalle sue specifiche procedure di accertamento dei fatti, conferma quanto ormai l’età della memoria comporti la marginalizzazione della storia degli storici, con le sue regole e i suoi metodi; metodi e regole che, a differenza delle sentenze dei tribunali, mirano ad accertare verità mai definitive e dunque sempre suscettibili di cambiamento.
Ma la giuridificazione della storia si manifesta soprattutto in un altro fenomeno: la tendenza degli Stati democratici europei ad approvare delle «leggi memoriali» che, su pressione di una parte dell’opinione pubblica e/o di un gruppo che chiede il riconoscimento legislativo della propria traumatica memoria storica, stabiliscono cosa ricordare e quando. Di queste leggi, sulle quali esiste una letteratura sterminata, si occupa uno dei contributi di questo numero di «Paradoxa». Mi limito perciò a ricordare solo un aspetto, cioè come esse contengano il rischio di accreditare su alcuni avvenimenti una verità di Stato che può minacciare la libertà di ricerca dello storico, con qualche analogia con quel che accade in regimi non democratici. È il caso del genocidio armeno, che in vari paesi una risoluzione parlamentare (e in Francia una legge) ha definito una volta per tutte appunto come genocidio, mentre vari storici – senza negare affatto le uccisioni degli armeni avvenute durante il primo conflitto mondiale né la loro entità – ritengono più corretto utilizzare termini come «massacro» o «uccisioni di massa» vista l’assenza di quell’intenzione di sterminare un intero gruppo etnico in quanto tale che si lega al termine di genocidio. Ancora più evidente diventa il rischio di limitare la libertà dello storico (e più in generale la libertà di opinione) quando una legge, dal piano simbolico – il richiamo al dovere della memoria e la fissazione di una certa data per ricordare un determinato evento –, passa a prevedere meccanismi sanzionatori che puniscono, anche con il carcere, la negazione o la minimizzazione di un avvenimento, come nel caso della Shoah.
6. Stati Uniti: cancellare il passato
Se il culto della memoria riguarda avvenimenti e interpretazioni del passato che all’interno di una comunità sono ampiamente condivisi, tanto da avere di norma un riconoscimento ufficiale, diverso è il caso di quelle che nel linguaggio odierno vengono definite «guerre della memoria». Con questo termine ci si riferisce a polemiche in genere molto aspre interne a un paese (ma anche tra Stati diversi) che sono alimentate da interpretazioni sostanzialmente opposte di determinati fatti storici. È quel che ad esempio è avvenuto per decenni in Italia attorno alla Resistenza, oppure in Spagna – una volta archiviato il cosiddetto «patto dell’oblio» – riguardo alla guerra civile e da ultimo al trasloco della salma di Francisco Franco dal mausoleo della Valle de los Caídos; è il caso anche delle ricorrenti polemiche tra Corea del Sud e Giappone sulle «donne di conforto», le migliaia di coreane (ma anche cinesi e filippine) ridotte al rango di schiave sessuali dall’esercito nipponico durante la seconda guerra mondiale. Queste polemiche non implicano di per sé una crisi della storia. Anzi, le vivaci discussioni che le accompagnano possono alimentare nell’opinione pubblica un’attenzione per il passato che altrimenti non vi sarebbe stata. Diverso è il caso della guerra della memoria che si sta combattendo negli Stati Uniti (ma anche, su scala minore, in Canada e Gran Bretagna), che testimonia di una crisi della storia che batte una via diversa rispetto al culto della memoria diffuso nell’Europa continentale, con esiti di una radicalità che non ha l’eguale in altri paesi. Quel che lì si sta verificando sembra approdare infatti a una vera e propria cancellazione del passato e della sua specificità: non a caso si è parlato appunto di una cancel culture che si sta ormai affermando in alcuni ambienti, a cominciare dalle università e dall’intellighenzia liberal.
L’aspetto che ha avuto più risalto a livello internazionale è stato certamente quello che ha preso la forma di una «guerra delle statue» volta a vandalizzare, abbattere o far spostare dal loro insediamento originario monumenti che raffiguravano generali sudisti, politici confederati, personaggi accusati di schiavismo e razzismo. Un fenomeno che di norma si produce durante o dopo i cambi di regime – come nel caso delle molte statue di Lenin abbattute in Ucraina e di quelle di Saddam Hussein in Iraq – in questo caso si è verificato in uno Stato che esiste da due secoli e mezzo. La mobilitazione contro le statue, già in atto da qualche anno, si è intensificata come è noto nell’estate del 2020 in collegamento con le manifestazioni del movimento Black Lives Matter. Nell’Europa occidentale (esclusa la Gran Bretagna, paese direttamente interessato dal fenomeno) abbiamo guardato le foto e i video di quegli assalti alle statue con una meravigliata curiosità, senza forse cogliere il fatto che non tutte le statue abbattute erano uguali.
Molti dei monumenti oggi contestati (e in alcuni casi rimossi) risalgono ai decenni successivi alla guerra di secessione: le statue raffiguranti il generale Robert Lee o il presidente confederato Jefferson Davis vennero erette dagli sconfitti e dai loro eredi come una sorta di difesa delle proprie ragioni (che ovviamente sorvolavano sul tema della schiavitù) ma erano anche parte di un più generale disegno di riconciliazione nazionale condotto nel paese. Oggi, un secolo e più dopo, non è incomprensibile che la presenza di certe statue risulti sgradita a molti americani, non soltanto neri, e che se ne richieda il trasferimento magari in un museo (il tentativo di risolvere in modi spicci il problema distruggendo una statua, per quanto condannabile, non cambia la sostanza della questione). È il caso, ad esempio, della statua di Nathan Bedford Forrest, generale sudista ma anche esponente di spicco del Ku Klux Klan, inaugurata nel 1905 a Memphis e rimossa tre anni fa. È il caso anche della decisione, annunciata nell’estate 2020, di rimuovere il monumento che, fuori dell’American Museum of Natural History di New York, raffigura Theodore Roosevelt a cavallo affiancato da un indiano d’America e da un nero, entrambi a piedi: una posizione che stava a significare la condizione di sottomissione delle due etnie. Per quanto si voglia storicizzare il monumento (come si era fatto con una placca che criticava l’ideologia razzista del tempo) è probabile che a molti neri e nativi americani possa dar fastidio questa messa in scena della loro condizione di inferiorità. Si potrebbero fare vari altri esempi (come quello di Bristol, in Inghilterra, dove i dimostranti hanno gettato nel fiume la statua di Edward Colston, filantropo ma anche mercante di schiavi). Ma il punto rilevante è che, in casi del genere, la rimozione delle statue può essere censurata in quanto rappresenta un modo sbrigativo e superficiale di fare i conti con il passato, ma non implica necessariamente un atteggiamento di negazione della storia.
Sono sensibilmente diversi, invece, altri casi, come quello di uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Thomas Jefferson, che è stato accusato di essere un proprietario di schiavi, cosa del tutto vera in un’epoca nella quale – com’è universalmente noto – la schiavitù era diffusa e legale. A Portland i manifestanti hanno buttato giù una sua statua perché – come avevano scritto nel basamento con la vernice – era uno «slave owner» e nulla di tutto ciò che nella sua vita ha fatto d’altro conta più. Discorso analogo si potrebbe fare per Woodrow Wilson: un presidente progressista che, al tempo della prima guerra mondiale, aveva sognato si potesse creare un mondo «safe for democracy» e aveva promosso a tal fine la nascita della Società delle nazioni; ma che da presidente aveva lasciato si ripristinasse la segregazione razziale nell’amministrazione federale. Oggi viene liquidato come razzista perfino dall’Università di Princeton, di cui era stato rettore, che ha deciso di toglierne il nome dal corso di relazioni internazionali a lui intitolato. In casi come questi siamo di fronte a un capo d’accusa formulato con i criteri di oggi e che dunque annulla qualunque specificità del passato, chiamando sul banco degli imputati personaggi storici per idee che, nella loro epoca, erano largamente diffuse e per colpe che, allora, non erano considerate tali. In questo modo, ha osservato uno storico americano, Sean Wilentz, la storia viene trasformata in «una favola semplicistica del bene contro il male» (Rampini, 2020).
Tra i monumenti che sono stati oggetto dell’iconoclastia dei manifestanti, spiccano per numero quelli dedicati a Cristoforo Colombo, accusato – e non da oggi – come responsabile del genocidio delle popolazioni indigene d’America. La figura di Colombo è estremamente interessante, perché in lui spirito di avventura e idee nuove si mescolavano alle convinzioni religiose improntate a un messianismo tardomedievale. Giunto in quelle che continuava a pensare fossero le Indie occidentali Colombo era interessato alla ricerca dell’oro ma anche alla conversione degli indigeni in vista della prossima battaglia finale contro l’Anticristo; l’uomo che aveva scoperto, sia pure senza saperlo, un nuovo continente riteneva anche, arrivato alla foce dell’Orinoco durante il suo terzo viaggio, d’essere nei pressi del paradiso terrestre. La complessità della sua figura non interessa però a chi ha deciso di sottoporre il passato al giudizio del presente. E poche cose, direi, come il destino subìto negli Stati Uniti da tante statue di Colombo testimoniano quanto sia andata avanti questa mentalità di riscrittura/cancellazione della storia: una mentalità che è amplificata grazie ai social media e appare perfettamente a misura dell’eterno presente del web. A Boston, nell’estate 2020, la sua statua è stata decapitata e poi rimossa; a Baltimora è stata tirata giù dal piedistallo dai manifestanti e gettata in mare; a Elisabeth, in New Jersey, si è deciso di sostituire la statua di Colombo con quella della transgender e attivista lgbt Marsha P. Johnson.
L’interpretazione del passato con i criteri odierni, che comporta dunque un sostanziale annullamento delle differenze tra le epoche storiche, è stata applicata a Colombo, primo responsabile dell’Olocausto americano (come si intitolava un libro di David E. Stannard di quasi trent’anni fa), ma ha coinvolto l’intera storia del Nord America. Quella che un tempo, con molta retorica e unilateralità, era descritta come una storia di indipendenza, libertà e prosperità per gli Stati Uniti e per il mondo, viene ormai ribaltata in una vicenda fondata sul genocidio delle popolazioni indigene e lo sfruttamento schiavista dei neri. Sia detto per inciso, lo stesso riferimento ormai usuale a un genocidio, per giunta deliberato (Nabokov, 2020: 51-52), compiuto dai governi americani è discutibile anche per il fatto che utilizza un termine coniato all’inizio del Novecento per riferirsi ad avvenimenti molto precedenti (ma ormai, soprattutto nel mondo anglosassone, c’è un’apposita disciplina accademica – i Genocide Studies – volta a studiare l’intera storia umana alla luce di questa categoria).
Intendiamoci, negli Stati Uniti la storiografia ma anche la coscienza collettiva dell’opinione pubblica bianca per molto tempo hanno minimizzato se non ignorato il destino di emarginazione, sofferenza, morte, che lo sviluppo del paese ha riservato a nativi e afroamericani. Dunque indagare e portare alla luce episodi ignorati o poco conosciuti rappresenta un fatto sicuramente positivo. Per la nuova tendenza, però, tesa a criminalizzare l’intero passato americano, non si tratta di elaborare una storia più ampia e inclusiva, raccontando una vicenda che fu di libertà e benessere per alcuni (pensiamo ai milioni di immigrati europei) ma anche di sofferenza e sottomissione per altri, gli afroamericani e gli indiani d’America. Questo è quello che hanno cercato di fare alcuni studiosi, come Eric Foner nella sua Storia della libertà americana (1998); ciò che sta avvenendo nell’ambito della cultura liberal è qualcosa di diverso, vale a dire il totale capovolgimento del punto di vista tradizionale. Basti pensare al 1619 Project lanciato l’anno passato dal «New York Times»: la data ricorda la nave che portò il primo carico di schiavi nelle colonie, un anno prima che il Mayflower dei Padri pellegrini approdasse a Cape Cod, sulla costa americana. Gli Stati Uniti, si vuol dire in sostanza, nascono da un crimine – la schiavitù –, da un peccato originale che nulla, nemmeno l’aver liberato l’Europa dal nazismo, può cancellare. Così accade che la «New York Review of Books» abbia ricordato la riflessione sul passato nazista e sulle colpe dei tedeschi che ha avuto luogo in Germania negli ultimi decenni, per additarla come esempio da imitare agli americani, incapaci di fare i conti con il proprio passato schiavista. Non un cenno viene fatto alla circostanza che la Germania quei conti ha potuto farli grazie a una sconfitta del nazismo nella quale gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo determinante (Gorra, 2019: 11). Del resto, l’accostamento tra la condizione dei neri negli Stati Uniti e quella degli ebrei in Germania è ormai comune. Ad esempio, in un volume appena pubblicato (Caste. The Origins of Our Discontents, Random House), la giornalista afroamericana Isabel Wilkerson descrive l’intera storia americana come fondata su caste costruite sull’appartenenza razziale, che paragona al sistema castale indiano ma anche alla discriminazione subita dagli ebrei nella Germania nazista.
In tutto questo ritroviamo quella rappresentazione in chiave criminale del passato che è centrale nel culto della memoria diffuso soprattutto nelle democrazie europee. Ma con una importante differenza. Se in Europa, come abbiamo visto, è la nostra storia comune a essere considerata in primo luogo per i suoi aspetti criminali, negli Stati Uniti la «storia criminale» è solo la loro, quella dei bianchi.
In questo processo di condanna in blocco del passato americano si finisce col dare giudizi moralistici che allontanano necessariamente la comprensione dei fenomeni storici, come sempre avviene quando questi vengono ridotti a uno scontro tra buoni e cattivi, tra bene e male. Che senso ha, ad esempio, che un giornalista del «New York Times» (Staples, 2019) si dichiari «indignato e sconvolto per il trattamento chiaramente razzista che i [suoi] predecessori del XIX secolo mostravano scrivendo degli afroamericani e degli immigrati italiani»? Dato che all’epoca era ben diffusa la convinzione che non tutte le razze fossero uguali, che senso ha oggi che noi, antirazzisti senza alcuno sforzo, ci ergiamo a giudici di chi aveva sul tema idee tutt’affatto diverse? Ma appunto, la distinzione tra il passato e il presente è ciò che è entrato in crisi, in gran parte delle democrazie occidentali e soprattutto negli Stati Uniti.
Ci sono in particolare due elementi che determinano la peculiare forza e radicalità della contestazione del passato «bianco» in atto negli Stati Uniti. Il primo consiste nel fatto che tale contestazione si può giovare di un movimento d’opinione (e di piazza) contro la permanente condizione di marginalità dei neri americani (non è un caso che invece la politica di emarginazione e sterminio subita in passato dagli indiani d’America riceva un’attenzione molto minore). Più volte in Italia, di fronte alle violente contestazioni dei simboli del passato «bianco», si è sottolineata l’assurdità di una riscrittura del passato che, portata fino alle estreme conseguenze, dovrebbe condurre alla distruzione, a Roma, del Colosseo, dove si facevano combattere per il divertimento del pubblico prigionieri e schiavi. Ma un rilievo del genere dimentica un fatto decisivo, e cioè che, a differenza di ciò che accade negli Stati Uniti, di quegli schiavi e di quei prigionieri nessuno si considera oggi l’erede.
Il secondo elemento ha a che fare con l’appoggio che la condanna in blocco del passato «bianco» riceve dal mondo accademico e dalla intellighenzia liberal. Questa disponibilità di una parte della cultura americana ad accettare ogni anacronistico processo alla propria storia affonda le sue radici in tendenze intellettuali affermatesi negli ultimi decenni: dal decostruzionismo alla political correctness, fino all’evoluzione del multiculturalismo verso posizioni che non tendono più ad affiancare con un proprio racconto la storia tradizionale «bianca» ma puntano a sostituirla integralmente con una nuova versione del passato americano. Ma nella corrività mostrata dagli ambienti intellettuali di fronte alla cancel culture vediamo anche all’opera quel complesso di colpa e quell’odio di sé che già si erano manifestati in altre occasioni nella cultura europea.
Se oggi negli Stati Uniti una parte dell’élite bianca ritiene di poter cancellare la propria storia perché macchiata dal peccato originale rappresentato dalla schiavitù, qualcosa di analogo accade in Gran Bretagna, dove – anche qui soprattutto nel mondo accademico – si moltiplicano certe manifestazioni di pentimento per il colonialismo, l’imperialismo, il razzismo che portano a chiamare sul banco degli imputati alcuni fra i più celebrati esponenti della propria cultura. A questo riguardo, bastino due esempi. L’Università di Edimburgo ha deliberato di cambiare il nome della David Hume Tower perché il filosofo scozzese riteneva che i neri (lui ovviamente scriveva «negroes») fossero per natura inferiori ai bianchi. Il National History Museum di Londra ha deciso una revisione di alcune collezioni lì esposte perché frutto di spedizioni scientifiche che si inserivano nella politica coloniale britannica, come nel caso degli esemplari di uccelli raccolti da Charles Darwin durante la spedizione alle isole Galapagos (senza quella spedizione forse non ci sarebbe stata un’opera cardine della modernità come L’origine delle specie, ma ai contestatori questo non interessa e in effetti anche quell’idea di modernità è da loro messa in discussione perché eurocentrica). Entrambe le decisioni, quella dell’università scozzese e quella del museo londinese, sono state prese, secondo le dichiarazioni ufficiali, «sulla scia del movimento Black Lives Matter».
Per il momento – e bisogna forse interrogarsi su questa debolezza di reazioni propria del mondo anglosassone – sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna sembra cancellato un fatto banale ma decisivo (e tale dimenticanza è essa stessa il prodotto di una crisi della storia). E cioè che le proteste contro certe statue americane o contro certi filosofi europei tacciati di razzismo sono possibili in Stati la cui storia – nonostante le esperienze passate di violenza e discriminazione – ha pur sempre prodotto la democrazia moderna; altrove no.
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