(Estratto da Paradoxa 4/2021)
Un passo indietro lo si deve fare, non si scappa. Perché se il tema è l’impatto sulla forma partito di un parlamento ridotto nel numero, gioco forza conviene rammentarsi del perché si sia giunti a quel risultato in modo da valutare con più oggettività pure le conseguenze. Allora, intanto le date che hanno sempre il loro significato. Il referendum sulle «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari» si tiene il 20 e 21 settembre 2020. Vuol dire nel pieno della non lunghissima stagione del governo Conte II sostenuto da Movimento 5 Stelle, Pd, LeU e Italia Viva. Il dettaglio non paia pedante perché non lo è, nel senso che il compimento della riforma (o strappo) vede il Partito Democratico sostenere il Sì al quesito dopo averne bocciato per quattro volte il merito nei precedenti passaggi parlamentari. Ma all’atto della nascita della nuova maggioranza quel cambio di linea era stato posto sul tavolo come condizione a che la maggioranza stessa vedesse la luce. Tradotto: nei giorni caldi dell’estate del Papeete il bivio per il Nazareno era obbligato, o si appoggiava il taglio di un terzo della rappresentanza parlamentare oppure non restavano alternative al ricorso alle urne. Che poi da parte dei 5 Stelle quello fosse, almeno in parte, un bluff non saprei dire. Resta che i dubbi residui vennero superati con relativa facilità e ciò che sino a qualche mese prima era vissuto in casa democratica come un attentato alla Costituzione si trasformò in pedaggio da versare seppure corredato di qualche auspicato aggiustamento in corso d’opera.
Per i non moltissimi che in casa Pd mantenevano riserve e contrarietà (mi annovero nel numero) c’erano nodi che rimanevano irrisolti. Non si trattava solamente di quella sgradevole istantanea scattata mesi addietro dinanzi all’ingresso di Monte Citorio coi deputati grillini schierati in posa a reggere un gigantesco paio di forbici cartonate destinate a tagliare 345 «poltrone» (sic). Ora, anche senza alcuna perizia sartoriale, sappiamo tutti che forbici e rammendo non vanno d’accordo. Le prime tagliano, il secondo ricuce. Quella sceneggiata aveva chiaro il sapore della battaglia per come il movimento l’aveva intesa dal primo momento: l’ultimo colpo di coda nella campagna avversa a una casta della quale, per altro, erano da tempo entrati a far parte con titoli e relativi onori. Ma pure lasciando a margine le forbici e quel coté lì, pensavamo – ripeto, in pochi, almeno nei gruppi dirigenti – che l’operazione fosse sbilenca e contradditoria per più di un motivo. In primis per l’ammonimento che in molti lungo i decenni avevano rivolto – Mino Martinazzoli tra questi – a non ridurre il costituzionalismo democratico alla sola chiave della governabilità e tanto meno a una procedura necessariamente semplificata dal momento che era proprio l’irriducibile sua ‘complessità’ a dover ispirare i costituenti e successivamente i legislatori. L’interpretazione di questa premessa stava, e ritengo tuttora stia, nell’assunto secondo cui una rappresentanza ridotta non è solo tema di ‘numero’, ma di come il pluralismo che vive nella società si proietta nelle istituzioni. Sul punto, con maggiore dettaglio, era intervenuto in passato anche Gaetano Azzariti quando aveva ricordato come la Costituzione non mitizza un popolo generico, e non lo fa perché cuore della democrazia è il processo con cui si forma la volontà popolare e, da lì, il modo che traduce quella espressione in una volontà politica. Il ruolo delle istituzioni è rendere possibile la coesistenza di interessi diversi al fine di favorire una gestione mediata dei conflitti. Ora, alle spalle nostre c’erano e ci sono circa due secoli spesi per decidere che la sovranità appartiene al popolo, non a un Dio, alla tecnica o a una qualunque distinta autorità, salvo che poi la liquefazione dei partiti, una personalizzazione ossessiva, il primato dell’attività legislativa ricondotta in capo al governo, lo smarrirsi di un’etica collettiva, hanno alimentato una frattura profonda tra politica e società. Pensare, però, che da questo mezzo scempio sia derivato un qualche tipo di bene più che una forma di generoso ottimismo somiglia tanto a una colpevole rimozione.
Brevissimo inciso: l’articolo primo della Carta (certamente il più noto) recita che la sovranità «appartiene al popolo». Attorno al termine vi fu discussione, si posero alternative possibili del tipo «emana», «spetta», «è del», «risiede». La soluzione avanzata da Amintore Fanfani parve, infine, la più incisiva e riassuntiva e come tale è giusto rivendicarla anche oggi dinanzi alla carica non solo simbolica di un antiparlamentarismo che solo gli ultimi mesi paiono avere in parte spuntato. Ricordiamoci come Calamandrei chiosò l’esito del referendum del 2 giugno: un «miracolo della ragione», ecco prima o poi sarebbe doveroso interrogarsi su come si sia potuti arrivare a tollerare parole e azioni contrassegnate dal sentimento opposto. Tornando al merito, la riforma si fondava su un messaggio rozzo quanto esplicito: «tagliamo i costi», che poi erano i famosi 57 milioni di euro l’anno. Il punto è che le forbici, incassato il bonus di consenso e popolarità (doppio sic) lasciavano immutato tutto il resto: la staffetta di leggi e decreti tra Camera e Senato in primis, con due problemi in aggiunta. Che interi territori sarebbero potuti rimanere privi di una rappresentanza e che un Senato di duecento membri non sarebbe stato in grado di funzionare dovendo osservare i medesimi obblighi previsti in precedenza.
Per maggiore chiarezza: se, come è possibile – non auspicabile, ma possibile – la legge elettorale dovesse rimanere la stessa di ora è ragionevole pensare che avremo un parlamento nominato da una ventina di persone con meccanismi di selezione fondati sulla fedeltà al capo di turno. All’obiezione «ma è già così» la sola risposta da dare sarebbe stata: «allora cambiamo quello che si deve cambiare, ma non è una buona ragione per consolidare un sistema che ha dato pessima prova di sé». In sintesi, per passare poi al tema della forma partito, quel taglio netto proclamato da ultimo per via referendaria è destinato a rendere più efficiente la nostra democrazia? Personalmente la mia risposta era e rimane un secco No. Può rendere più veloce il lavoro del Parlamento? Idem. Ha il merito di avvicinare i cittadini alle istituzioni migliorando la qualità della rappresentanza? Lo stesso. Non un consuntivo del quale andar fieri, ma un esito di cui tener conto per valutarne le ricadute nel futuro prossimo.
Un’ultima parentesi forse è necessaria. Il tema non era la difesa teorica o ideologica del bicameralismo, soprattutto di quello in vigore da noi. Già De Gasperi era favorevole a due camere, ma pensava alla seconda come una assemblea rappresentativa del lavoro e delle professioni, influenza questa del corporativismo cattolico. Un’altra autorità, Costantino Mortati che guidò la Sottocommissione competente, favorì il bicameralismo spiegando che la seconda camera doveva assolvere ad alcune funzioni: ritardare la procedura legislativa (per riflettere sulle decisioni prese); integrare la rappresentanza con competenze specifiche (per questo si poteva anche prevedere una elezione indiretta così da intrecciare competenze professionali, la prima ipotesi di De Gasperi, e rappresentanze di Comuni e Regioni, al punto che nell’ottobre del 1946 l’Unità titolò «Le Regioni e i Comuni eleggeranno la seconda Camera»). Quindi nell’opporsi alla cesoia pentastellata non vi era nessun corporativismo o difesa pregiudiziale del modello esistente, ma se una riforma andava fatta sarebbe stato saggio farla poggiare su pilastri più solidi che un paio di forbici di cartone. Dicevamo all’inizio delle date e del loro valore di simbolo: bene, il 20 settembre è anche la ricorrenza di Porta Pia, ma nell’anno delle celebrazioni dantesche possiamo evocare la legge del contrappasso, nel senso che cancellare un terzo della rappresentanza senza i contrappesi dovuti è suonato come successo della divisione o disunità. Con l’aggravante di percentuali destinate a mutare il rapporto numerico: da 96 mila a 151 mila voti per eleggere un deputato: equivale al più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea. Ripeto, non un record da brindarci sopra.
Dicevamo anche come l’arte del rammendo sia il contrario di una sforbiciata, vale per il territorio e per la democrazia. Il punto, da anni e non da quello sgraziato referendum, è come impedire che la rappresentanza possa finire soppiantata dalla rappresentazione, tanto più dopo la tragedia della pandemia e il messaggio sul bisogno di una revisione del rapporto tra Stato centrale, Regioni e Comuni, almeno se vogliamo evitare in futuro i limiti emersi in questo anno e mezzo. E qui arriviamo al nodo attuale della partecipazione politica e delle priorità da aggredire se vogliamo rigenerarne motivazioni e prassi. Partiamo da un dato: si sono impiegati 32 anni (dal 1948 alle regionali del 1980) per scendere sotto al 90 per cento della partecipazione al voto. Poi dopo altri 32 anni esatti (dal 1980 al 2012: elezioni regionali siciliane) siamo scesi sotto al 50 per cento. Se guardiamo alle recentissime amministrative (ottobre 2021) l’astensionismo è ulteriormente cresciuto e proprio a ridosso di un exploit della partecipazione ‘digitale’ nella raccolta di firme sui referendum che riguardano l’eutanasia e la parziale liberalizzazione della cannabis. Ancora Gaetano Azzariti ha parlato al proposito di una democrazia sempre più im-mediata e sempre meno mediata dai tradizionali soggetti politici, i partiti.
E così arriviamo allo svincolo vero: per oltre vent’anni questo paese e la sua classe dirigente si sono accapigliati sul principio della governabilità con una rimozione: che senza rappresentanza effettiva i poteri costituiti perdono la legittimazione a governare in nome del popolo (e là si torna, all’articolo 1). Può darsi che per questa via si raggiunga il massimo della governabilità, ma forse il gioco non vale la candela perché nel segno dell’efficienza il pericolo enorme è di sacrificare la qualità della democrazia. Ora, proseguendo su questo sentiero, la democrazia a cosa serve? Una risposta, anch’essa spesso rimossa (pensiamo all’altra parola sgraziata di questi anni: disintermediazione), una risposta dicevo è che la democrazia serve a comporre i conflitti. Per capirci, nell’antichità si accettava l’idea che il conflitto potesse rimanere irrisolto, con l’età moderna si afferma invece l’idea che sia necessario dare in ogni caso ad essi una composizione. Come spiegano gli studiosi, e ancora attingo ad Azzariti, vi sono tre miti fondativi del diritto nelle tre grandi condanne che la storia ha proposto. Antigone (contro Creonte in un conflitto che non è risolvibile perché contrappone due diversi ordini, il diritto naturale e quello delle leggi scritte. Conflitto impossibile da condurre a sintesi poiché entrambi contemplano una quota di verità e di torto). C’è poi il processo a Socrate (dove il conflitto è irrisolvibile, ma in questo caso anche arreso, lo sconfitto è Socrate: condannato in un processo legale Socrate accetta la condanna che sa essere ingiusta. L’uomo socratico si piega alla superiorità della legge anche se iniqua). Infine il processo a Gesù (per lui la legge è ingiusta, ma perdona i responsabili perché «non sanno quel che fanno». L’appello di Ponzio Pilato non è previsto da alcuna norma processuale e dimostra che il potere costituito non è in grado di trovare la via per indicare la soluzione). Il processo a Gesù è la conferma che non bastano la partecipazione e il consenso per risolvere il conflitto, devono esistere dei presupposti e delle regole altrimenti l’appello al popolo può divenire l’anticamera dell’arbitrio della scelta. Nella modernità le cose cambiano. Con le Costituzioni il conflitto trova la sua soluzione nella convivenza all’interno degli ordinamenti. Si tende non tanto al loro superamento quanto alla loro coesistenza dentro una società plurale. Alle Costituzioni e alla rappresentanza è affidato il compito essenziale di tenere unite le diversità. Il punto è che le riforme costituzionali realizzate o bocciate in questi anni sono state giustificate dalla crisi economica o da motivi di efficienza dello Stato: non in nome dei diritti. Abbiamo costituzionalizzato la crisi piegando l’intero ordinamento alle esigenze della stabilità economica e ciò «ha generato una mutazione del ruolo del Parlamento che ha privato i suoi membri di una quota della loro funzione rappresentativa, riducendo la loro capacità di rappresentare il pluralismo e la divisione sociale in un luogo che dovrebbe portare il conflitto a una sintesi politica». Riprendo per l’ultima volta Azzariti quando spiega perché in Italia, nell’ultimo ventennio, nel vuoto della politica, si è pericolosamente oscillato tra due estremi: «una tecnica senza umanità o una politica senza pudore».
Una tecnica senza umanità o una politica senza pudore: il tema vive qui e la riforma o rifondazione di partiti dotati di solide identità e radicati nel tessuto sociale, economico, culturale, del paese diventa la questione decisiva se vogliamo contrastare una deriva o involuzione pericolosa della nostra democrazia. Volendo usare una sintesi, se una democrazia senza partiti (e lo abbiamo visto) fatica moltissimo a funzionare, una democrazia senza elettori semplicemente non può vivere. Il problema è che da un quarto di secolo l’argomento appare e scompare come i corsi d’acqua nelle cavità carsiche col risultato che abbiamo perso l’orientamento e fatichiamo terribilmente a capire dove il torrente nasce e dove è destinato a esaurire il suo flusso. Riavvolgere il nastro accantonando una volta e per sempre le false suggestioni di una democrazia senza soggetti, regole e conflitti, direi che diviene la condizione per non dichiararci sconfitti. E questo tempo faticoso e doloroso della pandemia, per vie traverse ma non indecifrabili, ci può aiutare a compiere quella fatica che troppo a lungo abbiamo rinviato. Insomma, ripensare il sistema politico per l’Italia del dopo: non dico sia semplice. Dico solo che oggi è necessario.