(estratto da Paradoxa 3/2013)
C’era una volta… Grillo e il suo fantasioso quanto effimero movimento pentastellare. Il mondo politico, gli intellettuali dei salotti «politically correct», giornalisti, imprenditori, sindacalisti e quanti altri avevano assistito con sgomento alla clamorosa affermazione elettorale di un partito nato e cresciuto in internet, hanno tirato un sospiro di sollievo quando gli esiti delle elezioni amministrative hanno mostrato un evidente riflusso di un’ondata che si era in gran parte alimentata dell’indignazione diffusa e profonda nei confronti di una classe dirigente del Paese apparsa ai più inadeguata, corrotta, insensibile e arroccata nei propri privilegi.
Le difficoltà di un movimento cresciuto al di là delle sue stesse aspettative, privo di riferimenti ideologici condivisi, unito soltanto da un sentimento irrazionale di adesione a una protesta gridata secondo modalità che (non a caso) appartengono più allo spettacolo che alla politica, sono apparse evidenti anche agli osservatori meno prevenuti non appena esso ha dovuto confrontarsi con scelte di governo che avrebbero richiesto livelli ben diversi di maturità e di esperienza.
Ma non è di questo che vogliamo parlare, e men che meno degli esiti politici che il movimento di Grillo contribuirà, volente o nolente, a determinare in uno dei momenti più accidentati della storia del nostro Paese; dal punto di vista dei contenuti, infatti, esso non è diverso dai tanti partiti populisti nati, cresciuti (e spesso defunti) raccogliendo le ondivaghe maree della protesta e che hanno costellato sin dalle origini la storia repubblicana. Non nuova è anche la dimensione «riduzionista» che anima alcuni fondatori del movimento: la decrescita «felice» di Latouche, l’avversione ad opere pubbliche non strettamente necessarie a una vita quotidiana sobria e contenuta, un ecologismo integralista, con qualche tentazione autarchica e una forte diffidenza per i fenomeni di globalizzazione. L’originalità del Movimento Cinque Stelle risiede altrove, e precisamente nello strumento utilizzato – internet – e nelle estensioni che esso teoricamente consente, fino a mettere in discussione i sistemi di rappresentanza codificati nelle esperienze democratiche occidentali. Lo strumento dunque, in questo caso, non è visto soltanto come una modalità di raccolta del consenso in grado di saltare le tradizionali mediazioni partitiche (come avvenne per le televisioni di Berlusconi), ma anche come un nuovo modo di esercitare la democrazia dal basso attraverso un rapporto permanente di dipendenza degli eletti dai loro elettori. Non si tratta dunque semplicemente dell’emersione di una realtà viscerale che il mondo politico tradizionale aveva sottovalutato, ma anche di una nuova procedura di comunicazione politica di cui è importante comprendere l’effettiva consistenza.
Inutile nascondere, per chi – come me e molti altri autori dei testi raccolti in questo numero di «Paradoxa» – proviene da una formazione culturale liberale, che il problema ha una valenza fondamentale per il mantenimento non soltanto di una qualsiasi forma di organizzazione politica democratica, ma in particolare di quella sua specifica espressione che si definisce come una democrazia liberale, dove la regola della maggioranza è subordinata alla rigorosa tutela dei diritti e dei doveri dei cittadini. Un problema che ha un peculiare rilievo in un Paese come il nostro in cui la cultura liberale, da tutti proclamata necessaria e da pochi realmente praticata, stenta ad affermarsi. La domanda è: il trasferimento in rete di una comunicazione politica che si è fino ad oggi espressa attraverso altri mezzi comporta potenzialità di crescita della cultura liberale o, al contrario, contiene rischi che potrebbero farla regredire?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzi tutto chiarire ai lettori e a noi stessi di cosa stiamo parlando, quali sono le caratteristiche di questi nuovi strumenti di comunicazione, quali le loro modalità d’uso, come si rapportano a quelli che la storia ci ha tramandato, consapevoli che anche nel mondo della comunicazione nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Soltanto così saremo in grado di comprendere, nei limiti del possibile, quali potrebbero essere i loro eventuali sviluppi e in qual misura essi sono in grado di allargare la sfera delle libertà individuali, o, al contrario, rischiano di aprire la strada a derive sostanzialmente autoritarie.
Cittadini, potere e comunicazione hanno da sempre rappresentato le tre punte dell’eterno triangolo entro il quale si sono realizzate le infinite variabili della storia; ognuna di esse ha bisogno delle altre e non hanno potuto mai prescinderne neanche i poteri militari e religiosi che nei secoli hanno preteso di affermarsi sulla base di concezioni assolute e incontestabili. Le grandi rivoluzioni, da quelle democratiche dell’antica Grecia fino alla Riforma protestante e alle rivoluzioni francese ed americana, passano attraverso la comunicazione nelle sue diverse espressioni, ed è per questo che, almeno dall’invenzione della stampa in poi, la partita per il controllo popolare si gioca essenzialmente sui mezzi di informazione. Ogni nuovo strumento di comunicazione che si affaccia alla ribalta ripropone la questione determinando nuovi equilibri all’interno dell’eterno triangolo. Oggi la politica, cioè il governo dei cittadini, deve fare i conti con internet nella consapevolezza che esso rappresenta un cambiamento radicale nella storia della comunicazione che rimette in discussione – nel bene e nel male – il principio della libertà di espressione iscritto nei fondamenti delle costituzioni moderne.
La comunicazione in rete internet si distingue dai mass-media che l’hanno preceduta per la sua interattività circolare (come il telefono, ma con collegamenti plurimi e contestuali) e per la sua globalità (come la radio, ma con la possibilità di trasmettere ovunque non soltanto suoni ma anche ogni genere di documenti e immagini) comprendendo e mescolando informazioni negli ambiti più diversi e superando vecchie separazioni che apparivano infrangibili. La vera «potenza» di internet – soprattutto nella versione 2.0 – consiste in realtà nella sua capacità di interagire tra tutti e con ogni mezzo di comunicazione esistente, trasformandosi così in un poderoso strumento di servizio perfettamente coerente con una società mobile e complessa come quella contemporanea. Internet quindi – come tutti i mezzi di comunicazione che lo hanno preceduto – è per se stesso neutrale; la sua incidenza sociale e politica dipende da come viene usato. La rete non rappresenta la dimostrazione della famosa asserzione di Mc Luhan che «il medium è il messaggio» e nemmeno la realizzazione del «grande fratello» di Orwell. Tutt’al più si tratta di una sua cugina invadente che gioca con l’accendino. Ma anche l’accendino – come dimostra il caso italiano – può diventare un’arma pericolosa se la fiamma intercetta una nuvola di gas provocando un incendio di grandi dimensioni. E la nuvola di gas, a sua volta, può essere prodotta dal cattivo funzionamento di un impianto, come avviene per le nostre democrazie che non sembrano più in grado di interpretare i cambiamenti che si verificano nella società. Dobbiamo sequestrare gli accendini o non piuttosto mettere a punto l’impianto per ridurne le emissioni inquinanti ?
Tra le tante ragioni che in passato hanno limitato in Italia la partecipazione politica attiva, la mancanza di conoscenze adeguate ha rappresentato un handicap solo parzialmente colmato dalla sconfitta dell’analfabetismo e dall’accresciuta scolarizzazione ad ogni livello; nel nostro Paese infatti, malgrado gli indubbi miglioramenti avvenuti soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, si deve riscontrare un divario ancora notevole rispetto ai livelli di partecipazione consapevole esistenti negli altri paesi occidentali coi quali normalmente ci raffrontiamo. Non a caso i mezzi di comunicazione di massa (e in particolare la televisione) hanno rappresentato da noi un veicolo di diffusione delle conoscenze assai più influente di altri a ciò deputati istituzionalmente, come per esempio la scuola. Ma internet non è una semplice estensione interattiva dei precedenti mass-media, se non per il fatto che, come ogni mezzo che aumenta le opportunità di conoscenza, esso costituisce un ulteriore strumento a disposizione di chi voglia apprendere i più diversi aspetti della vita; la rete è, almeno in linea di principio, un mezzo straordinario di partecipazione (intesa anche come scambio di opinioni) che allarga ad ampi settori della società la possibilità di entrare consapevolmente nel dibattito sulle scelte politiche. Mai in passato un così grande numero di individui ha avuto tante opportunità di accedere (per lo più gratuitamente) alle più svariate informazioni e di trovarsi nella condizione di costruirsi una propria opinione.
Ma «costruirsi una propria opinione» e poterla immediatamente trasformare in una decisione politica servendosi della tecnologia interattiva, sono cose diverse. Una decisione politica non deve riflettere la volontà contingente di una maggioranza frettolosamente registrata secondo modalità e priorità stabilite da pochi «guru» della comunicazione, ma piuttosto rappresentare il risultato di un confronto dialettico che tenga conto di tutte le conseguenze presenti e future che quella decisione comporta; per questo il vincolo di mandato, salvo casi eccezionali, non è compatibile con la teoria e soprattutto con la prassi del «buon governo», proprio perché esso costringe i rappresentanti a difendere rigidamente la volontà dei rappresentati anche quando valide ragioni richiederebbero soluzioni diverse. A queste obiezioni i difensori dell’e-democracy replicano che il confronto dialettico può avvenire in rete e che nulla impedisce alle diverse opinioni di trasformarsi in «partiti» liquidi che si esprimano e dibattano attraverso i loro computer. Ma, a prescindere dalle numerose contro-indicazioni (digital-divide, rischi di manipolazione, problemi di privacy, frammentazioni corporative, ecc.), confrontarsi attraverso i mezzi di comunicazione (qualunque essi siano) non è la stessa cosa che discutere guardandosi in faccia; lo constatiamo anche nella nostra vita di ogni giorno. Conosciamo bene gli esiti perniciosi dell’assemblearismo dove il dissenso è escluso e criminalizzato, dove pochi demagoghi riescono facilmente ad imporre la direzione di marcia del «movimento» senza tenere in alcun conto le ragioni di possibili alternative; lo abbiamo imparato nel ’68 e il fatto che l’esperimento venga ripetuto attraverso la rete non cambia molto la sostanza della prevaricazione. Soltanto le assemblee elettive, costituite e funzionanti in base a regole certe e trasparenti in grado di garantire la loro effettiva rappresentatività, consentono un corretto confronto tra opinioni differenti obbligando i deputati a motivare in maniera approfondita le proprie convinzioni e le relative proposte legislative; e in questo ambito «ragionevole» è spesso necessario mantenere una riservatezza che non funge da copertura per gli «arcana imperii», ma serve invece a proteggere eventuali soluzioni condivise dalla pressione di minoranze settarie e integraliste per le quali ogni compromesso viene respinto come un «inciucio», con tale espressione sottintendendo inquietanti comportamenti corruttivi. Naturalmente tanto più una classe dirigente è credibile, tanto meno questi sentimenti di rancore, irrazionali ma tenaci, riescono a coagulare consensi significativi; ma quello della formazione di una dirigenza politica affidabile e competente è un altro problema che certo non si risolve con gli inseguimenti demagogici sulla rete.
Al di là degli aspetti squisitamente politici che inducono alla cautela nell’uso di internet, altri motivi di perplessità riguardano la qualità delle informazioni che transitano attraverso uno strumento che consente a chiunque di inserire in rete contenuti non controllabili eludendo il principio di responsabilità e provocando danni collaterali di ogni genere. Il fenomeno è antico: immettere informazioni arbitrarie e non verificabili nei circuiti di comunicazione, contando sugli effetti di ricaduta del tam-tam mediatico, è una tecnica ben nota a chi vuol confondere le idee, ben sapendo che purtroppo non ci sarà smentita in grado di annullarne gli esiti perversi. Se l’inaffidabilità delle informazioni in rete si associa all’idea di trasferire su di essa i processi decisionali ed elettorali, sostituendo le attuali procedure costituzionali e completando un percorso di evoluzione verso la democrazia diretta già visibile nel moltiplicarsi dei sondaggi e dei referendum, la concezione tradizionale della democrazia liberale ne resta inevitabilmente travolta: a questo obiettivo, non a caso, puntano i movimenti populisti di tutta Europa e naturalmente anche quello di Grillo e Casaleggio.
I sostenitori dell’e-democracy sono convinti che la comunicazione attraverso internet possa riuscire a colmare la disaffezione per la politica resa evidente dalla scarsa partecipazione elettorale; ma è davvero così? La diffusione dei computer (che ha raggiunto anche in Italia quote paragonabili al resto d’Europa) ha poco a che vedere con la fruizione di internet e soprattutto con la sua utilizzazione per finalità politiche. Non esistono dati precisi, ma le indagini effettuate nel nostro Paese sembrano dimostrare che, depurato dagli usi pornografici e di visione degli eventi sportivi, internet «politico» rappresenta una quota di partecipazione assai più bassa dei frequentatori dei «salotti» televisivi e dei lettori di giornali (comprendendo naturalmente le loro versioni elettroniche); i frequentatori della rete politicamente motivati rappresentano in realtà un campione poco significativo (anche al netto delle possibili manipolazioni) e molto squilibrato per fasce di età e provenienze sociali. A meno che non si voglia includere in questo mondo variegato gli utilizzatori dei social-network, mezzi che, per loro natura, si prestano soprattutto al lancio di slogan e di immagini le quali, per emergere sulla quantità smisurata dell’offerta, devono caratterizzarsi per contenuti in qualche modo «scioccanti». Ma, al di là della loro capacità di mobilitazione in tempo reale (indifferentemente impiegata per organizzare «rave party» o manifestazioni politiche) si tratta di messaggi che a migliaia possono essere immessi in rete da chiunque e in numero illimitato; conteranno di fatto quei pochi che verranno rilanciati dai mezzi di comunicazione più tradizionali.
La complessità del mondo contemporaneo e i processi di globalizzazione richiedono capacità decisionali che non si prestano a facili semplificazioni, anche a costo di fronteggiare inevitabili momenti di impopolarità. Una comunicazione politica banalizzata elude i necessari approfondimenti e finisce per coincidere con un mandato in bianco nei confronti di pochi manipolatori incontrollabili; in tal caso la trasparenza di internet, tanto vantata dai suoi sostenitori, finirebbe per rappresentare un comodo paravento dietro al quale alcune migliaia di adepti indirizzati da uno o pochi leader operano scelte sostanzialmente insindacabili. Non più un partito ma una setta con la quale appare difficile stabilire un confronto non demagogico sui reali problemi della società. Tanto più se si considera che il cosiddetto «popolo della rete» è tutt’altro che rappresentativo della complessa realtà sociale; per navigare con continuità nel mare di internet, sfruttandone le potenzialità interattive in tempo reale, occorre avere molto tempo disponibile, il che non è possibile per la grande maggioranza delle persone. Per questo, come hanno messo in rilievo ricerche recenti, gli effetti dirompenti dei social network – soprattutto twitter – sulle rivoluzioni multicolori enfatizzate dai mass media sono più limitati di quanto è stato affermato; per contare davvero occorre che i loro contenuti vengano rilanciati dai mezzi tradizionali innescando un dibattito che a cascata ricade sulla rete, coinvolgendo quella minoranza che la frequenta in maniera continuativa. Ma chi decide quale sarà il messaggio da preferire e da diffondere?
Dove invece internet ha già svolto un ruolo positivo è nella sua capacità di denunciare realtà che talvolta i mezzi di informazione tradizionali ignorano o comunque tacciono per ragioni di opportunità politica; non vi è luogo o circostanza dove un semplice telefono cellulare non possa documentare fatti e avvenimenti che sarebbero altrimenti sconosciuti (e talvolta censurati). In questa funzione va riconosciuto alle nuove tecnologie interattive un ruolo di vigilanza democratica che si innesta a pieno titolo nei diritti civili e nella funzione di controllo sul potere che caratterizzano uno stato liberale.
Ma – ripeto – essere validi strumenti di informazione e di conoscenza e proporsi come sistema di governo diretto sono cose diverse; accettabile la prima, pericolosa la seconda. Il fatto che questi primi tentativi della cosiddetta democrazia diretta rivestano ancora oggi un’importanza tutto sommato minore di quanto certi allarmi facessero pensare non significa che il fenomeno non possa domani assumere un rilievo più significativo, ed è per questo che esso va attentamente monitorato per evitare che le scelte politiche siano condizionate in futuro, più di quanto già oggi non avvenga, da emozioni momentanee e da suggestioni irrazionali. Le rivoluzioni storiche si sono sempre espresse nell’obiettivo di conquistare il «palazzo»; quando un regime è debole la resistenza può diventare impossibile e i portoni si spalancano inesorabilmente alla moltitudine che finalmente ritiene di avere così concretizzato l’aspirazione a un governo democratico. Internet rappresenta per molti l’ariete che ha sfondato i cancelli che proteggevano il potere. Ma i problemi vengono dopo, quando i conquistatori si aggirano sperduti nel palazzo non sapendo cosa fare e al tempo stesso rendendosi conto di quanto complessa e difficilmente governabile sia quella «stanza dei bottoni» già evocata da Pietro Nenni tanti anni fa al sorgere della storica alleanza tra socialisti e democristiani; finisce sempre che i nuovi arrivati si affidano a qualche transfuga della vecchia classe dominante, e non sempre la scelta si dimostra migliore di quella che è stata sanguinosamente abbattuta.
In conclusione: la democrazia liberale è fondata su un equilibrio complesso costruito in tre secoli di elaborazioni filosofiche ma soprattutto di esperienze nel governo delle nazioni. Un equilibrio fragile che richiede costanti aggiornamenti per continuare a svolgere il suo compito di assicurare il massimo di libertà in un contesto di giustizia sociale e di stabilità politica. Con ogni nuovo mezzo di comunicazione che la tecnologia ha prodotto, a cominciare dalla stampa, il sistema liberal-democratico ha dovuto confrontarsi per l’evidente importanza che la comunicazione riveste nel difficile rapporto che regola il consenso dei cittadini nei confronti di chi li governa; lo stato liberale si fonda sull’equilibrio tra i poteri e sul controllo di ogni potere, e non vi è dubbio che i mass-media svolgano in tale contesto un ruolo determinante. L’irruzione di internet ripropone – naturalmente in termini diversi – gli stessi problemi di sempre: utilizzare il nuovo mezzo per accrescere gli spazi di informazione (e quindi di autonomia) dei cittadini, ma nel contempo evitare che un suo impiego inappropriato alteri i complessi equilibri che caratterizzano i processi decisionali in una democrazia matura. Il rischio del populismo, delle decisioni affrettate e dettate da emozioni momentanee, della enfatizzazione mediatica motivata spesso da interessi poco trasparenti, è sempre in agguato. Internet si presenta alla ribalta del nuovo secolo con l’aspetto accattivante dell’interattività e la tentazione dello «short–cut», cioè della scorciatoia che semplifica la complessità della politica; ma nasconde «l’altra faccia della medaglia» piena di insidie che in qualche misura abbiamo cercato in questa sede di mettere in luce.
Il percorso che abbiamo individuato per approfondire il tema tiene conto dei diversi aspetti del problema, da quelli più propriamente tecnologici ad altri in cui ne vengono analizzate le prospettive dal punto di vista giuridico e costituzionale. Abbiamo dato voce ad esperienze diverse e ad opinioni contrastanti anche per indicare la via del confronto senza pregiudiziali come la sola che può consentire un utilizzo ottimale e «liberale» di questi nuovi strumenti interattivi che ci affascinano ma di cui intuiamo i potenziali pericoli. La partecipazione non può e non deve essere scambiata con una contrapposizione tra tifoserie fanatiche e irrazionali; essa si origina dal dialogo, secondo la tradizione che ci proviene dall’antica Grecia. Se internet sarà in grado di riproporre a un pubblico smisuratamente più grande quelle opportunità di dialogo e di competizione che furono presenti – anche scontrandosi – nell’agorà, esso potrà rappresentare uno strumento formidabile di diffusione del modello politico maturato nella tradizione occidentale, in cui la democrazia si associa alla tutela infrangibile dei diritti individuali; se invece, come già accadde duemila e cinquecento anni fa, si trasformerà in un veicolo di demagogia inarrestabile, le conseguenze potrebbero essere terribili. La domanda è: saranno le future generazioni in grado di servirsi della rete per fare una buona pesca senza restarne impigliati?