(estratto da Paradoxa 3/2019)
1. La quarta notizia
Da qualche tempo a questa parte le edizioni annuali di Freedom in the World, pubblicate dalla Freedom House, sono diventate un ricettacolo di pessime notizie. L’ultimo Report – intitolato Democracy in Retreat (2019) – riferisce che ormai da tredici anni consecutivi sarebbe in atto, su scala planetaria, un allarmante declino dei diritti politici e delle libertà civili. A inaugurarlo sarebbe stata nel 2004 la virata autoritaria della Russia di Putin, declassata allora da paese «partly free» a «not free», con un rating molto simile a quello della vecchia Unione Sovietica. Da quel momento, con la fugace parentesi delle «primavere arabe», il trend sarebbe stato semplicemente inarrestabile e avrebbe prodotto tre effetti di carattere più generale: un costante rafforzamento dei regimi autoritari, la crisi di molte democrazie di recente formazione e un netto indebolimento delle stesse liberaldemocrazie di più antica storia, assediate da una montante marea populista che avrebbe investito l’Europa e gli stessi Stati Uniti. A peggiorare il quadro, ci sarebbe ancora un rilevante spostamento della bilancia del potere mondiale da Occidente a Oriente, che starebbe mettendo in discussione l’egemonia dei paesi tradizionalmente «free», Usa in testa, a vantaggio soprattutto della Cina, un colossale e sempre più potente paese «not free». La democrazia liberale – questa la conclusione del Report – starebbe dunque battendo «in ritirata». Sarebbe cioè in pieno «riflusso» dopo i robusti processi di democratizzazione del tardo XX secolo. Il punto è reso in modo molto chiaro – e anzi decisamente rafforzato – dalla simpatica, ma preoccupante vignetta che introduce il testo del rapporto. Vi si vede un gigantesco rogo con la parola «Freedom» avvolta dalle fiamme e tutt’attorno svariati personaggi che lo alimentano con benzina, torce, ventagli e mantici. Sono il re saudita Salman (ovviamente con la benzina), Vladimir Putin, Recep Erdoğan, Xi Jinping, Nicolás Maduro, la birmana Aung San Suu Kyi, Ali Khamenei e Viktor Orbán. Staccato da tutti gli altri, Donald Trump nell’atto di appiccare il fuoco.
Nei suoi singoli passaggi, il Report della Freedom House non ci dice in verità niente di particolarmente nuovo. Sappiamo da tempo che molti regimi autoritari continuano a consolidarsi, in alcuni casi con prestazioni straordinarie sul piano dello sviluppo economico. Sappiamo altrettanto bene che le giovani democrazie vacillano paurosamente sotto la spinta di molteplici pressioni esterne e interne, e non certo da ieri. Sappiamo poi benissimo, da svariati decenni, che le long-standing democracies versano in una crisi sempre più grave, che le loro prestazioni sono vieppiù deludenti e che la loro legittimità si sta erodendo in misura crescente. Lo attestano fatti ben noti e una letteratura ormai straripante sul declino, il disagio, la fine, la morte della democrazia o – il che è lo stesso – sulla sua ormai compiuta trasfigurazione in postdemocrazia.
Messe assieme, tuttavia, queste tre sgradevoli notizie ne suggeriscono una quarta, assai peggiore, che il Report non si spinge a formulare. Suggeriscono cioè che sia l’idea stessa di democrazia liberale a essere strutturalmente in crisi a tutte le latitudini. Esattamente trent’anni fa, nell’estate del 1989, Francis Fukuyama aveva scritto che quell’idea era ormai senza rivali, immaginando quindi che la democrazia liberale – insieme alla sua sorella gemella, l’economia di mercato – si sarebbe prima o poi universalizzata come «la forma finale del governo degli uomini», passando così dal «regno della coscienza» (dove la storia era ormai «finita») al mondo «reale» (dove invece essa continuava turbinosamente). Oggi, invece, quell’idea ha perso ogni appeal. È guardata con garbata sufficienza dai dirigenti della Repubblica popolare cinese, che hanno ben altro a cui pensare. È apertamente sbeffeggiata da Vladimir Putin. È disprezzata a Teheran e Riad. È sempre più schiacciata dalle direttive e dai regolamenti dei tecno-burocrati dell’Unione europea. Ed è soprattutto calpestata quotidianamente – in nome del popolo, della gente, dell’ethnos o dei diseredati – da una legione crescente di populisti di ogni sorta, che vi contrappongono la democrazia tout court, la «vera democrazia» senza ulteriori aggettivi, il governo del popolo, riscuotendo ampi consensi. Come se non bastasse, tra le sue stesse mura domestiche si restringe la cerchia di coloro che la ritengono ancora la forma migliore o meno peggiore di governo. E all’interno di quella cerchia va crescendo il numero di quanti considerano ormai la sua difesa come una inutile e patetica battaglia di retroguardia.
Il risultato è che oggi, su scala globale, sono i regimi autoritari e semi-autoritari – autocratici, oligarchici, populisti, democratico-illiberali, tecnocratici, e talora addirittura teocratici – a essere in espansione, a esibire una salda e sfacciata fiducia in se stessi e a godere di un crescente appeal. Forse sono assai meno solidi di quanto non appaia e sicuramente non si stanno «universalizzando», anche perché probabilmente non esiste nulla di universale. Tuttavia, la sfida che essi lanciano alle vecchie e stanche democrazie liberali, anche sul piano ideale, è davvero poderosa. Lo aveva già segnalato molti anni fa Fareed Zakaria, parlando dell’energia in crescita delle «democrazie illiberali» in un articolo pubblicato su «Foreign Affairs» nel 1997 e poi in un fortunato libro uscito nel 2003. Lo ha ribadito più di recente Edward Luce in un volume sul «tramonto del liberalismo occidentale» (2017). E lo ha ripetuto con toni ancora più apocalittici Gideon Rose nell’editoriale dell’ultimo numero di «Foreign Affairs» (September/October 2019), affermando che saremmo ormai ritornati, come negli anni Venti e Trenta del Novecento, all’«epoca dei dittatori». Argomenti di questo genere ormai dilagano. Forse perché, questa volta, la democrazia liberale qualche potente rivale lo ha trovato per davvero e la storia è finalmente «ritornata dalle vacanze».
Nelle pagine che seguono proverò a riflettere su alcune delle cause e degli effetti di questa evoluzione. Prima, però, vorrei darne un quadro almeno relativamente più preciso, tornando ai dati e ai numeri della Freedom House – la «guida Michelin allo sviluppo della democrazia», come l’aveva definita Fukuyama al principio degli anni Novanta. Un rapido sguardo al passato ci consentirà di fare anche qualche veloce comparazione.
2. Tre istantanee: 1973, 1991, oggi
È noto ormai da tempo che tra la metà degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta il numero dei regimi autoritari ha conosciuto una significativa flessione su scala globale. Nel 1973, un anno prima della «rivoluzione dei garofani» in Portogallo, i paesi «not free», come li classifica la Freedom House, costituivano il 43% degli Stati del pianeta. Diciotto anni più tardi, nel 1991, l’anno della dissoluzione dell’URSS, si erano ridotti al 23%. Contemporaneamente era andato crescendo il numero dei paesi semi-liberi e soprattutto di quelli liberi o democratico-liberali, i «partly free» e i «free» sempre nel lessico della Freedom House. I primi erano passati dal 28% al 35%. I secondi, assai più decisamente, dal 29% al 42%: da 44 su 151 nel 1973 erano diventati 76 su 183 nel 1991, superando nettamente il numero dei paesi «partly free» (65) e di quelli «not free» (42), anche se non la loro somma. Dell’intera popolazione mondiale (5 miliardi e 300 milioni di persone) circa il 39% viveva ormai in paesi «free», il 28% in paesi «partly free» e poco meno del 33% in paesi «not free». Nel 1973, con una popolazione mondiale di circa 3 miliardi e 300 milioni, le percentuali erano molto diverse: rispettivamente il 32%, il 21% e il 47%.
Questi dati grezzi rimangono naturalmente molto impressionistici. Basti solo pensare che nel conteggio degli Stati – faccio riferimento ai dati del 1991 – le isole Tuvalu («free») con i loro 9.000 abitanti e le isole Tonga («partly free») con i loro 100.000 «pesano» esattamente come la Cina («not free») col suo miliardo e 150 milioni di allora e la sua capacità di esercitare influenza. Anche il riferimento alla world population può trarre in inganno. È senz’altro suggestivo anno per anno, come fermo immagine. Può però confondere quando i fotogrammi vengono messi in movimento per individuare una qualche linea di tendenza. È infatti sufficiente che un paese venga riclassificato in una diversa categoria – come avviene ad esempio tra il 1991 e il 1992 per l’India con i suoi allora 800 milioni di abitanti – perché si alteri immediatamente qualsiasi visione di insieme.
Le trappole dei numeri sono molteplici. Eppure, non possono esservi dubbi sul fatto che tra la metà degli anni Settanta e i primi Novanta abbia avuto luogo un rilevantissimo «movimento globale verso la democrazia» e la «liberalizzazione» di molti regimi autoritari. Lo ha mostrato Samuel P. Huntington nell’ormai classico La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo (1991), facendo riferimento proprio ai dati della Freedom House. Quel movimento, in effetti, aveva investito l’Europa meridionale, l’America latina, l’Asia, molti paesi ex coloniali, e da ultimo il mondo comunista. E aveva trascinato nel suo vortice Stati di prim’ordine e talora influentissimi. Tra questi la stessa Unione Sovietica, peraltro ancora in piedi quando Huntington licenziò il suo libro al principio del 1991. Esso, insomma, aveva dato luogo a una reale, compatta e travolgente «ondata» di transizioni alla democrazia.
Cosa è accaduto dopo di allora, nei quasi trent’anni successivi al glorioso triennio 1989-1991? E qual è la situazione attuale? In estrema sintesi, si può dire che per circa un decennio, fino al principio del nuovo millennio, la terza ondata si è poco per volta fermata e che, da allora, le cose hanno iniziato a peggiorare e per molti aspetti a precipitare.
Se si fa riferimento all’edizione 2018 di Freedom in the World – l’ultima che riporta per il momento dati aggregati, ovviamente relativi al 2017 – i numeri, con le loro trappole, non sono, almeno a prima vista, del tutto sconfortanti. Rispetto al 1991, infatti, a crescere in misura maggiore sono stati proprio i paesi «free» (12 unità in più: da 76 a 88). Sono però aumentati contemporaneamente, anche se in misura minore, i paesi «not free» (7 unità in più: da 42 a 49). Sono invece diminuiti i paesi «partly free» (7 unità in meno: da 65 a 58). Poiché tuttavia nel frattempo è cresciuto anche il numero complessivo degli Stati (da 183 a 195), il calcolo è più preciso se guardiamo le cose in percentuale. Da questo punto vista, i paesi «free» sono passati dal 42% al 45% del totale, i «partly free» dal 35% al 30%, e i «not free» dal 23% al 25%.
Fino a qui non sembrerebbe una catastrofe, anzi. La scena cambia, però, se cominciamo a osservare il fotogramma della world population, passata nel frattempo dai 5 miliardi e 300 milioni del 1991 ai 7 miliardi e mezzo nel 2017. In questa prospettiva, l’unico dato davvero in crescita è quello delle persone che vivono in regimi «not free», passate dal 33% del 1991 al 37% del 2017. È invece rimasta ferma al 39% la percentuale di popolazione mondiale che vive in paesi «free», mentre è diminuita dal 28% al 24% quella delle persone «partly free».
Il bilancio non è dunque propriamente esaltante. Ma peggiora ulteriormente se proviamo a spostarci dal quadro generalissimo ad alcuni dei molti altri dati presi in esame dai Freedom in the World, poderosi volumi di centinaia e centinaia di pagine che non si esauriscono certo in una mappa a tre colori e in una manciata di grafici e tabelle. Mi limito a segnalarne quattro, su cui insiste il già citato Report del 2019, che anticipa i risultati più generali del ben più ampio Survey 2019 della Freedom House, ormai di prossima pubblicazione.
Il primo dato, cui ho già fatto cenno, riguarda il carattere durevole e al contempo globale del declino dei diritti politici e delle libertà civili. Esso continuerebbe ormai senza interruzioni dal 2004-2005 e avrebbe investito tutte le regioni del pianeta, con un bilancio di losses and gains decisamente a favore dei primi.
Entro questo quadro più generale – è il secondo dato – i numeri della Freedom House mostrano che il durevole declino dei diritti politici e delle libertà civili non riguarda soltanto le democrazie liberali, ma anche gli stessi regimi «not free» quali la Cina e la Russia e quelli «partly free» come la Turchia, declassata infatti a «not free» nel 2018. La notizia è dunque che le democrazie liberali starebbero diventando sempre meno democratiche e liberali proprio mentre i regimi autoritari e semi-autoritari diventano più autoritari, allargando al contempo la propria presa sul pianeta. Naturalmente, è sempre possibile che le cose cambino, anche in modo improvviso. È tuttavia assai probabile – stando agli indicatori oggi disponibili – che nel prossimo futuro siano le democrazie, piuttosto che i regimi autoritari, a perdere ulteriori colpi.
Il terzo dato è che l’erosione dei diritti politici e delle libertà civili starebbe intaccando le democrazie di più recente istituzione, quelle sorte durante la terza ondata. In questo caso, «riflusso» è la parola giusta. Il fenomeno sarebbe particolarmente evidente nell’Europa centro-orientale: non solo in Ungheria, che nel 2019 è stata declassata da «free» a «partly free», ma anche in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Bulgaria. Almeno per ora questi paesi, che tra il 2004 e il 2007, insieme all’Ungheria, sono entrati a far parte dell’Unione Europea, rimangono «free». E tuttavia i loro aggregate scores – che la Freedom House calcola in una scala compresa tra 100 («most free») e 0 («least free»), per intenderci: tra la Svezia e la Siria – sono andati sensibilmente calando negli ultimi cinque anni: da 93 a 84 per la Polonia, da 95 a 91 per la Repubblica Ceca, da 90 a 88 per la Slovacchia, da 83 a 81 per la Romania. Solo in Bulgaria quell’indicatore è cresciuto di un punto, da 79 a 80. Si tratta però, tolta l’Ungheria (passata da 82 a 70 punti), del paese con il rating più basso dell’intera regione. Almeno se non mettiamo nel conto la Serbia, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, il Kosovo, l’Albania e la Macedonia, tutti paesi «partly free», che insieme all’Ucraina, alla Moldavia e alla stessa Ungheria formano una specie di mezzaluna gialla (il colore dei «semi-liberi») che dalla Russia si insinua nel cuore dell’Europa orientale e balcanica. Se associamo questi numeri a nomi e cose – gruppo di Visegrád, Viktor Orbán, Jarosław Kaczyński, etc. – le cose suonano molto più chiare.
Le difficoltà delle giovani democrazie sono ben comprensibili. La mancanza di solide radici le rende strutturalmente più fragili ed esposte a svariate oscillazioni, soprattutto quando sopravvengono tempi duri – guerre, crisi economiche, emergenze migratorie – che di regola non giocano a favore delle sofisticate e delicatissime pratiche della democrazia liberale. Il fatto preoccupante però – ed è il quarto dato – è che si aggira intorno agli stessi livelli la progressiva erosione delle istituzioni democratiche negli Stati Uniti e in Europa centro-occidentale. Negli Usa in particolare, tra il 2015 e il 2019, la Freedom House registra un calo di ben 6 punti aggregati: da 92 a 86, che è lo stesso valore del Belize. Nella classifica dei paesi «free», dunque, essi si collocherebbero ormai in quindicesima posizione, dopo una cinquantina circa di Stati: con un solo punto in più della Mongolia (85), e a diverse lunghezze sotto paesi quali – per citarne solo qualcuno che non ho sin qui richiamato – il Canada (99), l’Uruguay e l’Australia (98), la Danimarca (97), il Giappone (96), il Cile (94) e la Grecia (87). Qualcosa del genere vale anche per l’altra sponda dell’Atlantico. Anche qui, s’intende, tutti i paesi sono saldamente «free», con punteggi aggregati pari o superiori a 90, tranne l’Italia (89) e la Croazia (85). Tre di loro poi – la Svezia, la Norvegia e la Finlandia – sono nientemeno che i «most free», con un punteggio che fin dal 2003 non si scosta pressoché mai da 100. Negli ultimi 5 anni, però, tutti i paesi più rilevanti e influenti hanno perso qualche punto: la Francia 5 (da 95 a 90), il Regno Unito 4 (da 97 a 93), l’Austria 3 (da 96 a 93), la Germania e la Spagna 2 (da 96 a 94), il Portogallo e il Belgio 1 (da 97 a 96), come la Croazia (da 86 a 85). Tolta la Slovenia, passata da 91 a 94, gli altri Stati sono rimasti stabili: i Paesi Bassi a 99, l’Irlanda a 97, la Svizzera a 96 e l’Italia a 89. Se anche in questo caso associamo i numeri a nomi e cose – Donald Trump, Brexit, Rassemblement National, Lega e 5 Stelle, Podemos e Vox, Alternative für Deutschland, Syriza e Alba Dorata, FPÖ, Democratici svedesi, Veri Finlandesi, Geert Wilders, Forum voor Democratie, e via enumerando – capiamo meglio. Anche senza considerare la gabbia dorata, ma pur sempre d’acciaio, dell’Unione Europea, il quadro non è dunque edificante ed è destinato quasi sicuramente ad aggravarsi. Leader e movimenti populisti, infatti, si affermano grazie alle preziose garanzie offerte dai principi e dalle istituzioni della democrazia liberale. Una volta al potere, tuttavia, tendono a indebolirle o smantellarle del tutto. Se dunque, come sembra probabile, essi continueranno a crescere e a vincere, tra qualche anno gli aggregate scores delle vecchie e stanche democrazie liberali euro-atlantiche potrebbero riservarci qualche ulteriore brutta sorpresa.
Naturalmente, le cattive notizie non finiscono qui. Solo debolmente compensate da pur significativi, ma marginali, progressi, esse piovono copiosamente anche dalla regione Asia-Pacifico, da pezzi consistenti dell’Eurasia, dall’America Latina (in particolare dal Venezuela, dal Nicaragua e dal Brasile), dal Medio Oriente e dal Nord Africa (Siria e Libia in testa), dall’Africa subsahariana. Per tutte queste ragioni il Report ribadisce più volte che la vecchia ondata della democratizzazione starebbe ormai rifluendo: «Rispetto alle conquiste del tardo XX secolo – si legge – le perdite complessive sono ancora relativamente contenute. Ma la tendenza è lineare e minacciosa. La democrazia è in ritirata».
«Ritirata», «riflusso», «onda inversa»: sono le parole giuste? Se era chiaro nel 1991 che un’ondata possente di transizioni alla democrazia si era abbattuta sul pianeta disintegrando molti regimi autoritari, è altrettanto chiaro oggi che un’ondata di forza crescente ma di segno contrario si è ormai formata. Si tratta di un’ondata compatta, che non pare destinata a fermarsi. Essa sembra proiettarsi a grande velocità ben oltre i confini della third wave e dilagare negli spazi delle long-standing democracies. È anzi forse proprio da qui che è partita. È dunque davvero un’ondata di riflusso oppure qualcosa di ben più sgradevole e pericoloso? Si è materializzata la temuta reverse wave di cui aveva parlato Huntington nelle ultime pagine della Terza ondata? Oppure abbiamo a che fare con un fenomeno di diversa natura?
3. Onda inversa o crisi globale della democrazia?
A questi interrogativi il Report, che pure accredita almeno in parte la tesi della reverse wave, non offre risposte precise. In fondo, per quanto straordinariamente utile, rimane pur sempre un album di fotografie ad alta definizione.
Qualche risposta, invece, possiamo trovarla nel capitolo finale della Terza ondata, intitolato «Le prospettive», in cui Huntington aveva formulato la tesi dell’onda inversa ragionando – quasi trent’anni fa, ma da par suo – su ciò che avrebbe potuto venire dopo la «rivoluzione democratica globale» degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Si tratta di una trentina di pagine che sono forse rimaste un po’ in ombra e in ogni caso facili allora da dimenticare. In parte perché in quegli anni era più naturale abbandonarsi all’ottimismo. In parte perché era più interessante seguire le ultime mareggiate prodotte dalla third wave nell’agonizzante Unione Sovietica. E in parte, ancora, perché nel frattempo Huntington è stato risucchiato nel grande dibattito sul clash of civilizations, suscitato prima da un suo breve articolo su «Foreign Affairs» (1993) e poi dal suo celebre libro su Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996). Quelle pagine, tuttavia, sono importanti perché, rilette con il senno di poi, colpiscono quasi perfettamente nel segno. Esse, infatti, individuavano con molta precisione le cause più generali di un’ipotetica rivincita dell’autoritarismo sulla democrazia, anche se al contempo ne sottovalutavano i possibili effetti, circoscrivendoli appunto all’idea di un’onda inversa. Costituiscono, dunque, un ottimo punto di partenza e, ai nostri fini, un’efficace scorciatoia per ragionare sul tempo presente.
Si deve anzitutto sottolineare che Huntington non dava affatto per scontata la possibilità di una reverse wave. Il suo argomento di fondo era allora che le forze che avevano mosso la terza ondata avessero esaurito la propria spinta propulsiva. A suo giudizio, le sorti globali della democrazia dipendevano più in generale da fattori al tempo stesso politici, culturali ed economici. I secondi – aggiungeva, anticipando un tema che avrebbe poi ribadito anche ne Lo scontro delle civiltà – erano sicuramente importanti ma non del tutto dirimenti. L’ostilità di certe culture alla democrazia, in primis l’Islam e il Confucianesimo, non era data per essenza e per sempre. Le culture – scriveva – non sono monolitiche e tantomeno statiche e passive, ma mutano sull’onda delle trasformazioni economiche e sociali. Risultavano piuttosto cruciali lo sviluppo economico e l’esistenza di una leadership politica fermamente convinta che la democrazia sia la forma politica meno peggiore per governare la società. Era il primo, a suo giudizio, a rendere possibile la democrazia, che ha nella povertà il suo più insidioso nemico. Ma era la seconda a tradurla in pratica. In ultima analisi, dunque, egli riteneva che l’espansione della democrazia sarebbe stata possibile solo se i governanti mondiali e quelli dei singoli paesi vi avessero creduto e avessero desiderato effettivamente promuoverla. Non era una conclusione troppo dissimile da quella che Fukuyama aveva tradotto nell’idea assai più problematica, e infatti poco compresa, della «fine della storia».
Fatte queste premesse, Huntington prospettava due possibili sviluppi. Il primo era che sorgessero nuove forze favorevoli alla democratizzazione in grado di prolungare ancora la terza ondata o di produrne addirittura una quarta. Egli le individuava nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale, nella Francia rispetto alle sue ex colonie in Africa, nella Chiesa ortodossa nei Balcani e in «Unione sovietica», in un Gorbaciov cinese capace di attivare una versione asiatica della glasnost, in un Nasser jeffersoniano in Medio Oriente e in un Giappone in grado di esercitare efficaci pressioni democratizzanti sui suoi paesi debitori in Estremo Oriente. L’elenco suona oggi decisamente stonato.
Il secondo sviluppo, invece, era quello di una reverse wave che avrebbe potuto prendere vigore soprattutto là dove le condizioni favorevoli alla democrazia erano deboli. Qualcosa del genere, del resto, era già successo dopo la prima (1828-1926) e la seconda ondata (1943-1962), rispettivamente nel 1922-1942 e nel 1958-1975.
In questa direzione – scriveva Huntington con parole che meritano di essere citate – avrebbero potuto agire sei diversi fattori: 1) «il fallimento sistematico da parte delle democrazie ad operare con efficacia [che] può minarne la legittimità»; 2) «una generale crisi economica internazionale (come quella del 1929)»; 3) «un passaggio dalla democrazia all’autoritarismo da parte di una grande potenza [che] potrebbe innescare un effetto valanga in altri paesi»; 4) «il passaggio all’autoritarismo da parte di molte delle nuove democrazie che non hanno avuto l’opportunità di consolidarsi, [il quale scatenerebbe così] un secondo tipo di effetto valanga»; 5) «il potenziamento di uno Stato non democratico [come la Cina] che cerca di espandersi al di là dei suoi confini» prima economicamente e poi magari anche territorialmente; 6) l’emersione di varie forme di regime autoritario che potrebbero «sembrare appropriate ai bisogni del tempo». E cioè, a) regimi basati sul nazionalismo autoritario, b) sul fondamentalismo religioso, c) sul puro predominio delle oligarchie, oppure d) dittature populiste, e) dittature a base etnica e, ancora f) dittature di tipo «tecno-elettronico», rese possibili «dalla manipolazione dell’informazione, dei media e di altri sofisticati mezzi di comunicazione».
Al netto di qualche dettaglio e letto con gli occhi di oggi, l’elenco è impressionante. Basta applicarlo al mondo intero invece che solo a «quei paesi dove la democrazia appare debole» – ai paesi, cioè, della terza ondata – per ottenere un efficace quadro esplicativo dei dati forniti dal Report 2019 della Freedom House.
Possiamo dunque essere rapidi. Gran parte del problema sta infatti nel primo e più importante punto di quell’elenco: il fallimento delle democrazie liberali sotto il profilo dell’efficacia e dunque della legittimità. Huntington scriveva che alla fine del XX secolo, con il tramonto delle ideologie non-democratiche (in primo luogo del marxismo-leninismo) e con la generale accettazione dei principi della democrazia, i governi democratici avrebbero avuto meno bisogno che in passato di legittimarsi attraverso i propri successi. In fondo – questo l’argomento sottinteso – le democrazie non hanno necessità, almeno in teoria, di legittimare se stesse. Fondate su libere elezioni, sono legittime per definizione, a differenza dei regimi autoritari, che devono trarre il proprio consenso, di cui hanno comunque sempre bisogno, soltanto dalle proprie performances. Da buon realista, però, Huntington aggiungeva la seguente specificazione (cito dall’edizione originale data l’imprecisione della traduzione italiana): «la prolungata incapacità di offrire benessere, prosperità, equità, giustizia, ordine interno o sicurezza esterna alla lunga potrebbe minare la legittimità anche dei governi democratici». Egli si riferiva qui, in modo esplicito, alle giovani democrazie appena uscite dall’autoritarismo. Nel contempo, però, formulava un principio di validità assai più generale. A ben vedere, infatti, è proprio questa «prolungata incapacità» che le long-standing democracies hanno esibito in modo crescente negli ultimi decenni, perdendo pezzi consistenti della propria legittimità sul piano interno e della loro credibilità su quello internazionale.
Un primo significativo allarme in questo senso lo avevano già lanciato, negli anni Settanta, lo stesso Huntington, Michel J. Crozier e Joji Watanuki nel celebre e urticante rapporto alla Trilaterale sulla Crisi della democrazia (1975). Da allora, però, la situazione è andata precipitando, perché nel frattempo sono cambiate in radice le stesse società democratiche più avanzate. In esse, infatti, – lo dico in estrema sintesi – sono venute meno appartenenze e ideologie. Si sono spappolate le classi, almeno nel loro formato più tradizionale, mentre stentano ancora a prendere forma nuove soggettività. Sono cresciute le diseguaglianze. Sono diventate sempre più impegnative le sfide della società multiculturale sotto la pressione di poderosi movimenti migratori. Sono mutati vorticosamente i meccanismi di formazione del consenso e della pubblica opinione con l’avvento della videopolitica e poi dei social network, che hanno dato massicce dosi di ossigeno alle tentazioni del direttismo e del plebiscitarismo. In questo quadro, i pilastri tradizionali della democrazia liberale – i partiti e i parlamenti – hanno cominciato a cedere. I primi hanno perso la loro capacità di innervare e dare forma alla società e si sono per contro «incistati» nei gangli dello Stato, trasformandosi in squallidi bacini di raccolta di un’odiatissima «casta», spesso di pessima qualità. I secondi, già pesantemente indeboliti fin dal primo Novecento proprio dalla nascita dei grandi partiti di massa, hanno finito per apparire come santuari polverosi di inutili chiacchiere trasformandosi, per molti, in costosissime suppellettili di cui non si sente più il bisogno. E tutti questi processi insieme – su cui esiste una copiosissima letteratura – hanno prodotto disorientamento, disaffezione, apatia, ribellione e quindi instabilità e ingovernabilità: in breve, un crescente deficit di legittimità e dunque di efficacia delle sempre più esauste democrazie liberali.
Il colpo di grazia, tuttavia, è arrivato da un altro fronte: e cioè – lo dico anche in questo caso in estrema sintesi – dalla loro sempre più manifesta incapacità di governare o di tenere almeno sotto controllo le colossali sfide dell’interdipendenza planetaria e le grandi forze del mondo globale, in primo luogo la potenza straordinaria e soprattutto «insocievole» dei grandi poteri economici e finanziari transnazionali, con la loro corte di istituzioni sovranazionali, dal FMI alla stessa UE nella forma che di fatto ha assunto nel corso degli anni. Anonimi, impersonali, politicamente irresponsabili, quei poteri hanno sottratto quote crescenti di sovranità agli Stati, ai loro governi, ai parlamenti, ai partiti e dunque agli stessi cittadini. In tal modo, essi hanno piegato di fatto alle proprie regole, ai propri interessi e ai loro ciechi algoritmi intere società su temi cruciali quali il lavoro e il welfare, sotto la costante minaccia di catastrofici default. In questo campo, le democrazie liberali, non importa se accondiscendenti o meno, si sono mostrate alla fine non solo inefficaci, ma quasi del tutto impotenti, in un quadro di crescente omologazione tra forze di governo e di opposizione. Il circolo vizioso si è così chiuso: inefficaci, perché sempre meno legittime, esse hanno finito per perdere ogni legittimazione proprio perché sempre meno efficaci.
La «Grande Recessione» del 2007-2008 – il secondo fattore messo nel conto da Huntington nel 1991 – ha fatto il resto, portando tutti i nodi al pettine. Ammesso che non ci attenda qualcosa di assai più devastante, essa è stata la crisi del ’29 del XXI secolo, e ha generato spettacolari disastri, dapprima in America e poi soprattutto in Europa, mostrando che la potenza irresistibile delle grandi forze economiche globali, quando si inceppa, può essere distruttiva per la vita delle persone.
È in questo frangente che le long-standing democracies hanno perduto quasi ovunque la propria residua capacità di offrire – con le parole di Huntington – «benessere, prosperità, equità, giustizia» e, con esse, la propria già debolissima credibilità. Di fronte a un vero e proprio uragano che stava mettendo in ginocchio intere società con conseguenze tuttora ben visibili, esse si sono mostrate per lo più disarmate e acquiescenti. Crollate definitivamente le vecchie distinzioni tra destra e sinistra, si sono affidate alla guida di novelli Hoover, di paladini della Terza via o di saputissimi tecnocrati che hanno imposto ovunque ricette da shock economy, precarizzando ulteriormente il lavoro, impoverendo i ceti medi, togliendo speranza e prospettive ai giovani, smantellando quanto rimaneva dello Stato sociale, imponendo i comandamenti divini dell’austerità e dei pareggi di bilancio. In breve: distruggendo la società. Dove peraltro si sono mostrate riottose – come nella disgraziatissima Grecia di Tsipras – sono stati direttamente i mercati, il Fondo monetario internazionale, la Bce e l’Unione Europea a portare a termine il lavoro. È a questo punto che il «fallimento sistematico» delle democrazie liberali a «operare con efficacia» ne ha minato forse per sempre la legittimità. Ed è a questo punto che in esse ha cominciato a prendere corpo lo spettro della «democrazia illiberale».
Quello spettro, in verità, si aggirava già da tempo sulla scena delle long-standing democracy, tant’è che Fareed Zakaria aveva iniziato a parlarne sin dalla fine degli anni Novanta. Alcune delle sue apparizioni erano state decisamente visibili e spaventose. Tra esse, l’inverted totalitarianism, di cui ha parlato Sheldon Wolin a proposito dell’America di George W. Bush, è stata senz’altro una delle più preoccupanti, considerando anche la dissennata «guerra al terrore» che, per esportare la democrazia, ne ha fatto scendere drasticamente le quotazioni su scala planetaria, rendendo al tempo stesso più insicuro il mondo intero. Lo spettro si è manifestato più volte anche in Europa. Nella sua forma senz’altro più caratteristica e palese – secondo la formula di Michele Ciliberto – nella «democrazia dispotica» incarnata da Silvio Berlusconi.
La Grande Recessione, tuttavia, ha segnato un punto di svolta. È da allora, infatti, che proprio nelle long-standing democracies la democrazia illiberale ha cominciato per davvero a dilagare, offrendo un’alternativa persuasiva e di successo alle ormai esauste democrazie liberali, ben oltre le sue precedenti apparizioni. Essa si è manifestata in un possente e multiforme «momento populista» che ha portato un attacco frontale agli istituti della rappresentanza, al rule of law, al principio della separazione dei poteri, alle garanzie costituzionali e a tutti i tradizionali attori della mediazione politica: in primo luogo partiti e parlamenti, ma anche la grande stampa, la televisione, i competenti, e via dicendo. Il tutto in nome del potere originario, indistruttibile, indivisibile, non trasferibile e soprattutto sempre legittimamente «destituente» del popolo. Di un popolo considerato invariabilmente virtuoso, onnicompetente, partecipativo e orientato al bene comune e contrapposto in quanto tale, come una semplice massa omogenea, il 99%, a élites del potere ristrettissime, iperoligarchiche, ricche, avide, onnipotenti, corrotte e portatrici di inconfessabili interessi di parte, talora visibili e molto spesso invisibili. Il «momento populista» ha assunto forme e programmi assai diversi, facendo riferimento – come ho già detto – a «popoli» molto differenti: la comunità nazionale, l’uomo qualunque, i cittadini, le persone, gli ultimi. Si è poi di volta in volta incarnato nel culto sempre efficace dell’uomo forte che taglia corto e tira dritto entrando in sintonia con le masse, magari con un tweet; in varianti radicali di democrazia partecipativa; oppure, ancora, nei miti della democrazia diretta, assembleare o digitale, e del sorteggio. Le differenze sono molteplici e radicali: basta mettere in fila alcuni dei suoi più noti campioni – il rude Steve Bannon, anarchici visionari come David Graeber e David Van Reybrouck, la strana coppia Beppe Grillo & Gianroberto Casaleggio – per rendersene conto. Al fondo, però, vi è una medesima pulsione – al contempo democratica e più o meno consapevolmente autoritaria – a distruggere le mediazioni e soprattutto i limiti dell’esercizio del pur sacrosanto potere popolare, che sono poi l’essenza stessa della democrazia liberale.
Nelle sue molteplici varianti, quella pulsione si è manifestata, in modo sempre più travolgente, nelle elezioni europee del 2014, nel referendum sulla Brexit, nell’ascesa di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, nella strepitosa affermazione del Movimento 5 Stelle e poi della Lega di Matteo Salvini in Italia, nella crescita di Podemos e poi di Vox in Spagna, del Rassemblement National e di La France Insoumise in Francia, di Alternative für Deutschland in Germania e di molti altri movimenti simili nella pur democraticissima Europa del Nord, e da ultimo nelle europee del 2019. Tutti questi sviluppi hanno mostrato che la democrazia liberale è sì «in ritirata», ma dalle sue stesse roccaforti, e che essa ha perso ormai quasi del tutto ogni fiducia in se stessa. Hanno reso evidente che è l’idea stessa di democrazia liberale ad aver perduto il suo smalto e che il suo soft power e il suo stesso hard power – il suo appeal e i suoi supporter – stanno ormai evaporando. Ciò significa, con le parole di Huntington, che forse non ci sono più – o si stanno poco per volta eclissando – «governanti mondiali e di singoli paesi» che desiderino davvero sostenerla ed eventualmente difenderla nel mondo dai suoi molteplici nemici. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Non si possono certo stabilire rapporti di causa-effetto tra questa deriva della democrazia liberale e la crescita degli autoritarismi nel resto del mondo. Di certo, però, quella crisi e il vuoto che essa ha creato hanno offerto un netto vantaggio e conferito un crescente appeal ai regimi autoritari.
È in questo quadro che gli altri punti dell’elenco di Huntington diventano almeno in parte più comprensibili e preoccupanti. Non deve dunque stupire la moltiplicazione di regimi autoritari che «sembrano appropriati ai bisogni del tempo» (punto 6). Si capisce meglio il tracollo delle nuove democrazie che non si sono consolidate e l’effetto valanga che esso sta effettivamente generando, ad esempio tra i paesi del gruppo di Visegrád (punto 4). Deve altresì suscitare grande apprensione – come in effetti sta avvenendo – che uno Stato non democratico come la Cina stia conoscendo una spettacolare espansione – per ora solo economica, ma ben al di là dell’Asia orientale – oltre i propri confini (punto 5).
Rimane ancora il punto 3: il passaggio dalla democrazia all’autoritarismo da parte di una grande potenza, che potrebbe innescare un effetto valanga in altri paesi. Huntington pensava alla Russia e all’India – allora rispettivamente «partly free» e «free» – e alle conseguenze che tale passaggio avrebbe potuto avere in Eurasia e nei paesi del Terzo Mondo. E se oggi si trattasse, invece, di qualche grande paese europeo? O addirittura degli stessi Stati Uniti, come nella vignetta di Democracy in Retreat? Quali sarebbero gli effetti?
4. La democrazia liberale oggi e domani
La democrazia liberale è un artefatto estremamente fragile. Essa è stata il frutto di uno straordinario e in parte imprevisto sviluppo storico. Prima della sua effettiva apparizione tra Otto e Novecento, nessuno l’aveva immaginata. Per molto tempo i liberali – Madison, Kant, Constant, Tocqueville, John Stuart Mill, Gaetano Mosca e molti altri – hanno continuato in vario modo a pensare che la democrazia costituisse un pericolo, non sotanto nella variante ormai improponibile della «democrazia degli antichi», ma anche in quella relativamente meno impegnativa dell’accesso delle masse popolari al diritto di voto e alla rappresentanza. Tocqueville, che pure la considerava come una forza universale destinata prima o poi a riplasmare il mondo, aveva ben chiaro che la democrazia era sospesa tra le due alternative della democrazia liberale e del dispotismo democratico, con una bilancia nettamente spostata verso il secondo polo. Per tutti costoro, la lezione del giacobinismo e dei due Bonaparte era stata drammatica e illuminante. I democratici radicali e poi i socialisti, dal canto loro, nutrivano la stessa diffidenza per i principi e le pratiche della politica liberale e del governo rappresentativo. Si ispiravano in vario modo a Rousseau e alla sua critica della rappresentanza e della stessa divisione dei poteri. Credevano nella democrazia delegata, nel mandato imperativo e, per dirla con Moritz Rittinghausen, nella «legislazione diretta del popolo», che costituiva appunto la «vera democrazia». Marx non badava troppo a queste cose, ma nella Guerra civile in Francia si era unito al coro e aveva visto nella Comune di Parigi un modello possibile di democrazia proletaria, quanto meno come forma transitoria di governo prima dell’avvento del comunismo e dell’estinzione dello Stato. Anche in questo campo le sue teorie dovevano esercitare un’enorme influenza.
Con buona pace di democratici e liberali, tuttavia, la democrazia liberale è infine sopraggiunta – in America già nell’età di Jackson e in Europa tra Otto e Novecento – attraverso l’innesto del diritto elettorale delle masse sul tronco del governo rappresentativo, che doveva far sorgere sulle macerie del vecchio mondo dei notabili i grandi partiti politici di massa. Essa trovò fieri avversari nei teorici della democrazia consiliare e in un’ampia galassia di movimenti di destra che coltivavano il mito antiparlamentare dell’azione diretta in chiave nazionalista e razzista ed esaltavano il ruolo dell’uomo forte. Ma iniziò a funzionare, almeno in paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito. In altri paesi, come l’Italia e poi la Germania, dovevano invece prodursi veri e propri terremoti, con l’apparizione in grande stile di quelle che potremmo molto sommariamente definire come le prime presunte «democrazie illiberali». Si trattava in realtà di brutali dittature ispirate al nazionalismo e al razzismo, sostenute però da un ampio e maggioritario consenso di massa.
Passata la tempesta, al prezzo di una disastrosa guerra mondiale, a partire dagli anni Quaranta del Novecento, le democrazie liberali hanno cominciato ad apparire meno innaturali che in passato. Da Schumpeter in poi, schiere di studiosi ne hanno anzi lodato le virtù. Da un lato, rimarcando che la democrazia basata su libere elezioni periodiche le quali attribuiscono a qualche gruppo, a un partito o a un leader il potere di decidere era l’unica democrazia realmente possibile. Dall’altro mostrando come, così intesa, la democrazia implicasse due elementi a cui non si poteva più rinunciare dopo l’esperienza catastrofica dei totalitarismi: le procedure democratiche e il pluralismo, pilastri e presidio della libertà. Si era insomma finalmente compreso – lo dovevano ribadire più volte grandi studiosi e teorici della democrazia come Sartori, Bobbio, Dahl e lo stesso Huntington – che libertà e democrazia erano due facce della stessa medaglia. «Democrazia liberale» cessò così di essere un ossimoro e divenne poco per volta un pleonasmo.
Dopo mezzo secolo, tuttavia, quella lezione si è quasi del tutto appannata. In parte perché l’abbiamo colpevolmente dimenticata. Ma in parte perché le democrazie liberali sono davvero in affanno e non riescono più a reggere alle sfide di un mondo che è cambiato vorticosamente e che non può più essere governato dalla prospettiva angusta dello Stato-nazione, il luogo naturale delle democrazie dei moderni come la polis lo era stata per la democrazia degli antichi.
È dunque su un’altra dimensione che esse vanno ripensate, prima che diventi definitivamente vero quanto ha dichiarato Vladimir Putin in una recente e ormai ben nota intervista al «Financial Times». E cioè che «l’idea liberale è diventata obsoleta ed è entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza del popolo». Egli, invero – dichiarando la sua ammirazione per il Pietro il Grande e nel contempo rivendicando orgogliosamente il carattere «democratico» del suo governo – si riferiva in modo molto rozzo al multiculturalismo, a migranti che stuprano e commettono crimini e alle persone LGBT, soggetti evidentemente poco graditi al «popolo» e che l’«idea liberale» invece farebbe dilagare. Ma il messaggio è chiaro lo stesso. E merita qualche risposta, prima che sia troppo tardi. Prima che «democrazia liberale» torni definitivamente ad essere un ossimoro.