(estratto da Paradoxa 2/2012)
Parafrasando una battuta (atto II, quadro I) del libretto del Flauto Magico, che tanta ammirazione destava in Goethe, potremmo rispondere a chi si chiedesse se Tamino sia o no un cittadino: noch mehr! Er ist ein Mensch! E cioè: ben di più! È un uomo! È evidente che dietro il testo di Schikaneder si rivela il fascino tutto illuministico per il cosmopolitismo, ma è anche evidente, a mio avviso, qualcosa di più: l’insofferenza per qualsiasi denominazione che restringa il respiro dell’humanum, che dia all’identità dell’uomo limiti che le recano violenza, che neghi, insomma, il vecchio detto eracliteo, per quanto tu cammini, i confini dell’anima non li puoi toccare. Resta, con tutto ciò, fermo che quello della cittadinanza è indubbiamente un limite, che crea intenzionalmente una differenza: chi non è cittadino, chi non è mio concittadino, non è propriamente come me. Come può essere giusta una categoria che introduce una differenza dotata di tale radicalità?
Eppure dell’idea della cittadinanza, di una idea della cittadinanza, quale che poi possa essere la sua concreta determinazione, sembra che proprio non se ne possa fare a meno. La vediamo emergere nei contesti in cui meno ci aspetteremmo di trovarla. Nella lettera ai Filippesi (I.27) Paolo ammonisce i suoi destinatari: «Comportatevi da cittadini degni del Vangelo!». Perché da cittadini e non semplicemente da uomini? Non abbandoniamoci, non lasciamoci sedurre dal fascino esegetico che si sprigiona dall’imperativo paolino politeuesthe per andare alla ricerca di spiegazioni ai nostri fini superfluamente raffinate; una banale sensibilità linguistica è già sufficiente per avvertirci che nel profondo della mente di Paolo lavora evidentemente una antinomia antica e ben nota, quella tra il cittadino e il selvaggio, e che rivolgendosi in questo modo ai Filippesi egli vuole dare per implicito che la sua è una richiesta particolarmente esigente e che mira ben più in alto di quanto forse i Filippesi (e con loro qualsiasi brav’uomo) forse non si aspettano: non è sufficiente, questo vuol far capire l’apostolo, il mero essere onesti per conquistarsi la salvezza! Non basta essere uomini, e nemmeno basta sentirsi, genericamente, cittadini, sia pur di quella cosmopoli che è il mondo intero; bisogna essere qualcosa di più: cittadini degni del Vangelo.
Se Paolo non si fosse espresso in greco, forse non avrebbe fatto ricorso al lessico della polis; avrebbe, forse, usato altre metafore. Eppure quella della città non è affatto estranea all’universo biblico; compare però sembra contrassegnata da significative e dolorose ambiguità. Sappiamo bene come la Bibbia carichi di significato una città, Gerusalemme; ma sappiamo altrettanto bene come per altri profili essa non sembri avere particolare simpatia per gli uomini che decidano di farsi cittadini. Nella Genesi (4.17) leggiamo qualcosa di particolarmente preoccupante: il primo uomo a costruire una città è stato un personaggio che è ben poco definire inquietante e cioè Caino. E questo pour cause: come lavoratore del suolo, Caino era, per vocazione, se così si può dire, uno stanziale; Abele invece, pastore di greggi, aveva la vocazione del nomade e non si sarebbe mai legato definitivamente a un territorio: a lui necessitavano spazi non delimitati, anzi in sé non delimitabili. È evidente a chi va la simpatia del Genesi: il pastore, a parte ogni altra considerazione, rispetta la terra e non se ne impadronisce; si prende cura e protegge i suoi armenti; possiede il coraggio di chi nemmeno immagina cosa sia l’agorafobia. Chi costruisce una città è invece dominato dalla paura; gli spazi del vasto mondo non sono fatti per lui; la sua prima preoccupazione è la difesa e per realizzarla si sente costretto a segnar limiti e confini, a individuare un centro, a erigere mura, a custodirle e a controllarle giorno e notte (e quindi ad assoldare sentinelle) e infine a filtrare uno ad uno quegli uomini, quegli stranieri che si accostino alla città e vogliano accedervi. Sono mai esistite città che non abbiano temuto gli stranieri e che non li abbiano discriminati dai cittadini? Sono mai esistite città che non abbiano mai conosciuto nemici e che dai nemici non siano alla fine state distrutte? Quello che per generazioni e generazioni è stato un topos storico-letterario, in definitiva alquanto artificioso, come il pianto di Scipione sulle rovine di Cartagine, per S. Agostino si è rivelato come una verità non solo storica (non erit magnus magnum putans quod cadunt ligna et lapides soleva ripetere, durante l’assedio di Ippona, il suo anziano vescovo), ma soprattutto filosofico-teologica. La città, ogni città, porta inscritta in se stessa la propria colpa, che non in altro in fondo consiste che nel fatto stesso di essere venuta all’esistenza per discriminare gli amici dai nemici. Esiste, certo, una città destinata a non avere nemici: la Bibbia le dà un nome, che è nello stesso tempo storico e metastorico, Gerusalemme. S. Agostino le dà un nome solo lievemente diverso: la città di Dio. Ma chi può essere così presuntuoso da proclamarsene cittadino?
La dialettica della cittadinanza si riassume tutta in questi termini. L’uomo naturale è ben diverso da quell’uomo se non contro, almeno oltre natura che è il cittadino; ma l’uomo naturale non da altri è stato ucciso, fin dall’inizio della storia stessa, se non dallo stesso cittadino. Non è la città a fare l’uomo, ma è l’uomo a fare la città; eppure fuori della città l’uomo non riesce a sentirsi compiutamente uomo. L’uomo è un animale politico, che quanto più si riconosce come politico tanto più avverte che il mondo pre-politico non è un mondo invivibile o selvaggio (come egli è stato abituato a ritenere), ma semplicemente un mondo non lacerato e per questo ormai perduto definitivamente, anche se forse ne permane la memoria. Ed è probabilmente proprio questa memoria che mantiene nell’uomo l’idea di avere il dovere di trascendere la sua politicità, almeno nei casi in cui questa per affermare compiutamente se stessa non diviene alla fin fine che veicolo di discriminazione e morte. Ciò che l’uomo sente in se stesso è insomma il paradosso di dover essere cittadino e al tempo stesso di dover esser non solo più, ma altro che un mero cittadino. Non c’è da stupirsi che giuristi e filosofi del diritto e della politica – quando hanno avuto l’intenzione di riflettere radicalmente su questo paradosso, il che non è avvenuto di frequente – siano riusciti al più ad esprimerlo faticosamente, ma non certo a risolverlo.
Il nostro tempo manifesta la dialettica cittadino/straniero secondo urgenze assolutamente nuove, ben lontane dall’essere ancora comprese adeguatamente. Ai politologi che insistono schmittianamente sulla irriducibilità dell’amico al nemico e ai giuristi che si compiacciono di rilevare il carattere universale, perché formale, del tema giuridico della cittadinanza, va opposta la saggezza di una antropologia antica e tuttora consistente, quella che vede nella politica e nel diritto due dimensioni che vanno strettamente coniugate, affinché la prima non si perda in una irriducibile dialettica dualistica e il secondo non si esalti delle sue forme tanto più eleganti, quanto più vuote. Un’antropologia sapiente deve sapere, per ritornare a quello Schikaneder da cui avevamo preso le mosse, che nessun titolo è più alto per l’uomo di quello di uomo e nello stesso tempo che quello di uomo non è un titolo. Riattivare questa antica consapevolezza è un merito non di poco conto.