(estratto da Paradoxa 2/2016)
Le ipotesi qui presentate riprendono alcuni contenuti del testo pubblicato dall’autore, La violenza. Saggio sulle Frontiere del politico (Manifestolibri 2015)
Il compiersi a ritmi sempre crescenti di quella che nel 1970 Henri Lefebvre definiva Rivoluzione urbana fa oggi dell’urbanizzazione un tema rilevante per ogni dominio delle scienze umane, sociali e politiche. Gli studiosi parlano dell’avvento di una civiltà urbana, mentre nella comunità internazionale si fa uso del termine Urban age per designare il fatto che ben oltre metà del genere umano vive ormai in aree urbanizzate, e che questa porzione pare destinata a crescere esponenzialmente fino a raggiungere il 75% degli abitanti della Terra entro il 2050 (cfr. http://unhabitat.org). I geografi sono impegnati nello studio di processi che consentono di pensare come un unico spazio urbanizzato anche macroaree regionali per il livello di integrazione del loro sistema di infrastrutture, trasporti, organizzazione del lavoro, del commercio e dei servizi. Il generale accordo su una visione ‘urbano-centrica’ dell’attuale momento geostorico ha fatto perciò dell’urbanizzazione una sorta di archivio generale cui rubricare ogni discorso sullo sviluppo delle geografie umane, al punto che il mondo stesso viene rappresentato sovente attraverso metafore urbane, come un ‘metacittà’ avente il suo ‘centro’ e le sue ‘periferie’. Sembra difficile descrivere la fisionomia politica del nostro tempo a prescindere da questi processi. E tuttavia, categorie, concetti e paradigmi che il Moderno ci consegna per descrivere tale fisionomia sono forgiati eminentemente su altre scale spaziali, quella dello Stato su tutte – come mostra, ad esempio, la nozione di cittadinanza che, pur essendo etimologicamente calcata su scala urbana, non fa riferimento che a una spazialità statuale. La concettualità geopolitica non fa eccezione a questa lacuna – anche per ovvie ragioni inerenti alla genesi stessa della disciplina e del suo statuto teorico (cfr. l’Introduzione di Emidio Diodato). Eppure, che essa sia intesa come studio della politica internazionale da una prospettiva geografica, come indagine delle relazioni esistenti fra gli eventi politici e gli spazi della Terra, o come analisi delle problematiche politiche che originano da eventi di ordine territo-riale, difficilmente la geopolitica potrà prescindere da un processo decisivo della geografia contemporanea come l’urbanizzazione. A partire da un’analisi della relazione reciproca fra violenza e spazio urbano, questo intervento si propone di indicare alcune direttrici utili a incorporare dimensioni urbane nell’apparato categoriale della geopolitica che viene. Più specificamente si argomenterà la possibilità di conferire una nuova ‘profondità urbana’ a due concetti chiave della geopolitica come la guerra e il confine. I nessi fra la città contemporanea e gli odierni significati del concetto di guerra si palesano ogni volta che attraversiamo uno spazio pubblico presidiato da uomini e mezzi in assetto militare, preparati a rispondere con le armi alla possibilità che uno scenario di guerra irrompa ancora nel cuore dello spazio urbano com’è recentemente accaduto in due grandi capitali del vecchio continente. La scelta di giovani cittadini europei, cresciuti nelle periferie e incantati dal fondamentalismo islamico, di assumere gli spazi urbani come teatro deputato di una minaccia di attacco latente quanto incombente proiettano oggi sulla città elementi classicamente propri ad altre spazialità geopolitiche. Tuttavia, si cercherà qui di mostrare come l’immaginario della guerra abbia preso posto negli spazi urbani occidentali ben prima di questa frattura. L’ipotesi è che sia possibile leggere la configurazione attuale lungo una linea di trasformazioni urbane che principia dall’ultimo quarto del secolo scorso, ovvero che la minaccia terroristica acceleri alcune tendenze urbane di medio periodo che saranno oggetto del presente articolo.
È lungo questa temporalità più ampia che gli Studi strategici hanno già incorporato una prospettiva urbana nell’analisi delle trasformazioni del warfare contemporaneo. Si pensi al rilievo crescente che in essi è andata assumendo la letteratura sulla cosiddetta counterinsurgency, il cui più influente interprete non smette di argomentare sulla necessità di assumere gli spazi delle grandi città litoranee come lo snodo decisivo nel conflitto globale con il terrorismo. Da Out of Mountains: The Coming Age of the Urban Guerriglia (2013), David Kilcllen insiste sulla natura fonda-mentalmente urbana della new way of warfare, caratterizzata da strategie di urban counterinsurgency in ambienti segnati da crescente opacizzazione della distinzione fra civili e combattenti e fra guerra e crimine armato. Invertendo la prospettiva, si può d’altra parte notare come lo sviluppo del contemporaneo discorso della counterinsurgency sia stato nutrito dalle immagini dei riots nei ‘ghetti’ urbani degli anni Novanta, e come il tema della ‘militarizzazione’ dei corpi di polizia abbia segnato il recente dibattito statunitense intorno alla scia di omicidi polizieschi aperto dal caso di Micheal Brown nell’agosto 2014. Così, il movimento Black Lives Matter ha denunciato l’impiego di strumenti, tattiche e dispositivi militari di ultima generazione propri ai teatri di guerra in occasione delle mobilitazioni svoltesi a Ferguson e in altre città. Stephen Graham scrive in proposito di un «nuovo urbanesimo militare», mentre, già all’inizio degli anni Novanta, Mike Davis parlava di una «fusione senza precedenti della progettazione urbana, dell’architettura e dell’apparato di polizia in un unico, totale sistema di sicurezza», che configurava una sorta di «guerra […] istituzionalizzata nella struttura dello spazio urbano» (Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, manifestolibri, Roma 2008, pp. 216-219). Si partirà proprio dalla temperie degli anni Novanta per analizzare il modo in cui l’immaginario della guerra si è andato progressivamente insediando negli spazi urbani occidentali mutandone sensibilmente alcuni profili. Di qui si osserverà poi come questo processo abbia contribuito a far sì che i territori metropolitani offrano oggi una lente privilegiata attraverso cui osservare i mutamenti del paradigma classico del confine e della frontiera. Fra gli effetti più rilevanti del complesso di fenomeni rubricati alla voce ‘globalizzazione’ si è infatti soliti annoverare un parziale ridimensionamento della spazialità statuale, o meglio il moltiplicarsi di altre dimensioni concorrenti: a ciò corrispondono anche nuove spazializzazioni dell’elemento classicamente deputato a connettere Stato e territorio, la frontiera. L’odierno fiorire di progetti di border studies riflette questa scomposizione del confine, che lo dissemina e proietta su una molteplicità di dimensioni differenti. Le forme più innovative e attuali delle frontiere sembrano oggi da ricercare negli snodi di concentrazione dei flussi di persone, di merci, di informazioni, alla cui gestione concorrono intrecci complessi di dispositivi giuridici sovranazionali, iniziative amministrative locali, pratiche di governo dei flussi migratori, artefatti urbanistici e archi-tettonici, sistemi di controllo, corpi di sicurezza pubblici e privati. Proprio per questo, i grandi spazi urbani, oggi direttamente esposti ai flussi dell’economia e della mobilità globale, offrono un punto di osservazione privilegiato da cui guardare ai mutamenti di questo fondamentale dispositivo geopolitico.
LA FINE DELLA STORIA E IL PRINCIPIO DELLA GUERRA
La fine della storia e l’ultimo uomo (1992) è un libro che meglio di altri racconta lo spirito del tempo degli anni Novanta e alcune striature geopolitiche della temperie storica condotta a termine dalle immagini delle Torri gemelle in fiamme. In esso Francis Fukuyama mobilitava la filosofia hegeliana della storia come processo evolutivo razionale e coerente delle società umane per leggere la situazione mondiale successiva al crollo del blocco sovietico domandando se non fosse possibile pensare di essere giunti a un «punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità» corrispondente all’affermazione, almeno dal punto di vista ideale, di una «definitiva forma di governo fra gli uomini». Da una parte, Fukuyama postulava una continuità diretta fra la diffusione globale del capitalismo e l’indefesso processo di crescita economica consentito dalla logica delle scienze moderne che realizza un processo evolutivo lineare della tecnologia applicata alla produzione. Dall’altra, questo legame, seppur in maniera più complessa e mai deterministica, veniva istituito anche con la dinamica espansiva del modello democratico uscito vincitore dal confronto con il comunismo. Di qui una prospettiva geopolitica fondata sulla giustapposizione fra un mondo «post-storico» in espansione – composto da democrazie liberali fondate sul riconoscimento reciproco, razionale e universale e quindi vocate alla pace – e un mondo ancora «storico» perché dominato da logiche e conflitti nazionali, religiosi, etnici e ideologici, in cui i rapporti internazionali continuano a regolarsi secondo i paradigmi classici del realismo politico e della politica di potenza. Affermando che «non ci sono veri barbari alle porte», Fukuyama rilevava allora le condizioni di un processo di progressivo allargamento del mondo «post-storico», della «rivoluzione liberale mondiale» tendenzialmente vocata a realizzare i principi di pace internazionale elaborati da Immanuel Kant. Seppur trascurando spesso l’ultimo affascinante capitolo – che mobilitava un’antropologia nietzscheana per avanzare radicali inter-rogativi sulla qualità della vita nel mondo post-storico –, il libro fu letto, discusso, celebrato o criticato nelle università di mezzo mondo come primo tentativo di una diagnosi complessiva della situazione mondiale dopo la fine della guerra fredda. A venticinque anni di distanza si deve dare atto a quel testo di aver saputo rappresentare magistralmente le nervature di un’epoca di sostanziale ottimismo, ma al tempo stesso non si può che constatare, forse con una qual-che amarezza, il naufragio delle sue previsioni. La fine della storia, potremmo dire, è finita assai presto: alla dinamica espansiva delle democrazie liberali è subentrata quella della crisi economica e dei conflitti internazionali, e il divenire del mondo pare aver ripreso a muoversi su quelli che Fukuyama considerava dinamiche e ritmi della storia passata. Ma, proprio per questo, il libro testimonia la magnitudine delle trasformazioni geopolitiche avvenute, la cui analisi si intraprende qui a partire dal confronto ‘postumo’ con le tesi di un altro testo pubblicato solo pochi mesi dopo. Un’altra riflessione sull’universalismo occidentale, che, pur muovendo da una prospettiva simile e mobilitando numerosi riferimenti comuni, proponeva una diagnosi opposta. Se di rivincita volessimo parlare, quella di Prospettive sulla guerra civile di Hans Magnus Enzensberger (Einaudi, Torino 1994) non potrebbe che avere un sapore amaro per il tenore cupo delle prospettive ivi rappresentate. Il tramonto dell’ordine bipolare del mondo non veniva inteso come il principio di un’era di pace vocata all’universalizzazione dei valori liberali e democratici dell’Occidente, ma piuttosto come il punto di innesco di una serie di conflitti locali sempre più crude-li, le cui dinamiche suggerivano la necessità di ripensare uno dei concetti geopolitici fondamentali, la guerra. Somalia, ex Jugoslavia, Ruanda e altre decine di conflitti in corso venivano richiamati per sottolineare l’assenza degli elementi bellici tradizionali, di eserciti regolari, di stabili fronti di guerra, del rispetto di qualsivoglia convenzione e, in ultima analisi, di logiche intellegibili e obiettivi geopolitici chiari. Con la fine dell’«angoscioso equilibrio della pax atomica» il significato del concetto di guerra pareva debordare da quello di intervento di potenze statuali in aree destabilizzate per ab-bracciare una moltitudine di guerre civili segnate da logiche al tempo stesso nuove e ancestrali, dalla ferocia di violenze insieme inedite e primordiali. Nel recensirlo sul NYT, Fukuyama rimproverò al libro un «inguaribile pessimismo» che oscurava la dinamica espansiva del «villaggio globale» e una malcelata «nostalgia» verso il secolo breve. Se accostate allo zeitgeist dei primi anni Novanta, le tesi di Enzensberger potevano in effetti risultare apocalittiche, e tuttavia oggi vediamo come esse toccassero i nervi di tendenze e processi che i due decenni successivi hanno condotto a sempre maggiore intensità. L’anticipazione bruciante dell’intellettuale tedesco consisteva nel cogliere con lungimiranza il frantumarsi del paradigma classico della guerra, e, di qui, nell’osservarne le schegge non solo nelle ‘periferie’ del mondo, ma anche in quelle delle metropoli occidentali, cui veniva perciò consegnato un inedito spessore geopolitico. «Ogni vagone della metropolitana può diventare una Bosnia in miniatura» (p. 20), scriveva Enzensberger per giustapporre le atrocità dei conflitti in corso ai quattro angoli del pianeta alle immagini metropolitane dei riots del 1992 a Los Angeles, degli agguati dei naziskin tedeschi, delle violenze degli hooligans, delle efferatezze della criminalità urbana. I grandi spazi urbani occidentali venivano così descritti come il teatro di una «guerra civile molecolare» la cui violenza obbedirebbe alle medesime dinamiche a vocazione nichilista, alla stessa concatenazione intima quanto insensata di distruzione e autodistruzione, dei mas-sacri in corso nelle aree abbandonate dai meccanismi di regolazione geopolitica della guerra fredda. Cifra fondamentale di questa interpretazione era perciò la proiezione dell’immaginario della guerra dentro la realtà gli spazi urbani, cui veni-vano dunque consegnate nuove intensità geopolitiche. L’irruzione, l’11 settembre 2001, di uno scenario di guerra nel cuore dello spazio urbano simbolo della civiltà occidentale ha certamente segnato una frattura radicale, ma al tempo stesso ha offerto coerente sviluppo a questo genere di prospettive, e a percezioni e rappresentazioni che si erano andate radicando nei due decenni precedenti secondo alcune traiettorie che proviamo ora a ripercorrere.
VIOLENZA E SPAZIO URBANO
L’insediarsi dell’immaginario della guerra nella città contemporanea precede, si è detto, l’apertura della strategia urbana del terrorismo islamista. L’ipotesi che qui si propone è che esso abbia progressivamente trovato posto negli spazi lasciati vuoti dal declino della razionalità industriale come principio generale di organizzazione, governo e controllo dei territori urbani. Il modo in cui Enzensberger descrive la dinamica specifica di innesco della guerra civile molecolare restituisce esattamente questa percezione di ‘abbandono’:
L’inizio non è sanguinoso, dagli indizi non traspare pericolo. La guerra civile molecolare comincia in modo impercettibile, senza mobilitazione generale. L’immondizia cresce lentamente sul ciglio della strada. Nel parco si accumulano siringhe e bottiglie di birra in frantumi. Sui muri compaiono ovunque monotoni graffiti, il cui unico messaggio è l’autismo: evocano un Io che ormai non esiste più. In classe si distruggono i banchi, i giardinetti puzzano di escrementi e di urina. Tutte queste cose sono piccole, mute dichiarazioni di guerra, che l’esperto abitante della città sa interpretare. Ben presto però la nostalgia del ghetto esplode con segnali ancora più chiari: pneumatici forati, telefoni per casi d’emergenza resi inutilizzabili con le cesoie, auto incendiate (p. 37).
Questa linea di continuità diretta che dal gesto individuale di inciviltà giunge fino alla violenza collettiva svela il cuore di un mutamento delle rappresentazioni della condizione urbana che è andato maturando dall’ultimo quarto del secolo scorso – dall’apertura di quell’enigmatica transizione che ancora oggi risulta rubricata alla voce ‘post-modernità’. Con essa prende forma un immaginario urbano centrato sul fenomeno della violenza: gli spazi delle grandi città diventano l’habitat di un pericolo latente, diffuso, cui la criminalità offre la rappresentazione quintessenziale. L’immagine della
‘violenza urbana’ diviene così un significante vuoto in grado di contenere molti significati, dall’inciviltà alla delinquenza fino alla sommossa, un concetto contenitore utile ad abbracciare un raggio di comportamenti che principia dal semplice disordine, dalla maleducazione, l’insulto, la provocazione, passa poi per le patologie e devianze sociali, include ambiti di illegalità come la violenza privata o il vandalismo, e trova infine cristallizzazione apicale nello scippo, nel pestaggio, nel tumulto, nella delinquenza comune, nella criminalità organizzata e in tutti quei fenomeni che incarnano una minaccia latente e perenne all’incolumità del cittadino urbanizzato. La nozione di violenza viene ora a incarnarsi lungo questo ampio spettro, e la tematica urbana subentra alle più classiche categorie politiche di analisi del fenomeno perché la città diviene il suo spazio simbolico per eccellenza. Supposte condensare tutti questi elementi nella loro massima intensità, talune periferie, fisiche o simboliche, le zone a rischio, le no-go areas of violence, vengono posizionate in primo piano nelle rappresentazioni delle metropoli contemporanee come ambiente di disordine endemico su cui incombe un pericolo aleatorio quanto costante, un rischio che investe tutti i suoi spazi pubblici: parchi, piazze, strade, mezzi di trasporto. Su queste rappresentazioni è venuta innestandosi tutta una cinematografia prettamente urbana che ha contribuito ad alimentarle proiettandone gli effetti di verità ben oltre la dimensione metropolitana. Urban movies come I guerrieri della notte (1979) o le pellicole di John Carpenter ambientate in un futuro prossimo quanto minaccioso interpretavano un immaginario in forte ascesa in cui l’ambiente cittadino appare penetrato da una violenza diffusa, da nuove paure e soggettività minacciose di cui gli zombies di George Romero presentavano l’incarnazione più estrema. Così, 1997 fuga da New York (1981) racconta un’escalation della violenza urbana che induce il governo a fare della penisola di Manhattan un enorme carcere a cielo aperto per soli ergastolani, circondato da un poderoso dispositivo di sicurezza recintato, ma abbandonato alla sola legge della violenza all’interno. Esso evocava così, allo stesso tempo, sia un destino incombente sulle città occidentali, sia la propensione delle autorità a sperimentare inedite tecnologie di sicurezza di fronte ad esso. Lungi dal rimanere confinato nello spazio delle rappresentazioni sociali, questo immaginario ha nutrito nuove pratiche di governo del territorio urbano che hanno preso il posto della razionalità industria-le propria al paradigma precedente. Facendo leva su quella passione profondamente politica che è la paura, il tema della violenza urbana stimolava infatti un’istanza complessiva di ripensamento dell’onto logia urbana come ‘megamacchina di protezione’, insediando così il principio di sicurezza a nuovo criterio generale di governo di città finora regolate dalle esigenze della produzione industriale e della riproduzione sociale. Si potrebbe parlare in proposito dell’introiezione di una logica geopolitica di governo delle città nella misura in cui quest’ultimo assume come priorità fondamentale la prevenzione del disordine del conflitto e della violenza nello scacchiere urbano. Già all’inizio degli anni Settanta la teoria del Crime Prevention through Urban Design di Oscar Newman offre, ad esempio, una declinazione specifica di questa prospettiva ripensando l’architettura stessa come una tecnologia accessoria della sicurezza. Ai canoni estetici o funzionali subentra infatti l’immunizzazione dal pericolo di violenza urbana come criterio di progettazione del design e dell’arredo urbano, intesi ora come strumenti possibili di un’‘interdizione morbida’ di soggetti a rischio da alcune aree, realizzata attraverso scelte inerenti all’organizzazione dell’illuminazione, della vegetazione, alla forma delle panchine e dei cassonetti, agli orari e modalità di innaffiamento dei parchi. Nel 1982, poi, la Broken Windows Theory di James Wilson e George Kelling stimola la diffusione della strategia della Zero tolerance come ‘politica urbana’ complessiva a partire da cui verranno riformati gli spazi di molte metropoli americane e, in seguito, anche europee. Con essa la ‘lotta alla criminalità’ – intesa lungo l’ampio spettro di fenomeni sopra descritti come violenza urbana – si insedia a razionalità di governo degli spazi lasciati vuoti, in crisi di senso e di identità, dal declino dell’industrializzazione. Le rappresentazioni mediatiche di un generale processo di disgregazione e degrado urbano alimentano l’attivazione di nuove tecnologie di policing, di controllo e di amministrazione degli spazi urbani volte a difendere la società dai comportamenti antisociali che proliferano sulle macerie dell’era industriale. Quando le prassi di polizia insediate dalla logica della tolleranza zero debordano i limiti del diritto, ad esse risponde talvolta l’irruzione di un vio-lenza collettiva, non direttamente politica né criminale ma semmai genericamente urbana, i cui tratti barbari e irrazionali nutrono a loro volta le rappresentazioni del nuovo disordine urbano, come mostra la lunga scia che dai 56 morti della rivolta del 1992 a Los Angeles conduce fino ai riots dell’agosto 2011 nelle principali città britanniche. Le tre settimane di fuoco nelle periferie francesi dell’autunno 2005 mostrano quanto l’Europa continentale sia tutt’altro che immune da questo genere di fenomeni, e gli spazi, la storia e il presente delle banlieues – oggi ritenute i focolari del terrorismo religioso – condensano plasticamente molti degli elementi finora richiamati, seppur con peculiari complessità che meriterebbero una trattazione specifica.
FRONTIERE METROPOLITICHE
Il declino della razionalità industriale di governo dei territori urbani produce una crisi che proietta il problema della violenza al centro dello scenario, consegnandoli così a una sorta di ‘condizione post-cittadina’, per illustrare la quale è necessario proiettare l’analisi su una profondità storica maggiore, che ci consente anche di introdurre il tema del confine e della sua ‘introversione urbana’. Tradizionalmente, la fondazione mitica delle città evoca, è vero, lotte fratricide e sanguinose conquiste, ma essa corrisponde soprattutto al momento in cui il trauma della violenza è definitivamente superato nell’istituzione di uno spazio protetto che è anzitutto luogo di interazione, tolleranza e convivenza ravvicinata. Storicamente, l’istituto della cinta muraria urbana incarna perciò il confinamento della violenza e della paura dell’Altro al di là, fuori di essa. Questo dispositivo di frontiera agisce una funzione strategica e difensiva, ma al tempo stesso costituisce il ‘dentro’ come spazio di protezione, di produzione di senso e identità attraverso la razionalità immanente che irradia dalle cattedrali del potere spirituale e di quello temporale, e che fa della città la matrice del concetto stesso di civiltà, costruito anche per opposizione ai ‘barbari’ confinati al di là delle mura. Sotto questo profilo, l’idea di violenza e quella di città si presentano tradizionalmente in rapporto oppositivo. La città è quella spazialità densa di senso il cui confine murario designa la frontiera fra la violenza e il linguaggio, fra la cultura della vita civile e la natura del ‘bar-bar’ afasico e ripetitivo dei non civilizzati. I borghi medievali, culla della civiltà borghese a venire, riproducono questa partizione, conferendo ai luoghi del commercio una rilevanza destinata, nei secoli, a fare delle esigenze dell’industria la nuova razionalità immanente delle spazialità urbane. È grazie a tale razionalità che, anche dopo il definitivo assestamento dei confini geopolitici in corrispondenza delle frontiere nazionali, la distinzione fra interiorità ed esteriorità urbana conserva senso in una serie di distinzioni fondamentali come urbano/rurale o centro/periferia. La rivoluzione industriale, poi, incrina e modifica, ma non abolisce il rapporto oppositivo fra violenza e città fondato sulla contrapposizione dentro/fuori, che pare invece sgretolarsi definitivamente con l’avvento dell’‘età urbana’. Nel momento in cui l’urbanizzazione investe scale e territori che gli erano estranei e appare come il destino di una maggioranza sempre crescente del genere umano, si incrina il modo in cui l’opposizione dentro/fuori lavora alle rappresentazioni degli spazi urbani, si trasforma quell’idea di non-urbano un tempo rubricata alla voce ‘rurale’ e anticamente corrispondente ai minacciosi ‘fuori’ delle mura cittadine. Se l’urbano è destinato a un inesauribile processo di estensione, si opacizza la sua specificità, la possibilità di iscriverne il perimetro in corrispondenza di un territorio definito. Per questo gli studi urbani prescindono ormai dall’unità-città per concentrarsi su processi di sconfinamento dell’urbanizzazione che consentono di pensare intere aree geografiche come altrettante ‘metacittà’. La nozione di sprawl city designa esattamente questo fenomeno, facendo riferimento all’impossibilità di fissare un confine, che non sia puramente amministrativo, alla dinamica espansiva del pragma urbano contemporaneo. E anche la categoria di metropoli designa l’idea di una città ‘sconfinata’, senza frontiere, che continuamente ‘fagocita’ non solo territori, ma anche forme di vita, ivi compreso il ‘radicalmente altro’ portatore della minaccia di violenza, che si è ormai stabilmente insediato dentro questa spazialità. Lo spazio ‘globalizzato’ della metropoli sembra oggi in sé stesso un mondo intero, riflette quello ‘urbanizzato’ del globo, attraversato da flussi globali di informazioni e scambi, popolato da infiniti linguaggi e culture, definitivamente alieno da quei criteri di omogeneità che erano un tempo propri alla città. Per questo si tratta di una condizione fondamentalmente ‘post-cittadina’, perché rovescia i termini in cui classicamente era disposta la relazione fra violenza e spazio urbano in modo tale che l’antica immagine del luogo protetto di condivisione e convivenza pacifica è diventata l’habitat per eccellenza dei barbari intesi come latori di minaccia di violenza e comportamenti non civilizzati. L’epocale movimento migratorio che ha istituito il canale del Mediterraneo come spazialità ‘necropolitica’, l’attuale crisi dei rifugiati, eventi come il capodanno di Colonia conducono oggi queste percezioni e rappresentazioni al loro punto di massima intensità. La funzione ‘psicopolitica’ della cinta muraria, le frontiere innalzate per immunizzarsi dal potenziale distrutti-vo dei barbari, hanno perciò da essere reinventate, ripensate all’interno della metropoli, non più in corrispondenza del suo limite ma dentro di essa. Per questo lo spazio urbano offre una prospettiva decisiva attraverso cui osservare le trasformazioni di un elemento geopolitico fondamentale come il confine nel momento in cui esso va acquisendo nuove configurazioni e funzioni oltre quella classica di connessione fra Stato e territorio. Ancora Enzensberger ce ne offre un pungente assaggio nel descrivere il doppio versante, globale e urbano, su cui invita a ripensare il concetto di guerra:
A livello internazionale si lavora ovunque al rafforzamento di quel ‘limes’ costruito per difendersi dai barbari. Ma anche nel cuore delle metropoli si vanno formando arcipelaghi di sicurezza sotto stretta sorveglianza. […] Transenne, telecamere elettroniche, cani ben addestrati ne controllano l’accesso. Mitraglieri appostati su torri di controllo sorvegliano i dintorni. L’analogia con i campi di concentramento è palese, soltanto che, in questo caso, è il mondo esterno a essere considerato dagli internati come potenziale zona di sterminio. (p. 41)
Il riferimento è evidentemente al proliferare, nelle grandi città, delle cosiddette gated communities, in cui il processo di introversione urbana dei confini trova rappresentazione apicale. Innalzando una nuova cinta perimetrale dentro gli sconfinati spazi delle metropoli, questi siti rifondano al loro interno un piccolo ‘dispositivo di città’ inteso come ambito di protezione, di comunità, di condivisione di principi, forme di vita, senso e identità. Sottoscrivendo regolamenti di comportamento vincolanti che contemplano corpi di sicurezza privati autorizzati a farli rispettare, i residenti vi acconsentono a una sorta di secondo contratto sociale che enfatizza il pericolo dello ‘stato di natura’ posto al di là del recinto e abbandonato alla regola dell’homo homini lupus. I confini intra-urbani delle gated communities perimetrano così un regime spaziale differenziato di esercizio della coercizione legittima un tempo appannaggio esclusivo dello Stato.
Se queste forme di (auto)confinamento risultano oggi un capitolo obbligato di ogni discorso sulle trasformazioni urbane, non è solo per il loro proliferare ormai anche in spazi diversi dalle megalopoli in cui sono sorte tre decenni fa. Ma anche perché la medesima loro razionalità pare orientare la costruzione di altri ‘nuovi dentro’, dai commercial housing estates ai progetti di edilizia residenziale fino ai grandi centri commerciali che internalizzano – in una logica insieme mercantile e di sicurezza – funzioni e relazioni un tempo propri a piazze e luoghi di incontro urbano. E, d’altra parte, queste immagini di comunità segregate e recintate evocano quelle speculari dei ‘campi’ di internamento d’eccezione sempre più presenti nelle cin-ture urbane contemporanee: campi profughi, campi rom, campi di identificazione ed espulsione dei migranti. Nella forma estrema dell’area recintata, queste spazialità indicano un punto di partenza per l’analisi del processo di introversione urb-na dei confini contemporanei, i quali tuttavia assumono più spesso la forma della ‘membrana’ che quella del recinto. Si presentano cioè come dispositivi dinamici di articolazione dei flussi tesi a un’inclusione/esclusione selettiva e differenziale, non solo dal punto di vista dei soggetti, ma anche di tempi, logiche e modalità di permanenza negli spazi. Si è già fatto cenno agli ‘effetti di confine’ derivanti da scelte di design urbano e di organizzazione dei luoghi pubblici: simili effetti possono risultare anche da processi urbani più vasti come la cosiddetta ‘gentrificazione’ di determinate aree o la ‘museificazione’ dei centri storici delle città d’arte. A fronte dell’indefesso sconfina-mento del pragma urbano, tutto l’urbanismo contemporaneo pare d’altra parte segnato da una fondamentale tendenza allo zooning, alla continua ridefinizione e segmentazione di spazi in base a criteri funzionali. La stessa fissazione dei confini amministrativi dei distretti urbani pare ormai rispondere a questa logica assai più che a reali soluzioni di continuità del territorio. Gli intra-urban borders, le ‘frontiere metropolitiche’ devono dunque essere comprese come artefatti spaziali dinamici determinati da fenomeni politici, socio-economici e anche culturali, come istituzioni sociali complesse la cui localizzazione e impatto sono oggetto di continua negoziazione. È ad esempio evidente come poderosi effetti di confine siano oggi prodotti dalla fissazione amministrativa di tratte, orari, costi e percorsi e del trasporto pubblico urbano. Un’analisi comparativa di differenti intrecci di geografie urbane, cartografie dei trasporti, segmentazione delle loro tariffe, disposizione di corpi di sicurezza in determinati snodi farebbe così emergere diversi modelli di ‘filtraggio della mobilità’. Per concludere con uno sguardo più diretto sulla contingenza attuale, si può osservare che la riduzione di rilievo dei confini nazionali scaturita dal trattato di Schengen evidenzia un movimento di sdoppiamento delle frontiere. Da una parte quelle corrispondenti ai limiti geografici dell’Unione Europea, ove vanno assumendo la forma estrema del muro, in Ungheria oggi, a Ceuta e Melilla ieri. Dall’altra parte, le nuove frontiere che sorgono dentro gli spazi urbani, le quali assumono talvolta anch’esse la forma del muro – si pensi all’iniziativa dell’amministrazione di centrosinistra di Padova di erigere nel 2006 un recinto di 80 metri per 3 in corrispondenza della problematica via Anelli. Ma hanno più spesso la forma del dispositivo di filtraggio dei flussi, come verifichiamo ogni volta che in una grande stazione italiana attraversiamo le barriere disposte per scopi di sicurezza contro il terrorismo, commerciali contro gli abusivi, e di articolazione della mobilità. Dalla capacità di riconoscere queste inedite configurazioni del-le frontiere contemporanee e di saperle disporre secondo criteri all’altezza della vocazione umanista, al tempo stesso plurale e universalista, della civilizzazione europea dipenderà in parte l’esito di problematiche maggiori della nostra epoca come le crisi migratorie. Al tempo stesso, questo e altri elementi chiave per il futuro delle nostre città paiono legati alla possibilità di attivare forme di convivenza, processi politici e rappresentazioni sociali in grado di espellere quell’immaginario di guerra e violenza che una moltitudine di fattori ha concorso a insediarvi negli ultimi decenni. Posizionarsi anche all’altezza di queste problematiche è una delle sfide della geopolitica che viene.