Emidio Diodato – L’ILLUSIONE DI ESSERE FUORI DAL GLOBO

Un’Ucraina isolata dall’Occidente e sempre più politicamente subordinata alla Russia incoraggerebbe la scelta sconsiderata della Russia a favore del suo passato imperiale

Zbigniew Brzezinski, Strategic Vision (Basic Book: New York, 2012, p. 150)

(Estratto da Paradoxa 2/2023)

È opinione diffusa che la guerra in Ucraina stia trasformando gli equilibri geopolitici. Più vago è cosa si debba intendere con equilibri geopolitici. Le teorie geopolitiche hanno avuto presa nelle dittature del primo Novecento e oggi trovano largo consenso solo nei circoli intellettuali dei regimi autoritari, come la Russia. Gli studi di geopolitica critica, tuttavia, mostrano che qualcosa che possiamo considerare geopolitico è sotteso anche alle visioni strategiche dei decisori politici o dei loro principali consiglieri nei regimi democratici, a partire dagli Stati Uniti.

In un lungo telegramma inviato da Mosca nel 1946, il giovane diplomatico statunitense George F. Kennan scriveva che il governo di Washington avrebbe dovuto contenere l’espansionismo sovietico senza concessioni. La sua visione si basava sulla convinzione che non ci potesse essere un modus vivendi con l’Unione Sovietica a causa del fanatismo di una forza politica, il partito di Stalin, che poteva disporre «delle energie di uno dei più grandi popoli del mondo e delle risorse del più ricco territorio nazionale del mondo». Successivamente questa visione fu collegata, almeno in parte, sia alla teoria geopolitica di Mackinder sui pericoli provenienti dall’heartland eurasiatico che a quella di Spykman sulla necessità di difendere il rimland, ossia la fascia territoriale che circonda l’Eurasia. Una visione conforme si trova fino alla dottrina di politica estera di Ronald Reagan: «È nostro convincimento che gli interessi fondamentali di sicurezza nazionale degli Stati Uniti sarebbero messi in pericolo qualora uno Stato o un gruppo di Stati ostili dovessero dominare la massa continentale eurasiatica – quell’area del globo a cui spesso ci si riferisce chiamandola heartland del mondo» (National security strategy of the United States, 1988, p. 1).

Nel 2010, l’amministrazione Obama annunciò ufficialmente una nuova iniziativa geopolitica, il Pivot to Asia, che prevedeva un re-orientamento strategico degli Stati Uniti dall’Europa all’Asia (o, come si diceva, verso l’Indo-Pacifico). Spiegando questa scelta sulla rivista «Foreign Policy», l’allora segretaria di Stato Hillary Clinton scrisse: «In virtù della nostra geografia unica, gli Stati Uniti sono una potenza sia atlantica che pacifica. Siamo orgogliosi delle nostre partnership europee e di tutto ciò che offrono. La nostra sfida ora è costruire una rete di partenariati e istituzioni in tutto il Pacifico» (America’s Pacific Century, 11 ottobre 2011).

America e Asia, Stati Uniti e Cina: è opinione diffusa che i nuovi equilibri geopolitici vedranno protagoniste questi due regioni e potenze mondiali. L’introduzione a Strategic Vision – il libro citato in epigrafe a proposito di Ucraina – è datata 11 marzo 2011, sei mesi prima dell’intervento di Hillary Clinton. Qui Brzezinski, politologo ed ex consigliere di Jimmy Carter, senza citare la strategia Pivot to Asia di Obama, chiarisce alcuni elementi essenziali della visione strategica americana nel secondo dopoguerra riprendendo quello che possiamo chiamare il Mackinder americano.

Nel 1943, guardando agli Stati Uniti, Mackinder aveva abbandonato la tesi del conflitto permanente o del difficile equilibrio geopolitico tra potenze di mare e di terra – tesi che, tra 1904 e 1918, il geografo della London School of Economics aveva fatto risalire al confronto tra Greci e Persiani e su cui aveva poggiato la sua teoria geopolitica dell’heartland (sostenendo che erano ormai compromesse le possibilità che gli inglesi mantenessero la bilancia sempre a proprio favore rispetto alle potenze dall’heartland). La vera dicotomia era divenuta quella tra Occidente e Oriente e un equilibrio geopolitico poteva essere cercato, nel confronto, anche mediante qualche forma di cooperazione tra le potenze dei due emisferi: Stati Uniti e Cina.

Proprio seguendo questo ragionamento, per Brzezinski la geopolitica americana sottesa alle visioni strategiche di diversi presidenti dal 1946 in poi era sempre rimasta centrata sulla protezione dell’emisfero occidentale rispetto all’Eurasia. Obama aveva aggiunto un tassello importante, per sottolineare la rilevanza dell’ascesa della Cina dagli anni 2000. Ma la nuova dottrina non cambiava lo stato delle cose. Permaneva la necessità di equilibrio tra America e Asia facendo perno sull’intera Eurasia e non sull’Indo-Pacifico: «Since America is not Rome and China is not yet Byzantium, a stable global order ultimately depends on America’s ability to renew itself and to act wisely as the promoter and guarantor of a revitalized West and as a balancer and conciliator of a rising new East» (p. 192). Pur agendo per bilanciare l’Asia nel Pacifico, sarebbe stato necessario non lasciare sola l’Ucraina, perché ciò avrebbe spinto la Russia su posizioni revisioniste in Eurasia con conseguenze dirette sull’equilibrio tra Stati Uniti e Cina.

Saranno gli storici a valutare se la sconsiderata decisione della Russia di invadere l’Ucraina (nel 2014 e poi nel 2022) sia imputabile all’errore strategico di non aver incluso l’Ucraina nell’Occidente, oppure se non sia vero proprio il contrario. Ma sicuramente c’è di più: il problema è anche politico qualora si ritenga corretto affermare, come ha scritto Aldo Schiavone nel numero 1/2023 di «Paradoxa», che l’Occidente «come sistema geopolitico» è «centrato sugli Stati Uniti» ed è «comprensivo dell’ovest europeo fino alla Gran Bretagna, del Canada, dell’Australia, della Nuova Zelanda e degli alleati asiatici (Giappone, Corea del Sud, Taiwan)». La questione non è solo dove abbia inizio l’ovest europeo (quindi se includa o meno l’Ucraina), ma soprattutto la tendenza alla delocalizzazione dello spazio occidentale: «una specie di Occidente-mondo, un prodotto globale» (la combinazione giudiziosa di geografia e storia, politica democratica, valore della persona, per metterla altrimenti con Pasquino).

Ma torniamo alla geopolitica e ai nuovi equilibri mondiali. Andrea Ruggeri, chiedendosi se la politica internazionale sia geopolitica, ha scritto che c’è chi apre le noci col martello e chi usa solo la geopolitica per capire la politica internazionale (ad esempio Brzezinski). «L’uno e l’altro credono di giungere al risultato voluto, ma lasciano un gran disordine sul proprio tavolo da lavoro e perdono, lasciandoli a terra, senza accorgersene, molti pezzi importanti» («il Mulino», 2/2021, p. 18). Secondo Ruggeri, un martello può servire all’occorrenza per aprire una noce ed è sicuramente utile per piantare chiodi, ma non si dovrebbe martellare quel che andrebbe trattato con più cura e cautela, come un ingranaggio a vite filettata. Condivido pienamente questo ragionamento e soprattutto il suo senso pratico, quindi provo a riformularlo.

Senza scomodare la dialettica servo-padrone, mi viene in mente il complesso rapporto tra Vittorio Alfieri e il suo ‘fidato’ Elia, l’enigmatico e intraprendente servitore incluso tra i protagonisti del racconto autobiografico Vita scritta da esso. Oggi sappiamo che fu allontanato dal padrone per alcune imperdonabili malefatte, benché di ciò non vi sia traccia nel racconto. Più rilevante è che le cronache di Elia (i suoi diari) consentono di misurare uno scarto, con la Vita, che ci permette, forse, di afferrare quello tra geopolitica e politica internazionale. Benché i fatti riferiti a caldo dal cameriere siano propriamente i medesimi che saranno narrati a distanza dal padrone, c’è una differenza di fondo. Mi soffermo su quanto ha notato il prof. Gino Tellini con riferimento al viaggio del maggio 1770 da Stoccolma a Pietroburgo, attraverso il Baltico incrostato di ghiaccio. Le circostanze raccontate sono così combacianti che è difficile dubitare che Alfieri abbia potuto disporre del diario del servitore. Ma nel suo narrare egli tenta di comprendere il senso complessivo del fortunoso viaggio, aggiungendo qualcosa… con cura e cautela. «Il padrone vuole informare in modo veridico, ma la sua prosa procede verso un processo di astrazione nello spazio e nel tempo, per cui “ti parrebbe esser fuori dal globo”» (Storia e romanzo dell’io nella «bizzarra mistura» della Vita, Olski: Firenze, 2002, p. 215, virgolettate le parole del romanzo di Alfieri).

La geopolitica rappresenta le cronache di Elia, indispensabili all’autore del romanzo che astrae nello spazio e nel tempo. Per la politica internazionale servirsi della geopolitica è dunque utile e necessario, benché non sia sufficiente. Ma è necessario perché senza martello si va poco lontano per comprendere un sistema politico privo di governo, ossia quello internazionale. Come amava ricordare Antonio Cassese, i rapporti di potere nel diritto internazionale non occorre leggerli in filigrana, poiché si presentano brutalmente nelle circostanze del vivere quotidiano. Ripudiare la geopolitica porta più facilmente a credere davvero di vivere fuori dal globo.

La tesi sostenuta in questo fascicolo di «Paradoxa» (condivisa da tutti gli autori) è che ci troviamo nel mezzo di una transizione degli equilibri geopolitici. Lo spiega bene Attinà nel primo intervento senza usare il martello, ma impiegando il sofisticato cacciavite della teoria della complessità. La guerra in Ucraina mina quell’ordine mondiale che, sotto il prestigioso nome di «ordine internazionale liberale», si era costituito alla fine della guerra mondiale nelle vesti – qui uso io il martello – di un sistema (geopolitico) occidentale, ossia centrato sugli Stati Uniti benché sfidato in diversa misura da due potenze eurasiatiche, Russia (Urss) e Cina.

Attinà spiega come gli Stati Uniti e i paesi occidentali alleati abbiano fatto nascere istituzioni incaricate di affrontare problemi di portata mondiale, con politiche liberali su commercio e diritti benché conformi ai loro interessi. La fine della guerra fredda ha dato l’illusione di una completa occidentalizzazione del mondo (e, voglio aggiungere, anche di essere usciti fuori dal globo, almeno nei racconti/resoconti di alcuni rilevanti politologi, e non penso a Fukuyama). La decisione russa di modificare i confini di un altro stato rappresenta, secondo Attinà, il punto di svolta o di transizione dall’ordine occidentale a un nuovo ordine mondiale. Mondiale perché nel primo Novecento è emerso un sistema politico che possiamo considerare di portata planetaria. È ciò che proprio Mackinder sostenne tra i primi (e glielo riconobbe Carl Schmitt nella prefazione al Nomos, un testo dove martello e cacciavite lavorano instancabilmente). Ma non prendiamola troppo da lontano. Nell’attuale transizione, conclude Attinà, occorre tener conto di due aspetti. Da un lato, si dovrà considerare – nello scrivere il futuro ordine – che l’ordine occidentale è stato il primo basato su politiche-quadro mondiali. Dall’altro lato, che la transizione è opaca perché il nuovo ordine deve rispondere a criteri di legittimità di dimensione mondiale e non vi è accordo sull’agenda del futuro sistema di ordine, mentre persiste la delegittimazione del funzionamento di quello attuale.

La delegittimazione è il prodotto di un’aperta contestazione di quelle politiche liberali di portata mondiale conformi agli interessi occidentali, nonché di un revisionismo di tipo territoriale. Nel suo intervento Pisciotta differenzia tra tre tipi di revisionismo: normativo, riformista, territoriale. Quello di tipo normativo propone una revisione delle norme internazionali per adattarle ai cambiamenti in atto o favorire attori svantaggiati (si pensi alla dichiarazione delle Nazioni Unite per un nuovo ordine economico internazionale adottata, nel 1974, su pressione dei paesi decolonizzati; ma – vorrei aggiungere – anche a certe posizioni tenute dal gruppo dei BRICS, costituitosi sul triangolo asiatico di Russia, Cina e India, alle quali si uniscono Brasile e Sudafrica). Il revisionismo di tipo riformista punta invece alla diretta redistribuzione delle risorse economiche (obiettivo dichiarato della Belt and Road Initiative cinese). Infine, il revisionismo territoriale è quello russo nella guerra in Ucraina e mette in radicale discussione gli equilibri geopolitici. Per la sua stessa natura, infatti, tende ad essere associato all’uso della forza militare.

Qui occorre un approfondimento. I primi due tipi di revisionismo rientrano nelle dinamiche di contestazione che, benché si siano intensificate negli ultimi decenni, hanno colpito l’ordine internazionale liberale sin dalla sua nascita. In generale, le contestazioni rappresentano atti di malcontento o critica nei confronti di una questione o di un’istituzione e sono una componente della politicizzazione, ossia il trasporto del malcontento nella sfera della politica. Come sostiene Antje Wiener (A Theory of Contestation, Heidelberg: Springer, 2014), la contestazione esiste nelle relazioni internazionali come fatto in sé, poiché l’interpretazione condivisa delle norme non è intuitiva in un contesto per natura caratterizzato da eterogeneità culturale. Diverso è il caso del terzo tipo di revisionismo individuato da Pisciotta. Il possesso e la conquista del territorio sono stati per secoli obiettivi geopolitici primari. Ciò non sorprende, poiché il possesso della terra ha sempre avuto un valore economico, strategico ed emotivo intrinseco. Tuttavia, l’ordine internazionale liberale aveva reso meno redditizia/conveniente la guerra di occupazione a vantaggio dell’allargamento dei mercati e normativamente obsolescente la conquista. La guerra in Ucraina e, come sottolinea Pisciotta, gli interventi russi in altri territori tra 2008 e 2014, confermano la natura revisionista del governo di Mosca e sottolineano la pericolosità insita nel connubio tra obiettivo territoriale e azione militare, anche qualora la Russia dovesse uscire sconfitta dal conflitto.

La guerra russa in Ucraina rappresenta uno spartiacque per l’intero sistema delle relazioni internazionali, ma soprattutto per il continente europeo. Come argomenta Raimondi, la frattura politica tra Europa e Russia mette in discussione la loro profonda e decennale interdipendenza economica ed energetica. In particolare, la fine del ‘ponte energetico’ eurasiatico costruito dai tempi dell’Unione Sovietica per diminuire la dipendenza da un Medio Oriente instabile – e culminata con la misteriosa esplosione del gasdotto Nord Stream 1 nel settembre 2022 – avviene in un momento in cui il susseguirsi di crisi globali (si pensi alla pandemia da Covid-19 e agli effetti del cambiamento climatico) ha alimentato le aspettative di intervento che gli attori economici hanno nei confronti degli stati sovrani e della stessa Unione Europea.

Come sostiene Sottilotta, in linea con una concezione neoliberale dei rapporti tra stato e mercato, la principale fonte di rischio politico era considerata l’interferenza governativa nelle attività imprenditoriali (si pensi a nazionalizzazioni o espropriazioni). Tuttavia, negli ultimi anni, il livello di complessità delle sfide affrontate dagli attori economici è cresciuto in maniera esponenziale e ciò ha fatto sì che siano considerate più rischiose le ipotesi di non intervento del decisore politico nell’economia, piuttosto che il contrario.

L’analisi del rischio politico ed economico è sempre stata riferita a geopolitical disruptions, ossia a situazioni di guerra, tensioni tra potenze o problemi di varia natura che interrompono il normale andamento dell’economia internazionale e impediscono il regolare svolgimento degli scambi commerciali e delle operazioni finanziarie. Nell’attuale transizione verso un ordine post-liberale cambia la ‘rischiosità’, a livello di ambiente di business, di paesi che fino a tempi recenti erano considerati sicuri per gli investitori stranieri. Tutto ciò mina l’ordine liberale dalle fondamenta.

Sia chiaro che non parliamo di processi irreversibili. Il futuro dell’Europa è intrinsecamente legato a quello della Germania. L’attuale politica estera tedesca è al centro dell’analisi di Niglia, il quale tenta di inquadrarla in una prospettiva europea, osservando il processo in corso di ‘rinazionalizzazione’ della Germania che, tutto sommato, dinamizza il rapporto che storicamente i tedeschi hanno avuto con l’Europa e con il resto del mondo. La geopolitica del governo di tutti i giorni concerne il modo in cui i decisori politici spazializzano il sistema internazionale, attribuendo specifiche caratteristiche ad aree o regioni in un ampio diorama di luoghi di pericolo, minacce, alleanze, opportunità ecc. che sono poi alla base delle loro scelte di politica estera. Il ruolo della Germania e il suo riarmo quale conseguenza della guerra in Ucraina è di particolare rilievo per i nuovi equilibri geopolitici.

Ma mescolando nuovamente martello e cacciavite, la geopolitica è anche studio e osservazione critica di quegli spazi planetari che diventano occasione di contestazione, conflitto e confronto. Nel suo intervento, Lavorio ci porta a riflettere sugli effetti del cambiamento climatico nel teatro artico, dove gli stati e in particolare gli Stati Uniti sono stati ‘costretti’ a ripensare la loro postura strategica e la loro visione geopolitica. Nel 2007 la Russia ha rivendicato simbolicamente lo spazio artico facendo cadere un contenitore con la bandiera russa sul fondale dell’oceano da un piccolo sottomarino. Come registrò prontamente lo stesso Brzezinski, la prima grande nave cisterna russa navigò senza interruzione dall’Europa all’Asia lungo la rotta del Polo Nord nell’estate 2010 (p. 117). Lo scioglimento dei ghiacci consente di ridurre notevolmente le ore di navigazione tra Oriente e Occidente, ma offre anche opportunità di ridisegnare la geografia dell’energia in modo per ora imperscrutabile.

Il progetto Vostok Oil del 2019 sta generando un polo energetico mondiale e la possibilità che l’insediamento umano renda la rotta artica dal lato russo quella decisiva. Lavorio insiste sulla impreparazione degli Stati Uniti. La sua analisi rifugge da ogni tentazione di proporre una lettura dei rapporti di potenza nelle relazioni internazionali dipendente dal solo dato geografico, eppure il dove e il come dell’agire politico vengono prima del perché. Il potere, in questa linea interpretativa, non si presenta in una forma astratta (come poteva emergere nel Baltico incrostato di ghiaccio dell’Alfieri), piuttosto si configura come un insieme di relazioni reali concrete, fisiche e materiali. In discussione è il libero uso del mare a fini commerciali ed esplorativi, separando le res communes omnium di cui nessuno dovrebbe reclamare un diritto esclusivo, dalla res nullius, che invece potrebbe appartenere a chi fosse in grado d’impadronirsene: Mare liberum di Grozio e Mare clausum di Selden.

Nel 1996 è nato il Consiglio artico, un forum internazionale per discutere i problemi artici e delle popolazioni indigene. Il Consiglio artico include Russia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda, Groenlandia (Danimarca), Canada e Stati Uniti. L’ingresso della Finlandia e forse della Svezia nella NATO, come conseguenza della guerra in Ucraina, cambia notevolmente gli equilibri di questo forum e forse la sua stessa sopravvivenza.

Sia chiaro: è la politica che dà senso allo spazio e non viceversa. Altrettanto vero, però, è che l’agire politico si fonda sullo spazio non come mera condizione di possibilità, ma come un vero e proprio indicatore della propria legittimità. Oltre all’Artico, il Sahel è l’altra decisiva cartina al tornasole che mostra le circostanze che stanno trasformando non solo gli equilibri geopolitici, ma anche il diritto internazionale e il paradigma stesso della sicurezza internazionale. Nel suo contributo Baldaro ci porta nella regione africana che più di altre segna un confine tra Nord e Sud del mondo, in significativo divenire e per certi versi dirimente al fine di comprendere la trasformazione degli equilibri geopolitici. Il Sahel africano cattura ed esemplifica le dinamiche globali in quanto area di faglia e zona liminale tra caos africano e civiltà mediterranea, teatro della guerra al terrorismo, terra di espansione del Califfato, frontiera meridionale di un’Europa che si percepisce sotto assedio migratorio, e oggi, con l’arrivo in forza di agenti russi, nuovo terreno di competizione tra grandi potenze. L’identificazione del Sahel con una ‘terra di conquista russa’ ai confini dell’Europa costituisce solo l’ultima di una serie di etichette e riconfigurazioni che hanno plasmato l’identità di questa regione nel corso degli ultimi tre decenni.

Nella storia del pensiero politico internazionale si confrontano due gruppi di teorie. Il primo gruppo mette a fuoco la stabilità e, quindi, la conservazione dell’equilibrio (realismo), il secondo le condizioni per il perseguimento della pace perpetua (funzionalismo) (H. Kleinschmidt, The Nemesis of Power: A History of International Relations Theories, Reaktion Books: London, 2000). Il secondo gruppo è quello più agguerrito. C’è chi vede nella ricerca dell’equilibrio il seme stesso delle guerre. Le osservazioni di Lavorio e Baldaro ci aiutano a comprendere che è difficile raggiungere una pace stabile e duratura grazie al miglioramento delle relazioni quando gli spazi planetari – oggetto di contestazione, conflitto e confronto – sono privi di una legittimità condivisa. La principale qualità della nozione generale d’equilibrio è la semplicità del meccanismo che sottende per spiegare le relazioni internazionali. La ricerca dell’equilibrio è un congegno concreto per ripristinare le condizioni di stabilità o non belligeranza dopo ogni alterazione conflittuale dello status quo.

Un equilibrio tra Occidente e Oriente – in un mondo vieppiù multipolare – è possibile anche dopo la guerra in Ucraina, seguita dalle tensioni su Taiwan. Questo fascicolo non può sviluppare il tema dell’Asia e mi permetto di rinviare al libro Geopolitica dell’Asia Orientale che sto curando con Matteo Dian per l’editore Carocci. Tuttavia, in conclusione Strina e Malaschini pongono domande che, benché non dirette alla crescita economica, strategica e militare degli attori dell’Indo-Pacifico, sono tutt’altro che secondarie o accessorie. Nel primo caso, la questione dirimente è la seguente: quali sono le fonti dell’influenza culturale cinese e qual è il suo impatto sulla delegittimazione dell’ordine mondiale attuale? Dal tentativo di Pechino di promuovere l’immagine della Cina a partire dai primi anni 2000, fino alla crisi d’immagine dovuta alla gestione della pandemia da Covid-19, Strina mostra che l’evoluzione della diplomazia culturale cinese non è da inquadrare in termini di ascesa e declino, quindi di transizione verso un potere sempre più assertivo. Piuttosto occorre leggerla con le lenti della trasformazione della strategia di proiezione internazionale nell’era di Xi Jinping, il quale vede nella cultura tradizionale di stampo moralista una risorsa fondamentale per la legittimazione del ruolo della Cina come grande potenza responsabile.

Questa sorta di ‘eccezionalismo cinese’, radicalmente diverso da quello americano, deve farci riflettere. Those who reject American values are un-American. Questo è il lascito della cosiddetta Rivoluzione americana, del Freedom Trial o della cavalcata di Paul Revere. Piaccia o meno è una cultura che ci appartiene, che respiriamo da lungo tempo. Strina ci avvicina a una cultura che conosciamo ancora poco in Occidente. Se all’inizio del 2000 la teoria della fiducia di Xi Jinping si basava sulle cosiddette «tre fiducie», sange zixin, ovvero la fiducia nel proprio percorso, nelle proprie teorie e nelle istituzioni del socialismo con caratteristiche cinesi, nel 2014 fu inserita la «fiducia culturale», wenhua zixin. Con questa aggiunta, osserva Strina, non solo si è rimarcata l’importanza della fiducia nella correttezza delle politiche e nei riferimenti teorici, ma anche nell’identità cinese come combinazione della sua millenaria cultura e dell’eredità rivoluzionaria del partito.

Le domande che pone Malaschini riguardano il lascito della guerra in Ucraina rispetto alle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Da un lato, la contestazione cinese della legittimità dell’attuale ordine mondiale potrebbe spingersi fino a posizioni di aperto revisionismo. Il parallelo tra Russia-Ucraina e Cina-Taiwan, attribuendo ad Ucraina e Taiwan uno status di entità non pienamente riconosciute, potrebbe giustificare future iniziative cinesi su Taiwan. Dall’altro, potrebbe emergere un inaspettato sviluppo positivo grazie a una reale mediazione cinese in Ucraina. La recente intesa tra Iran e Arabia Saudita, raggiunta grazie alla mediazione cinese, non era credibile né prevedibile fino al suo annuncio.

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