Dino Cofrancesco – PLURALISMO LIBERALE E MULTUCULTURALISMO ANTIOCCIDENTALE

(Estratto da Paradoxa 3/2024)

Il pluralismo e i suoi equivoci

Pluralismo, come libertà, democrazia, giustizia, è uno di quei termini che illuminano le menti e riscaldano i cuori. Chi, almeno, oggi non è pluralista se il contrario di pluralismo è monismo ovvero una concezione del mondo che eleva un valore (laico o religioso) a fondamento della vita buona, ad esclusione di tutti gli altri? E tuttavia, a pensarci bene, pochi valori, più di questo, si prestano a una retorica democratica, che si traduce in diffidenza verso quanti avanzano perplessità e si pongono domande come queste: se pluralismo significa convivenza civile e pacifica tra valori e stili etici diversi, fino a che punto la tolleranza della diversità non si traduce in un indebolimento di quella identità comunitaria senza la quale nessun gruppo sociale può sopravvivere? Quali limiti ci sono al rispetto che si deve a chi è diverso da noi e organizza la sua vita in forme che i nostri padri non avrebbero mai accettate? Fino a che punto è possibile ‘venire incontro’ ai diversi senza perdere la propria anima?

A mio avviso, nel nostro paese il pluralismo non ha messo radici, soprattutto per quanto riguarda il ‘pluralismo interno’ o endogeno. Con questa espressione intendo la gamma dei valori che hanno segnato l’area euro-occidentale e che vanno, per semplificare il discorso da Voltaire a de Maistre, ovvero da proiezioni verso l’avvenire, alla difesa del passato. Diverso è il caso del ‘pluralismo esterno’, che fa riferimento a valori (relativamente) estranei alla nostra storia e alle nostre tradizioni e per i quali ci si chiede fino a che punto rendano possibile una convivenza civile tra autoctoni e allogeni, venuti a stabilirsi tra noi. Una forte comunità islamica – oggettivamente la meno assimilabile tra le etnie culturali presenti in Europa – non rappresenta un problema in paesi cristiani o, comunque, laici? Per non pochi intellettuali del nostro tempo già porsi queste domande significa essere infetti della peggiore malattia degli ultimi secoli, il razzismo, oggi non più biologico, come negli anni del trionfo del nazionalsocialismo, ma etnico e culturale. Il «divieto di fare domande» – per ricordare Elémire Zolla – caratteristica della ‘mens totalitaria’, toglie la maschera al pluralista fanatico e lo trasforma in autentico monista, nel nome dell’antirazzismo. Pierre-André Taguieff, uno degli ultimi pensatori liberali rimasti in Francia e in Europa, ha passato la vita a denunciare il fanatismo pluralista e l’antirazzismo che hanno prodotto il ‘politicamente corretto’.

Ma vi ritorneremo. Prima di entrare in medias res proporrei qualche altra distinzione importante e chiarificatrice, differenziando un’accezione debole di pluralismo da un’accezione forte. Quella debole – senz’altro la meno divisiva – descrive, in sostanza, la società moderna. Nello scritto Sotto la scure del fascismo (1936), Gaetano Salvemini così ricordava l’Italia prefascista: «Durante il mezzo secolo in cui ci fu un governo libero, sorsero associazioni di ogni genere: circoli politici, religiosi, filantropici, sportivi, educativi, ricreativi; società di mutuo soccorso; cooperative di consumo e di produttori; cooperative edilizie; leghe di mestiere; associazioni di industriali, proprietari terrieri, banchieri, professionisti, funzionari di pubbliche amministrazioni, preti, insegnanti, studenti; associazioni di reduci, invalidi di guerra ecc. Alcune di queste associazioni erano riunite in organismi nazionali, altre erano prive di legami, ma tutte vivevano in libera concorrenza tra di loro sotto l’egida delle più svariate etichette politiche e religiose. Oggi Mussolini e i fascisti possono dire come Sganarello di Molière: ‘Nous avons changé tout cela’.!!». Sennonché non si sarebbe potuto dire lo stesso dell’Inghilterra o della Francia o della stessa Austria-Ungheria, tutti paesi ‘moderni’, anche se in diversa misura? Nell’accezione debole – per non scomodare l’eccelso Alexis de Tocqueville con la sua esaltazione delle libere associazioni viste in America – il pluralismo è proprio quello descritto dallo storico pugliese: è il pluralismo sociale che dal più al meno caratterizza tutti i paesi della Terra.

Ben differente è il ‘pluralismo dei valori’, la cui valutazione diventa sempre più divisiva e problematica. Michael Walzer, che al tema del comunitarismo ha dedicato i suoi saggi più rilevanti, nell’articolo Éloge du pluralisme démocratique («Esprit», mars-avril 1992) rileva due accezioni della nozione di pluralismo non sufficientemente distinte: «Anzitutto, c’è un pluralismo che si riferisce ai beni sociali e alle sfere di giustizia che essi costituiscono, con i loro diversi principi di distribuzione e le procedure che ad essi corrispondono. C’è poi il pluralismo delle identità sociali e delle culture etniche e religiose da cui sono generate». Queste forme di pluralismo, a suo avviso, andavano accettate in quanto inseparabili da ogni «società moderna e complessa. Possono venir represse al prezzo della tirannia e della brutalità, ma giammai essere eliminate». C’è però un altro pluralismo, sottolinea Walzer, evocato dalla scienza politica americana fin dagli anni ‘60, il cui significato è «più ristretto ed apologetico. Esso pretende che il potere nella società americana è radicalmente frammentato e disperso: non c’è sovrano, né centro, né classe dominante, né élite del potere; ci sono solo cittadini liberali, organizzati in una serie di gruppi che si fanno da contrappeso ed esercitano i loro diritti democratici». Su questo tipo di pluralismo – che anche nel nostro paese ispira libertarians e mercatisti – il giudizio di Walzer è severo: non è evidente che «la frammentazione sia un valore democratico. Certo, desideriamo talvolta che il potere sia diviso: ma il fine di ogni movimento politico serio è di accedere al potere e consolidarlo per poterne fare uso».

In questo saggio lasciamo da parte questa accezione di pluralismo, che si potrebbe definire nichilistica, non foss’altro che per il suo tradursi in acqua ragia, il cui potere solvente dovrebbe segnare la fine dello Stato moderno, con le sue leggi valide erga omnes. Si tratta di posizioni monistiche dettate da un fanatismo ideologico che sembra funzionale a una globalizzazione intesa a polverizzare tutte le frontiere, anche quelle culturali, per rendere più agevole il libero scambio di merci e di capitali.

Dei fautori del pluralismo in senso forte, come vedremo, nessuno, in realtà, evoca la fine dello Stato, che si vorrebbe semmai ‘snazionalizzare’ per non far sentire i nuovi cittadini – portatori di valori diversi e lontani da quelli delle comunità in cui vengono ospitati – a disagio dinanzi a simboli (religiosi ma anche laici), identità, tradizioni che sentono estranei. Lo Stato, in quest’ottica, dovrebbe soltanto garantire i diritti individuali, politici e sociali limitandosi a esigere, in cambio, il rispetto delle leggi e la fedeltà alla Costituzione. Da tempo, ormai, questa è la posizione del liberalismo individualistico e razionalistico (in un recente saggio l’ho opposto al liberalismo comunitario), che fa, giustamente, del pluralismo un ingrediente necessario del liberalismo ma finisce, de facto, per riguardare quest’ultimo come una sorta di ‘pluralismo dei moderni’. Una posizione, va detto, sostanzialmente condivisa anche dal ‘comunitario’ (ma lo è poi rimasto davvero?) Michael Walzer che nel saggio Che cosa significa essere americani (Ed. Marsilio, 1992), fa rilevare che nella repubblica americana: «cultura etnica e religione sono state decisamente relegate nella sfera privata. La vita emotiva dei cittadini degli Stati Uniti è vissuta prevalentemente nel privato – il che non significa in solitudine, ma in gruppi considerevolmente più piccoli della comunità di tutti i cittadini nel loro insieme. Gli americani sono comunitari nei loro affari privati. Individualisti in quelli pubblici. La società è una collezione di gruppi, lo Stato un’organizzazione di cittadini individui. E la società e lo Stato, benché interagiscano costantemente, sono formalmente distinti. Per avere sostegno, conforto e senso di appartenenza, gli uomini e le donne americani si rivolgono ai loro gruppi; per la libertà e la mobilità si rivolgono allo Stato». Contrapponendosi nettamente alle analisi storico-sociologiche di Arthur M. Schlesinger Jr (La disunione dell’America, Ed. Diabasis, 1994) e di Samuel P. Huntington (La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Ed. Garzanti, 2005) Walzer giunge a conclusioni in linea più con il pensiero di Jürgen Habermas che con quello di Isaiah Berlin: «l’identificazione etnica dà significato alla vita di molti uomini e donne, ma non ha nulla a che fare con l’essere cittadini. Difendere questa distinzione ha valore anche se implica avere un mondo nel quale non c’è alcun significato garantito. In una società culturalmente omogenea può essere promossa un’identità particolare che deliberatamente fonde la cultura e la politica. Questo il governo degli Stati Uniti non può farlo. Il pluralismo è ancora un esperimento, la cui validità deve ancora essere provata contro il più antico potere (nel senso storico e teorico) dello Stato-nazione».

La lezione ignorata di Isaiah Berlin

In tal modo, però, va perduta irreparabilmente la lezione di Isaiah Berlin, filosofo liberale (e socialdemocratico), il massimo studioso del pluralismo nel Novecento, che, nella lettera a Beata Polanowska-Sygulska del 18 febbraio 1997, così sintetizzava il senso delle sue ricerche storiche e delle sue indagini sul pluralismo: «Una prospettiva pluralista non [deve] necessariamente essere liberale: io ho un certo set di credenze con le quali vivo, un certo orizzonte di valori che sono miei – può darsi quelli della società a cui appartengo – ‘la nostra civiltà’. Essere pluralista significa che le scelte mie e della mia civiltà non sono necessariamente universali; possono esserci altre civiltà, nel passato o nel presente che perseguono valori incompatibili con quelli della mia civiltà. Se sono un pluralista, significa che comprendo come le persone possono giungere ad accettare questi altri valori, che sia per le loro circostanze storiche o geografiche, o per qualunque altra ragione: il punto è che io non li rigetto in quanto non miei e dunque nulli per me — come fa il vero relativismo – ma cerco di comprendere che tipo di mondo è per coloro che non condividono le mie credenze, e come si può arrivare a perseguire valori che non sono i miei. Se sono un liberale li tollero; la mera esistenza della pluralità dei valori non mi impone di tollerarli – li tollero non perché sono un pluralista ma perché sono un liberale – è accaduto che la mia civiltà sia liberale».

Berlin, parlando di «tolleranza», non confondeva le acque. La pluralità dei valori era un fatto – di cui non si poteva non tener conto in quanto inseparabile da ogni «società moderna e complessa» – per riprendere le parole di Walzer – ma non pertanto diventavano termini interscambiabili. Il liberalismo rinviava a una specifica etica politica ed era una scelta di vita, il pluralismo si situava sul terreno della conoscenza ed era finalizzato a comprendere gli altri e, sul piano delle ricadute nell’agire, serviva a stabilire fino a che punto si potesse vivere con loro. Ed era proprio sul piano conoscitivo che Berlin – destando non poche perplessità nel suo recensore Norberto Bobbio – rivalutava il Romanticismo, riguardato non come mera reazione sentimentale al razionalismo illuministico e al dramma rivoluzionario, ma come capacità di vedere facce del prisma umano che sfuggivano ai philosophes e ai politici che ne mettevano in pratica gli insegnamenti. Come scriveva ne Le radici del Romanticismo (1999), «Dobbiamo anche al romanticismo l’idea che una risposta unitaria nelle questioni umane rischia di essere rovinosa, che se credi davvero che esista un’unica soluzione a tutti i mali umani e che devi imporre questa soluzione a qualunque costo, rischi di diventare un tiranno violento e dispotico in nome della tua soluzione, perché il tuo desiderio di rimuovere tutti gli ostacoli finirà per distruggere quelle creature al cui beneficio è volta la soluzione. L’idea che ci sono molti valori e che sono incompatibili; l’intera nozione di pluralità, di inesauribilità, di imperfezione di tutte le risposte e disposizioni umane; l’idea che nessuna singola risposta che pretenda di essere perfetta e vera, sia nell’arte che nella vita, possa in linea di principio essere perfetta o vera – tutto questo lo dobbiamo ai romantici».

Berlin apprezzava l’illuminismo non meno di Bobbio. Ne I filosofi dell’Illuminismo (1956) aveva scritto che «la potenza intellettuale, l’onestà, la lucidità, il coraggio e il disinteressato amore per la verità dei più dotati tra i pensatori settecenteschi rimangono a tutt’oggi ineguagliati. La loro epoca è uno dei migliori e più promettenti episodi nella vita dell’umanità»; ma lo scienziato che era in lui teneva rigorosamente distinte le idealità liberali e le necessità di fare i conti con un mondo in continua trasformazione (e non sempre in meglio). Possiamo – e in un certo senso siamo costretti a – convivere civilmente con gli altri ma noi siamo noi e loro sono loro.

Il pluralismo laico e cattolico toglie sostanza spirituale allo Stato ma il multiculturalismo pone problemi ai vecchi liberali

Era, questa, una posizione che Bobbio, i filosofi neo-illuministi, i pensatori cattolici non avevano molto approfondito: per loro il pluralismo era una cosa buona, a prescindere, e pienamente in linea, rispettivamente, con il liberalismo o con le dottrine sociali della Chiesa. In una lettera da Torino del 18 novembre 1993, riassumendo il senso dei suoi scritti sul pluralismo, mi scriveva: «leggo sempre volentieri i tuoi scritti per la finezza analitica dei tuoi ‘distinguo’. Ma l’ultimo, su liberalismo e pluralismo mi ha lasciato qualche dubbio. Se s’intende per pluralismo, nel suo significato concreto, la convivenza pacifica di più gruppi in una società politica, non c’è nessun contrasto tra liberalismo e pluralismo. Tutt’al più si potrebbe dire che ci possono essere società pluralistiche, come la società feudale, che sono pluralistiche senza essere liberali (tu fai l’esempio appropriatissimo delle città di mare mediterranee). Ma non ci può essere uno stato liberale che non presupponga e consenta la pluralità di gruppi politici, culturali, religiosi ecc.».

Sennonché «la convivenza pacifica di più gruppi in una società politica» rinviava all’accezione debole del pluralismo (non a caso Bobbio, in un suo saggio molto impegnativo, citava proprio il brano di Salvemini su riportato) sicché il pluralismo diventava un vero e proprio sinonimo di liberalismo («i valori sono tanti e la loro dialettica è garante di libertà»). Il problema, però, nasce quando le visioni del mondo sono incompatibili e la libertà, per sopravvivere, deve chiudere il rubinetto dell’incompatibile varietà.

Per i filosofi cattolici – v il saggio di Francesco Viola, Pluralismo e tolleranza, nel Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Ed. Studium, 2007) – «a ben guardare, è evidente che il venir meno di strutture unitarie o di orizzonti comuni della vita pratica, cioè di quelle che si chiamavano con espressione essenzialistica l’etica, la politica, il diritto, la religione, l’economia, rende il confronto e il dialogo tra tutte le loro varianti interne difficile e non di rado impossibile». Il problema, per Viola, come per i filosofi analitici, è quello di togliere sostanza spirituale allo stato nazionale, in una nuova visione del mondo che, in definitiva, maschera, nel linguaggio (e nella retorica) della complessità, l’incapacità di fornire coordinate concettuali, capaci di orientare l’agire. «La comunità politica è possibile solo a condizione che la diversità contemporanea trovi la possibilità di comunicare e costruisca consapevolmente spazi interculturali comuni. Poiché è segnata dalla diversità, la società politica non può essere considerata una comunità morale, che ha una visione uniforme del bene. La politica deve poter accogliere in sé una vasta pluralità di concezioni del bene. Esse non vengono semplicemente tollerate (nel senso di sopportate), ma approvate e convalidate, pur se in una dimensione critica, mediante giudizi di compatibilità».

Va detto che ai liberali laici, il pluralismo esterno poneva – e lo si comprende bene – non pochi problemi. Nella lettera citata, Bobbio così proseguiva: «Ma se s’intende per ‘pluralismo’ […] il ‘multiculturalismo’ e cioè la richiesta che in una società multirazziale ogni gruppo etnico abbia diritto al rispetto della propria diversità, questa situazione dovrebbe essere confrontata con la soluzione opposta, prevalente sinora nei paesi di forte immigrazione, dell’‘assimilazione’ o del ‘melting pot’. Il ‘multiculturalismo’ è una reazione alla politica dell’assimilazione e mi pare che il liberalismo non c’entri. Come tutte le reazioni il multiculturalismo pecca per eccesso: posso capire la libertà delle ragazze musulmane di indossare lo chador a scuola; non si possono accettare, come dici tu, certe pratiche sul corpo umano che noi giustamente consideriamo illecite. È questione di misura. Del resto, è soltanto nella società liberale che è tollerata la ‘diversità’ religiosa, cioè il diritto di ciascuno di adorare il proprio Dio. Assimilazione e multiculturalismo sono due soluzioni opposte che soltanto in una società liberale, rispettosa dell’uguaglianza in ciò che gli uomini sono uguali e della differenza in ciò che sono diversi, possono trovare una soluzione di compromesso. Compito difficile che sta innanzi a paesi, come l’Italia, che solo da pochi anni conosce il fenomeno dell’immigrazione».

Se ne deduce che il multiculturalismo non solo non ha nulla a che fare con il liberalismo, ma rappresenta un polo dal quale il secondo deve tenersi a cauta distanza, come pure deve tenersi dall’assimilazionismo che, in realtà, è molto meno lontano dal modello di ‘società aperta’ caro ai liberali d’antico stampo (Bobbio se ne sarebbe reso conto leggendo La nuova America di Huntington, peraltro pubblicato in italiano l’anno dopo la sua morte nel 2005).
Ben più preoccupato dall’impatto delle etnie culturali sulla società aperta si mostrava l’altro corifeo del liberalismo italiano, Nicola Matteucci – non a caso un liberale storicista – che così concludeva la voce «Pluralismo» («Enciclopedia delle scienze sociali», 1996). «Ma oggi si presentano nuovi problemi. Si parla molto di società multiculturali e di società multietniche, senza accorgersi che cultura ed etnia sono cose diverse, o meglio, non coincidenti, e senza tenere presente il fatto che l’integralismo islamico rappresenta un grave fattore perturbante per un vero pluralismo. Le diverse nazioni culturali possono benissimo coesistere, anzi lo scambio reciproco si traduce in un autentico arricchimento per tutti, ma le etnie sono società chiuse, legate ai ricordi del proprio passato e con vincoli di sangue: è la parentela e non la cittadinanza a tenerle unite. Il terzo millennio pone al pluralismo proprio questa sfida, quella delle società multiculturali e multietniche. È una sfida aperta, densa di rischi e di pericoli. Il solo pluralismo possibile è quello ‘ragionevole’ di Rawls, perché, dove c’è frattura sui valori ultimi, appare soltanto una irrazionalità aggressiva. Il pluralismo può darsi solo all’interno di una cultura condivisa, che abbia alcuni valori comuni, soprattutto quello della tolleranza».

C’è da chiedersi solo: «ma cos’è poi la tolleranza?». Ed è davvero possibile tollerare il diverso se in lui non vediamo valori che appartengono anche a noi ma che noi disponiamo in un diverso ordine gerarchico e ai quali conferiamo un peso differente?

La filosofia sociale di Alessandro Dal Lago. Quando la difesa del multiculturalismo si traduce nella delegittimazione della dimensione comunitaria

Sono passati ventiquattro anni dalla pubblicazione della voce di Matteucci sul pluralismo. Molte cose sono cambiate e il dibattito si è definitivamente spostato sul tema del multiculturalismo, divenuto ormai sinonimo di pluralismo. Al confronto delle idee, però, si è sostituito una sorta di inventario dei nemici del pluralismo, le cui riserve – in tema, ad es., di immigrazione – sono diventate la riprova del ‘fascismo eterno’ (divenuto, a sua volta, sinonimo di razzismo) ‘duro a morire’, come si diceva una volta del Medio Evo. Qualche anno fa Pierre-André Taguieff, tra i pochi eredi spirituali dei Raymond Aron e dei François Furet, parlando dell’immigrazione – v. L’immigrazionisno o l’ultima utopia dei benpensanti, «Il Covile», n. 405, 2007 – scriveva: «La ‘lepenizzazione’ dell’avversario è diventata in Francia uno strumento di guerra ideologico-politica, la cui prima conseguenza è di avvelenare di sospetti e di autocensure il dibattito pubblico. ‘Lepenizzare’ qualcuno, nello spazio pubblico, è un modo di trattarlo da ‘razzista’, dunque di escluderlo dal cerchio delle persone rispettabili e degli interlocutori possibili. Questa macchina delegittimante arriva a trarre tutte le conseguenze da una semplice definizione che, con la ripetizione, ha preso valore di evidenza: un ‘lepenista’ o un ‘razzista’ è un individuo abietto che pratica il ‘rifiuto dell’altro’. Aderendo al credo immigrazionista, non ci si deve più interrogare sulla questione del perché occorre accettare l’’altro’, e più precisamente qualsiasi ‘altro’». Quanti intendono porre limiti e condizioni all’immigrazione ormai sono assimilabili, spiritualmente, ai cadaveri che l’anatomopatologo viviseziona in laboratorio: si istituiscono cattedre universitarie, si fondano Dipartimenti e persino Facoltà per studiarne le malattie e individuarne le profilassi. Per non parlare, ovviamente, dei dottorati di ricerca, del diluvio di tesi di laurea, degli stages dedicati al razzismo, ‘cancro del secolo’. È il (presunto) antirazzista, ovviamente, che decide se tu hai contratto il morbo razzista: tu puoi solo decidere se vuoi ‘guarirne’.

Nell’incontenibile profluvio di scritti dedicati al pluralismo-multiculturalismo, difficilmente il lettore riesce a farsi un’idea delle ragioni e delle argomentazioni di quanti, pur non avendo nulla a che fare col fascismo, mettono in guardia da una trasformazione radicale dei paesaggi fisici (urbani e rurali) e spirituali in cui gli uomini erano cresciuti e che facevano parte della loro identità. Pubblicazioni come Pluralismo culturale in Europa (Ed. Dedalo, 1995), Pluralismo e libertà fondamentali (Ed. Giuffré, 2004), Multiculturalismo. Ideologie e sfide (Ed. il Mulino, 2006), case editrici come il Mulino, Laterza, Einaudi, Feltrinelli, le pagine culturali dei grandi quotidiani nazionali, i saggi di filosofi del diritto e antropologi filosofi come Mauro Barberis, Francesco Remotti, Francesca Rigotti, Mario Ricciardi, Annamaria Rivera, Nadia Urbinati, per limitarci a questi, non forniscono elementi conoscitivi rilevanti per la comprensione dei dilemmi tragici del nostro tempo, ma solo armi polemiche da impiegarsi contro avversari politici degradati a ‘nemici interni’ di una democrazia insidiata dai nuovi barbari (‘interni’, beninteso!).

Un caso emblematico è costituito dal lungo saggio di Alessandro Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra culture? Una riflessione storico-metodologica – nel citato volume collettaneo curato da Carlo Galli, Multiculturalismo. Ideologie e sfide. Il compianto Dal Lago è stato uno dei sociologi più prestigiosi dell’Università italiana: studioso di grandissima cultura, esploratore di campi d’indagine poco battuti – come la sociologia dello sport –, polemista non conformista (a sinistra fu critico implacabile di Roberto Saviano), lettore appassionato dei classici delle scienze filosofiche e sociali, da Georg Simmel a Hannah Arendt, ha lasciato un grande vuoto nella repubblica delle lettere difficile da colmare. Eppure un analista così raffinato, a sostegno della sua tesi che «l’esistenza dei migranti è una confutazione del carattere indispensabile della cultura per gli individui», riesce a stravolgere, ai limiti della caricatura, il pensiero di prestigiosi scienziati politici come Samuel P. Huntington e Giovanni Sartori e di una grande giornalista come Oriana Fallaci, lontani anni luce dal suo ‘buonismo’ immigrazionista. Per Dal Lago, i migranti «non saranno mai considerati individui attivi e mobili — qualcosa che non si può tollerare per gli altri — ma ‘islamici’, ‘maghrebini’, ‘sudamericani’, ‘asiatici’ ecc. Nonostante la loro presenza sia quantitativamente più o meno irrisoria, costituiranno la giustificazione dell’esistenza di una società ‘multiculturale’. Perché, interpretando gli stranieri come culture, la nostra società pensa di conoscerli e di proteggersi da loro. E questo significa che essa ha paura della loro fluidità e della loro mobilità, non della loro estraneità culturale, soprattutto se minoritaria e recintata». L’ideale (dichiarato) del filosofo-sociologo è l’ibridazione universale, la Terra insidiata dal mare in cui tutte le città saranno porti accoglienti in cui le etnie culturali non vincoleranno più gli individui liberi e liberi, appunto, di ibridarsi. «E soprattutto, ecco lo scandalo ancora più grande, l’individuo non è il microcosmo rappresentativo della sua supposta cultura originaria, ma qualcuno che ha operato un assemblaggio di culture diverse, insomma un ibrido, un meticcio. Il migrante suscita sospetto, paura e ostilità, perché, che lo voglia no, è un veicolo di ibridazione. Definendo il migrante come il tipo fluido, cioè marino, per eccellenza, sottolineo il fatto che egli confuta non tanto l’idea di cultura in generale, quanto quella territoriale, ctonia. Non possiamo identificare il mare con una cultura stabilmente dominante (e soprattutto capace di forgiare completamente i suoi membri), come è invece implicito nelle raffigurazioni di senso comune delle culture. Se mi è concesso un richiamo alla metaforologia, azzarderei che l’idea di cultura oggi prevalente poggia su una metafora terrestre. Nello spazio prescientifico dell’immaginazione che richiamavo sopra, l’idea di cultura nel senso più forte […] ha senso solo se è associata alla terra, a uno spazio di radicamento, al focolare, all’oikos, al maso. Invece, nella dimensione marina le culture sono inevitabilmente esposte all’interferenza».

Ognuno ha il diritto di coltivare il suo ideale di umanità e Dal Lago aveva certo quello di auspicare un mondo in cui la libertà del marinaio potesse aver ragione dell’attaccamento alla terra del contadino. Sennonché quale sarà poi il destino di quanti non amano il mare ma sono legati a tradizioni, a usi e costumi, a codici linguistici, a panorami che vorrebbero sottrarre (per quanto è possibile) all’usura del tempo? Verranno rieducati o privati del diritto di voto?
Ed ecco quanto Dal Lago scriveva di Huntington: «Il presupposto implicito di Huntington è che, diversamente dall’Occidente, tutte le altre civiltà siano fatalmente condizionate da uno specifico stigma culturale: il tradizionalismo ortodosso, l’autoritarismo cinese, il fanatismo islamico, il tribalismo africano, il parassitismo sudamericano, l’arroganza giapponese». È una dottrina che «corrisponde a un comune sentire occidentale, diffuso in primo luogo tra studiosi del mondo islamico, osservatori di politica internazionale e opinion-makers. Huntington, insomma, ha dato forma sintetica (nonostante la mole dei suoi libri) a un sistema di pensiero diffuso che aspettava solo un profeta. Spetterà poi a ‘grandi firme’ del giornalismo popolare, come Oriana Fallaci, tradurre la visione del dotto in formule a sensazione (la ‘barbarie’ islamica, la ‘vigliaccheria’ dell’Occidente, la democrazia ‘imbelle’, l’’invasione’ degli immigrati islamici e così via). Lo stile di pensiero Huntington-Fallaci offre una rilettura ipersemplificata, se non parodistica, della storia in base a poche semplici opposizioni, tutte debitrici della trasformazione meramente lessicale di problemi egemonici e geopolitica in questioni culturali».

Ma che cosa hanno veramente detto gli antimulticulturalisti?

In realtà, era Dal Lago a ipersemplificare. Ne Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (Ed. Garzanti, 2001) Huntington così sintetizzava la sua tesi: «La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologia né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro» e, a suo sostegno ricordava le infinite volte in cui le minoranze etno-religiose presenti nei grandi teatri di guerra del pianeta avevano chiesto la protezione degli stati governati dai loro correligionari. Tale constatazione, però, non si risolveva certo nel suprematismo bianco. «L’Occidente – ricordava – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata [il potere militare]. Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». E ancora «nel mondo che emerge, un mondo fatto di conflitti etnici e scontri di civiltà, la convinzione occidentale dell’universalità della propria cultura comporta tre problemi: è falsa, è immorale, è pericolosa… l’imperialismo è la conseguenza logica e necessaria dell’universalismo». Non era certo, questo, lo stile dell’imperialismo yankee.

È forse superfluo aggiungere che nessun approfondimento Dal Lago aveva fatto delle analisi del Giovanni Sartori di Pluralismo, multiculturalismo e stranieri. Saggio sulla società multietnica (Ed. Rizzoli, 2000). Per Sartori: «I liberals americani che difendono il multiculturalismo parlano di una politica del riconoscimento (recognition). Ma convenientemente dimenticano di precisare che un contesto pluralistico postula un riconoscimento reciproco. Un riconoscimento che viene ricambiato da un radicale disconoscimento è anti-pluralistico. L’attacco a testa bassa contro gli autori ‘maschi, bianchi e morti’ che sono stati gli autori canonici della civiltà occidentale (ivi includendo Dante e Shakespeare) è soltanto espressione di radicale incultura; e redimerlo sotto il manto del pluralismo è analfabetismo o altrimenti disonestà intellettuale». Sartori, storico del pensiero politico prima ancora che scienziato politico, pensava di aver individuato un nesso tra il ‘politicamente corretto’ e la rivolta anticapitalistica: «oggi la versione vincente del multiculturalismo è una versione antipluralistica. Difatti le sue origini intellettuali sono marxiste. Prima di approdare negli Stati Uniti e di americanizzarsi, il multiculturalismo prende l’avvio da neomarxisti inglesi a loro volta fortemente influenzati da Foucault; e si afferma nei colleges, nelle Università, con la introduzione di ‘studi culturali’ la cui messa a fuoco è sulla egemonia e sulla ‘dominazione’ di una cultura su altre. Anche in America, allora, i teorici del multiculturalismo sono intellettuali di lata formazione marxista, che forse nel loro subconscio rimpiazzano la lotta di classe anticapitalistica che hanno perduto con una lotta culturale anti-establishment che li torna a galvanizzare. E per quanto negli Stati Uniti sia più difficile ignorare il pluralismo di quanto non lo fosse nella tradizione marxista europea, anche così i marxisti americani approdano a un multiculturalismo negatore del pluralismo a tutto campo: sia per la sua intolleranza, sia perché rifiuta il riconoscimento reciproco, sia perché fa prevalere la separazione sulla integrazione».

C’è da dire, però, che forse Sartori non sospettava la funzionalità del multiculturalismo alla globalizzazione e alla tendenza di quest’ultima a fare del globo terracqueo una immensa pianura senza più alture comunitarie atte a impedire o a ritardare lo scambio universale delle merci, di qualsiasi tipo. Un disegno, a ben riflettere, non molto diverso dall’ibridazione cara a Dal Lago, nemico giurato delle frontiere e delle tradizioni da conservare. Ma è un discorso, questo, da rinviare ad altra sede.

Il fantasma del pluralismo nel ‘bel paese’

In Italia, lo si è visto, il pluralismo inteso come multiculturalismo è fortemente divisivo. Chi teme l’ibridazione viene riguardato tout court come un razzista, sol che si pensi alle reazioni suscitate da La rabbia e l’orgoglio (2001) di Oriana Fallaci in scrittori come Tiziano Terzani, Dacia Maraini, Umberto Eco, Alessandro Portelli. Per Bernard-Henri Lévy (che si è spinto a mettere sullo stesso piano La rabbia e l’orgoglio e le Bagattelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline) la Fallaci, nel suo stile aggressivo e provocatorio, aveva ammonito gli occidentali: «E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente cioè d’apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci». Nessun critico aveva risposto alle sue domande: è vero che gli immigranti islamici, a differenza non solo di quelli provenienti da paesi di cultura cristiana (russi, bulgari, ungheresi, rumeni, sloveni) ma anche di altri non cristiani (cinesi, vietnamiti, induisti) rappresentano un problema per i paesi ospiti? (Per averlo sostenuto una sociologa dell’Università di Stoccolma è stata licenziata). È vero che non solo non intendono integrarsi ma esigono la rimozione dei simboli storici che costituiscono le nostre identità? Come ha detto bene Alessandro Gnocchi nel suo saggio I nemici di Oriana. La Fallaci, l’Islam e il politicamente corretto (Ed. Melville, 2023): i critici «preferiscono ribattere sulle esagerazioni verbali e sulle questioni accessorie. […] Oriana Fallaci, con la chiarezza delle sue posizioni, costringe invece a riflettere sul ruolo che l’Italia vuole assumere nel mondo e su cosa significhi essere italiani all’inizio del nuovo millennio. Domande tuttora in attesa di una risposta».

Neppure quello che ho chiamato ‘pluralismo interno’, però, gode di buona salute nel nostro paese o meglio non ne gode più a differenza che nel passato, quando, nell’Italia umbertina e giolittiana, poteva capitare che, in un’inchiesta sul nazionalismo, un prince de l’esprit, come il socialista Alessandro Levi, potesse mostrare tanta considerazione e rispetto per i suoi avversari politici nazionalisti.

In realtà si ha autentico pluralismo quando alle diverses familles spirituelles di una nazione viene riconosciuta pari dignità sul piano dei valori e cattolici e non credenti, conservatori e progressisti, liberali e comunisti vengono considerati portatori di idealità rispettabili. Il fatto di non essere condivise non significa che debbano venire espulse dall’umano ma che, nella gerarchia dei valori, non occupano per tutti lo stesso posto. Anche per i socialisti «la patria era sul Grappa» ma, a differenza degli interventisti (di destra e si sinistra), non avrebbero scatenato una guerra destinata a travolgere la civiltà europea e a spostare in altri continenti l’asse del potere planetario.

Giancarlo Bosetti, nel saggio La verità degli altri. La scoperta del pluralismo (Ed. Bollati Boringhieri, 2019), ha scritto che per il pluralismo «il conflitto non è solo tra il bene e il male ma tra valori tutti degni di essere moralmente perseguibili: la libertà confligge infatti con l’eguaglianza o con l’ordine pubblico, la clemenza con la giustizia, l’amore con l’imparzialità, l’impegno sociale con il perseguimento della verità, la conoscenza con la felicità, la spontaneità con la responsabilità». Giustissimo ma nell’elenco manca qualcosa: la comunità politica, ovvero la dimensione dell’appartenenza a una storia, a una tradizione, a una cultura che rappresentano per lo Stato una risorsa oggettiva, a disposizione sia di un regime libero che di una dittatura. Tale dimensione può confliggere con la democrazia liberale se quest’ultima si regge su partiti così ideologicamente distanti da non trovare alcuna forma di accordo per salvaguardare, al di là delle ‘regole del gioco’, il ’campo da gioco’, ovvero lo Stato (nazionale o federale che sia) che è nell’interesse di tutti avere di sana e robusta costituzione. Per il vero pluralista, gli stessi regimi totalitari – fascismo e comunismo – sono le degenerazioni di valori forti e condivisi: il trionfo della giustizia sociale, nel caso del comunismo; la difesa «dell’unità e della potenza» della nazione, nel caso del fascismo. La storia ci fa comprendere gli errori delle classi dirigenti, degli attori sociali più rilevanti, del mondo della cultura, di banchieri e di imprenditori, di sindacalisti e di agricoltori che hanno trasformato in aceto totalitario il vino di valori che tutti apprezziamo. Ma a differenza del monista, che si trova a suo agio solo nell’eterna guerra civile contro i fantasmi totalitari, il pluralista fa sua la frase di Publio Terenzio Afro, homo sum: humani nihil a me alienum puto («sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me»).

Come ho scritto in altra sede, «Una società libera non si fonda semplicemente sul riconoscimento della ‘diversità’ né su strategia volte a neutralizzare le conseguenze spiacevoli che possono derivare dalla convivenza di gruppi sociali che si richiamano a visioni del mondo incompatibili. Il motivo vero per il quale siamo disposti a riconoscere e a rispettare la diversità sta nel fatto che, sotto la diversità, c’è l’unità, ovvero la sensazione che i valori – quelli di cui gli uomini vivono e per cui sono disposti a sacrificare la vita – sono, alla stregua dei monumenti artistici e dei saperi scientifici, patrimonio dell’umanità Cosa significa questo? Significa che a dividerci non sono gli ideali che hanno segnato, con le loro luci e le loro ombre, la storia dell’Europa e dell’occidente – le terre che hanno visto l’alba e oggi stanno vedendo forse il tramonto della ‘civiltà liberale’ – bensì, ancora una volta, il posto che siamo disposti ad assegnare a ciascun valore nei nostri progetti di vita e che ci orientano poi, in pratica, nella scelta dei partiti ai quali dare il voto». Repetita iuvant: se riflettiamo su idealità come l’Autorità, la Libertà, il Progresso, la Solidarietà sociale, la Libera iniziativa, la tutela dell’ordine pubblico, la difesa della vita – nelle sue varie forme: umane, ambientali, animali – etc, etc., non possiamo dire che ce ne sono alcune da cancellare in quanto incompatibili con la humana dignitas. Una political culture che demonizzi l’avversario, trasformandolo in nemico implacabile, è del tutto incompatibile col pluralismo. Ma questo è lo stile prevalente nel dibattito pubblico italiano. Quando la competizione elettorale avviene tra gli squilli di tromba e gli altoparlanti, che giorno e notte annunciano che «Annibale è alle porte», non c’è democrazia liberale che tenga perché non c’è pluralismo liberale. Quest’ultimo, infatti, non teorizza la lotta tra il bene e il male, ma il confronto (pur se conflittuale) tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra, tra amanti dell’ordine e innovatori.

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