Dino Cofrancesco e Laura Paoletti – IL PATRIMONIO DELLA DESTRA: NASCONDERE CON CURA

(Editoriale di Paradoxa 1/2022)

Il nostro non è solo il paese in cui fioriscono i limoni, come si legge nel Wilhelm Meister: ancora più imponente è la produzione delle retoriche e dei luoghi comuni in tutte le stagioni della nostra storia nazionale. Tra i topoi più diffusi c’è quello che ‘la destra non ha cultura’, che gli elettori dei suoi partiti non leggono o leggono poco (e certo non li si incontra spesso nelle Librerie Feltrinelli), che il suo rapporto con gli intellettuali è inesistente se non conflittuale. Come in tutte le frasi fatte – a cominciare da quella che ‘non esistono più le mezze stagioni’ –anche in questa c’è del vero. Basta guardare le terze pagine dei quotidiani del centro-destra – alle quali a qualcuna delle voci qui raccolte capita di collaborare – per rendersi conto del difficile rapporto di quest’area politica con la cultura. (Sono finiti i tempi in cui «Il Giornale» di Montanelli era divenuto il punto di ritrovo di tutta l’intellighenzia liberale italiana, conservatrice o non: da Renzo De Felice a Rosario Romeo, da Domenico Settembrini a Giuseppe Are, da Nicola Matteucci a Vittorio Mathieu, per non parlare degli stranieri come Raymond Aron e François Fejto.)

E tuttavia un conto sono gli attori politici conservatori o liberalconservatori, che scendono in campo per un seggio parlamentare o un ministero, un conto ben diverso è il patrimonio di pensiero che, senza pregiudizi o forzature ideologiche, sembra collocabile a destra. In realtà, in Italia abbiamo un’imponente saggistica – che va da pubblicisti geniali come Giovanni Ansaldo, Giuseppe Prezzolini, Indro Montanelli, Giovannino Guareschi, Leo Longanesi , Mario Missiroli a storici, sociologi economisti e filosofi come Gioacchino Volpe, Benedetto Croce, Gaetano Mosca, Giovanni Gentile, Guglielmo Ferrero, Rosario Romeo, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi, Maffeo Pantaleoni, Augusto Del Noce, Vittorio Mathieu, Sergio Ricossa, per limitarci a questi – caratterizzata da una seria riflessione critica sulle concezioni del mondo e sulla progettualità etico-politica della sinistra in tutte le sue versioni. È pensando a questo patrimonio di idee che alla Direttrice di «Paradoxa» e al Curatore è venuto in mente di dedicare un fascicolo della rivista al tema: ci sono valori della destra che forse meritavano di essere coltivati, in quanto imprescindibili per una società civile che abbia preso il pluralismo sul serio? This is the question!

Viviamo in un periodo che non solo ha rimosso la morte – come afferma Ernesto Galli della Loggia nella sua penetrante intervista – ma col «sentimento tragico della vita» ha cancellato pure la politica intesa come il luogo in cui competono valori diversi (e talora profondamente difformi), ma tutti iscritti nell’umano e pertanto all’origine di conflitti per i quali non ci sono soluzioni ma solo ‘compromessi’ (temporanei) come insegnava il grande Bertrand de Jouvenel. Oggi l’universalismo etico-giuridico e quello del mercato (e della globalizzazione) hanno fatto sì che nel teatro del mondo rimanessero solo due attori protagonisti: il Diritto (non più quello dello Stato, della cittadinanza e dei passaporti ma quello delle Dichiarazioni universali) e l’Economia; e che simboli del Male fossero tutti quei fattori che riportano la conflittualità sulle scene in odio alla pace universale che sarebbe a portata di mano se le spettanze giuridiche e le regole del mercato venissero rispettate. Identificato (non del tutto a torto) l’anti-universalismo con la destra si ricade, però, nel manicheismo religioso (quello medievale) o illuministico (quello moderno): da una parte, le forze del Bene, la Scienza e la Luce della Ragione, dall’altra, le tenebre, rappresentate dalla destra, che oscurano il cammino verso «le magnifiche sorti e progressive».

Ma davvero è così? Davvero a destra non ci sono valori che dovrebbero stare a cuore a chi voglia conservare su questa terra quella ricchezza e quella varietà che, nella storia, hanno da sempre caratterizzato le grandi civiltà?

Tempo fa, Claudia Mancina, in un articolo sul «Riformista» (del 20 novembre 2019), Che errore lasciare l’idea di nazione alla destra, osservava che lo scioglimento dell’endiadi stato-nazione ha fatto emergere, per contraccolpo, la consistenza «sentimentale» della nazione stessa. A differenza dello stato, che chiama in causa prevalentemente cittadinanza e diritti, la nazione è il sentimento di una identità condivisa, di una comunità: e forse una delle ragioni della profonda crisi della sinistra è proprio l’averlo dimenticato e sottovalutato. La tesi coglie nel segno: la democrazia liberale ha bisogno di poggiare su un terreno più solido di quello offerto dal patriottismo costituzionale di Jürgen Habermas e dallo scambio pacifico di merci tra i popoli della Terra.

Nel paper inviato agli autori, per la preparazione di questo numero, quando ancora si pensava di essere in tempo di pace, il Curatore aveva scritto, parlando della Cina e del libro di Federico Rampini Fermare Pechino (2021): «Una potenza non più emergente ma ormai ampiamente emersa pone la sua candidatura all’egemonia mondiale avvalendosi di risorse di legittimità politica che siamo usi a considerare di destra. E i suoi rivali – gli Stati Uniti e l’Europa, ma questa con diversi punti interrogativi – come reagiscono, a quali idealità si richiamano, su quali atouts in fatto di coesione sociale, di valori politici condivisi, di senso di appartenenza possono contare? Società in cui esistono solo gli individui con i loro diritti sono in grado di affrontare un conflitto internazionale che, anche se non degenera in uno scontro armato – che il possesso del nucleare renderebbe distruttivo per il pianeta –, richiede sacrifici, attaccamento alla comunità politica, disponibilità ad affrontare sacrifici e privazioni?». Era difficile immaginare, qualche mese fa, che il problema più urgente da affrontare non sarebbe stato quello di fermare Pechino; ma il punto è un altro: la superpotenza cinese mutua valori di destra – già tanti anni fa, a uno studioso italiano in visita a Pechino, il Rettore di quell’Università aveva detto: «noi qui non leggiamo più Marx e Lenin ma Thomas Hobbes e Edmund Burke» – mentre da noi la destra viene squalificata dagli aggettivi che le si accompagnano: nazionalista, sovranista ecc. e che restano espressioni di sentimenti ostili, non descrizioni di intenti politici motivati da valori. (Ad esempio, è nazionalista, e quindi squalificante, pretendere che le questioni di bioetica, ovvero i diritti che riguardano le famiglie, le scuole gli ospedali, siano di competenza degli stati nazionali: ma non è quello che accade negli stati federali, come gli Stati Uniti?)

Ai contributori del fascicolo abbiamo chiesto che cosa a loro avviso potesse considerarsi ancora vivo e utilizzabile nella storia ideologica della destra – o delle destre – e che cosa invece dovesse ritenersi morto e dimenticato, in relazione a parametri come: il problema etnico (Marco Tarchi), la tradizione (Carlo Galli), l’interventismo economico (Roberto Chiarini), la scuola (Danilo Breschi), la famiglia (Corrado Ocone), l’ambiente (Francesco Giubilei), i nuovi rapporti tra destra e sinistra dopo il crollo del Muro di Berlino (Zeffiro Ciuffoletti e Andrea Bixio), la Nazione (Dino Cofrancesco). Le risposte alle nostre domande quasi sempre sono state, per così dire, indirette, nel senso che possono, senza particolare sforzo, ricavarsi dalla preoccupazione condivisa da tutti: quella di mostrare come, nella società contemporanea, le distinzioni tra destra e sinistra siano diventate quanto mai problematiche e incerte e come questo si rifletta nel modo di affrontare gli argomenti indicati. Anche così, il fascicolo si presenta come una tappa di riflessione notevole rispetto a una problematica politica destinata certo a sopravvivere a lungo. Non c’è saggio che non faccia pensare, che non rimetta in discussione opinioni e pregiudizi consolidati, che non induca a rileggere, in relazione ai vari lemmi, la copiosa letteratura a disposizione. In fondo, è quanto si proponeva «Paradoxa».

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