Lo studio delle relazioni internazionali rischia sovente di cadere nel profetismo, sia esso di segno negativo, quando non apocalittico, oppure di segno positivo, se non iperottimistico. In ogni caso, l’analisi geopolitica scivola con troppa facilità nel grande racconto teleologico e totalizzante ogni volta si intenda tracciare scenari che abbraccino ampie sfere del pianeta, se non il globo intero.
Sugli Stati Uniti l’esercizio profetico si ripete con cadenza regolare. Raramente un simile esercizio è stato effettuato in chiave ottimistica, e sostanzialmente il periodo in cui questo è fortunosamente avvenuto è da circoscrivere ai primi anni Novanta, ossia all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Si pensi a certe pagine della celebre opera di Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), il quale non era comunque privo di preoccupazioni circa il futuro, oppure al quasi coevo Alfredo G.A. Valladão, e alla sua perentoria affermazione secondo cui Il XXI secolo sarà americano (1993).
Assai più frequente il ricorso alla profezia apocalittica, o almeno all’annuncio dell’avvento di tempi cupi, di epoche di decadenza. Ed ecco allora che si parla in modo implicito di Ascesa e declino delle grandi potenze (Paul Kennedy, 1988) oppure, più esplicitamente, di Fine dell’era americana (Charles A. Kupchan, 2002). Tra “declinisti” e “neodeclinisti”, il ritornello sulla fine dell’impero è tentazione pressoché inevitabile, al di là e al di qua dell’Atlantico.
Non c’è impero che si rispetti che non abbia i suoi cantori funebri, i suoi uccelli del malaugurio. Ogni sovraccarico di potenza ingenera scompensi, risentimenti e invidie tanto in chi non ne ricava vantaggi, ma solo imposizioni, quanto in chi ne beneficia ma come passivo ricettore, per non dire vero e proprio “parassita”. Nel 1950 Giuseppe Prezzolini, italiano trapiantato a New York già da qualche decennio, così riassumeva il tutto: «Ora che gli Americani hanno un impero, incominciano ad accorgersene e a sentire i pesi che accompagnano l’impero. Prima di tutto la rivalità dell’altro imperialismo crescente, il russo; poi la gelosia dell’imperialismo calante, il britannico; e finalmente l’antipatia di tanti popoli cui non garba sentirsi costretti a chiedere aiuto».
Nel suo intervento, Michael Cox dà l’impressione di concedere troppo sia all’inclinazione profetizzante sia alla “gelosia” da britannico, da erede di un impero defunto, che è culturalmente fratello di quello americano. La sua lettura risente troppo dell’astio nei confronti dell’Amministrazione di Bush jr., senza tener conto di due aspetti importanti di qualsiasi analisi che intenda concentrarsi sulle relazioni euro-atlantiche.
Anzitutto, il fatto che non si può parlare di Europa e Stati Uniti senza che il discorso sia impostato male già in partenza. L’Europa come tale non esiste, e proprio gli studiosi di sociologia politica delle scelte internazionali lo sanno bene. Quanto meno è ragionevole parlare di una “vecchia” e di una “nuova” Europa, nonostante molti osservatori europei ritengano sia questa una distinzione surrettizia, sostanzialmente insufflata dall’Amministrazione Bush ai tempi della seconda guerra in Iraq per dividere il fronte del no all’intervento e reclutare così alleati nel continente.
È indubbio che quando Cox parla di relazioni Europa-Stati Uniti durante la Guerra Fredda fa riferimento ad un’entità che non è affatto la stessa di quella che, pur chiamandosi anch’essa Europa, abbiamo cominciato a conoscere dopo il 1989 e che si è progressivamente e radicalmente trasformata fino al 2004 con l’ingresso dei nuovi dieci Paesi nell’UE. Quarantacinque anni di cortina di ferro e quasi trenta di muro di Berlino hanno profondamente segnato e distanziato la parte occidentale e quella orientale del Vecchio Continente. Ma anche laddove si volesse rinvenire nell’unificazione istituzionale ed economica un processo di amalgama crescente ed efficace, resta da dire che l’Europa non è un monolite politico. E in termini di scelte di politica estera non lo sono nemmeno, fino in fondo, gli Stati Uniti al loro interno. Per quanto forte e preponderante sia il peso del Presidente federale in tema di politica estera, resta vero che su questioni di finanziamenti e strategie di lungo periodo il Congresso può sempre dire la sua, e che questa assemblea riceve la pressione di molteplici gruppi di interesse, ciascuno dei quali influisce in quote variabili su tante scelte, anzitutto di politica economica estera.
Per fare un solo esempio, la politica tariffaria statunitense negli anni Settanta si differenziò in venti diverse linee strategiche per soddisfare altrettante industrie. Resta senz’altro vero, però, che quando situazioni contingenti e/o leadership presidenziali forti lo consentono una questione di politica economica estera può essere agevolmente ridefinita come una questione di sicurezza. Così è ovviamente accaduto dopo l’11 settembre. Sulla “guerra al terrore” Bush è riuscito a trascinare dalla sua parte alcuni Stati europei, e l’opposizione di altri è stata anzitutto l’esito scontato della natura delle maggioranze che all’epoca sostenevano i governi in carica in questi Stati dissenzienti.
Evidenziati i punti di debolezza dell’impostazione di Cox, che rende la sua analisi, a mio modesto avviso, tanto scontata quanto fuorviante, resta da chiedersi se allora la relazione euro-atlantica sia davvero “inevitabile”. Dipenderà ovviamente, per quel che concerne l’Europa, da Stato a Stato, e dai rispettivi governi che di volta in volta ne reggeranno le sorti, nonché dalle convenienze del momento. Avremo a che fare con un’alleanza a geometria variabile, secondo uno schema che si sarebbe avuto pienamente dispiegato anche in epoca addietro, se non fosse stato per i vincoli rigidissimi imposti dalla logica bipolare della Guerra Fredda. Oggi avremmo la Francia, la Polonia e l’Italia al fianco degli Usa, magari domani la Germania, la Slovenia e la Spagna. E in ogni caso, la rappresentazione di quell’alleanza non sarà mai benevola ed incoraggiante, ma al contrario vituperata e a bassissimo consenso. I motivi risiedono in una storia molto antica, che affonda le sue radici quanto meno nei primi anni del XIX secolo, dopo un iniziale entusiasmo dell’intelligencija europea per la rivoluzione costituzionale americana del 1776-1787.
Credo che sulle relazioni politiche e culturali fra Stati Uniti ed Europa abbia ancora molto da dire un preziosissimo volumetto scritto da Ernesto Galli della Loggia nel 1986. Sia pur concepite durante quella che poi sarebbe stata la fase ultima della Guerra Fredda, troviamo pagine che ben sintetizzano il perché della condanna mediatica che ogni azione marcata Usa ha avuto, ha ed avrà sempre dalle parti del Vecchio Continente: «Le nostre grandezze e le nostre miserie [di Europei, ndr.] non sono nate nelle biblioteche, ma di sicuro è nelle biblioteche che esse hanno preso la loro forma o trovato la loro giustificazione» (Lettera agli amici americani, 1986, p. 66).
Per chi voglia capire qualcosa di più sulle radici di questo atavico astio antiamericano nutrito dalla classe intellettuale europea si legga quel lontano testo di Galli della Loggia. Troverà torti e ragioni coltivati presso entrambe le sponde dell’Atlantico, ma comprenderà anche quanto inevitabile sia per le relazioni euro-atlantiche l’alternarsi di amore ed odio, di contrasto e collaborazione, quest’ultima sovente necessitata ma sempre controversa e discussa. Non altrimenti poteva e può essere la natura e il destino di “Transatlantia” – come la chiamano Cox ed altri – se pensiamo che si tratta della storia del rapporto di un figlio, l’America, che è voluta diventare, o è nei fatti diventata (il giudizio al lettore), il padre di suo padre, l’Europa. Un rapporto anomalo, fors’anche perverso, di complicata parentela ora rivendicata ora rinnegata. Alcuni la chiamano “Occidente”.
Danilo Breschi – ricercatore di Storia delle istituzioni politiche presso la Libera Università degli Studi San Pio V di Roma e collaboratore della Fondazione Ugo Spirito