(Estratto da Paradoxa 2/2018)
Nel 1969 l’editore Feltrinelli pubblica, con un’introduzione di Pietro Secchia, lo storico dirigente comunista ormai appartato dalla vita ufficiale del Partito, il volume La guerriglia in Italia. Documenti della Resistenza militare italiana. È un libro di istruzioni molto dettagliate su come svolgere la guerriglia, dettate da Mazzini e Garibaldi durante il Risorgimento e poi dal Corpo Volontari della Libertà e dalle Brigate d’assalto Garibaldi durante la Resistenza. In appendice, quasi a suggellare il senso generale del libro, troviamo lo scritto di Lenin del 1906 su La guerra partigiana. Ora, che il patrocinatore del libro sia Secchia non meraviglia: era stato proprio lui il dirigente comunista più deluso della togliattiana «svolta di Salerno» del 1944, della rinuncia a trasformare la lotta armata contro il nazifascismo in una più generale rivoluzione popolare e sociale volta alla conquista del potere. Secchia, sapendo bene che gli ordini erano partiti da Mosca, vi si adeguò, seppur riluttante, per disciplina di partito. Visse però da quel momento sempre alla ricerca del disperato momento in cui l’ora fatidica della rivoluzione potesse ritornare, non esitando a intrecciare rapporti di amicizia con tutti coloro che la pensavano come lui compresi i teorici e autori di saccheggi, sabotaggi, rivolte, episodi di più o meno latente terrorismo (ad esempio Giangiacomo Feltrinelli). Ma l’elemento più interessante è che il libro esce proprio nel pieno di quello che potremmo definire il ‘terzo biennio rosso’ della storia italiana del Novecento, in cui ancora una volta il mito della rivoluzione e dell’insurrezione armata fa capolino in gruppi non ristretti della società. Il biennio 1968-’69, come quelli precedenti del 1919-’20 e del 1943-’44, dà ad alcuni gruppi molto attivi l’impressione che il crollo dell’odiato regime capitalistico e borghese sia ormai vicino e che tutto un popolo, ovvero le avanguardie rivoluzionarie che parlano in suo nome, sia legittimato ad apprestare l’ingloriosa fine con tutti i mezzi, compresi i più violenti. Non può infatti succedere ancora una volta che la rivoluzione sia ‘tradita’, in primo luogo da coloro che dovrebbero rappresentare gli interessi popolari e invece hanno finito per ‘imborghesirsi’ e a fare da supporto alle classi dominanti. Nonostante che la segreteria di Longo avesse dimostrato attenzione ai movimenti che andavano radicandosi, fra occupazioni e assemblee, nelle università, arrivando persino a ricevere a Botteghe Oscure una loro delegazione, capeggiata da Oreste Scalzone, era evidente che il PCI fosse sul principale banco degli accusati e che socialdemocrazia fosse il nome del ‘tradimento’ che per i sessantottini il maggiore partito della sinistra italiana aveva compiuto. Anche se in verità il PCI mai scelse, fino all’ultimo giorno della sue esistenza, la via socialdemocratica, mantenendosi in un limbo teorico alla ricerca di una chimerica e ambigua ‘terza via’, fatto sta che esso assumesse agli occhi dei nuovi rivoluzionari le sembianze che per i loro genitori e nonni avevano assunto i riformisti. Quello, appunto, di ‘traditore’ della rivoluzione. Il mito della ‘rivoluzione tradita’ scorreva nelle vene dei sessantottini, i quali, nel mentre si adoperavano ad abbattere il regime borghese, pensavano anche di riscattare, in nome del popolo, i ‘tradimenti’ che esso aveva subito. Nei comunicati che uscivano su fogli e giornali dei mille gruppi che operavano in quel periodo, e che avrebbero continuato a operare per tutto il ‘lungo Sessantotto italiano’, anche in quelli di chi aveva scelto la clandestinità e abbracciato il terrorismo, forte e sempre presente, mescolata in diverse salse che conservavano però un unico sapore, era questa idea di combattere su un doppio fronte: contro i nemici storici della ‘borghesia’ e contro i ‘traditori del proletariato’. Per quanto aberrante fosse, la logica sottesa a certi discorsi era quella che aveva serpeggiato nel dopoguerra fra i partigiani comunisti, fattisi poi militanti inquieti e insoddisfatti del partito, di una ‘rivoluzione incompiuta’: di una Resistenza ‘tradita’ e vinta solo a metà, che aveva generato sì una Costituzione democratica, e per non pochi aspetti socialisteggiante, quale in fondo è la nostra, ma mai attuata fino in fondo o in modo compiuto. Lungi dall’essere il nuovo, o l’avanguardia di un glorioso avvenire, i sessantottini nascevano perciò vecchi, legandosi a una lunga storia e portando alla luce umori e idee che avevano accompagnato la ormai ventennale storia della Repubblica (c’era stato persino chi si era sottratto alla direttiva di deporre le armi dopo la Resistenza; così come altri ancora, che si erano macchiati di veri e propri delitti, si erano messi al riparo rifugiandosi nei Paesi dell’Est protetti dai partiti comunisti). Pietro Secchia sta quasi a testimoniare questo trait-d’union fra vecchio e nuovo, che a mio avviso poco e male viene lumeggiato quando si parla di quegli anni. So bene che l’agiografia sul Sessantotto, e in genere la vasta e accreditata storiografia compiacente, tendono a trasformarlo da fatto storico in categoria ideale, leggendolo come un momento di una generale modernizzazione e laicizzazione dei costumi e delle idee politiche degli italiani. Roberto Esposito, ad esempio, recentemente, in polemica con Giovanni Orsina, ha affermato, sulle colonne de «L’Espresso», che, «piuttosto che nel politico, il Sessantotto è confluito nel sociale e nel privato» e «con risultati, largamente positivi, che hanno cambiato per sempre la mentalità, le idee, i gusti di milioni di donne e di uomini». Ora non sarò certo io a negare che fra i Sessanta e i Settanta sia emerso anche questo importante aspetto, che i giovani abbiano vissuto allora una crisi e un conflitto generazionale che coincidevano con la modernizzazione della nostra società. È proprio dei momenti di crisi che chi ne è protagonista non abbia le idee chiare e viva in se stesso fino in fondo la confusione e le contraddizioni del tempo. E non è dubbio che i due movimenti, quello modernizzante, che avrebbe poi trovato sbocco e espressione naturale nel cosiddetto ‘riflusso’ degli anni Ottanta, e quello iperpoliticizzante e marxisteggiante del tardo rivoluzionarismo, si siano in alcuni casi e momenti incrociati o addirittura sovrapposti. Ma è altrettanto chiaro che non c’era nulla in comune fra essi e che uno era una risulta di vicende del passato e l’altro il preannuncio di tendenze future (lo dico in senso avalutativo non essendo mosso nei miei pensieri da ‘filosofie del progresso’ o variamente ‘salvifiche’). Né regge la tesi, altrettanto diffusa, di un Sessantotto ‘buono’ e di uno ‘cattivo’: due Sessantotti distinguibili non solo logicamente ma anche cronologicamente. Secondo Paolo Flores d’Arcais, ad esempio, è solo con l’avvento nelle assemblee e nelle manifestazioni dei maoisti, che egli fra l’altro data sin dal maggio 1968, e quindi con l’indebolimento delle componenti originarie che avevano occupato le università già dagli anni precedenti, che le cose cambiano: in una prima fase «era falso e improprio parlare di violenza giovanile: eravamo armati soltanto di cesta di uova, comprate ai mercati» (sic!). Il fatto è che, come ha osservato Paolo Buchignani, anche se le violenze di strada e le manifestazioni dure vanno distinte dalla vera e propria attività terroristica, è pur vero che è opportuno «distinguere sì, ma non separare nettamente, come spesso è stato fatto da alcuni protagonisti di queste vicende in postume ricostruzioni». Non si possono, infatti, «separare nettamente i due tipi di violenza sia perché il confine tra di essi risulta spesso assai labile e difficile da stabilire, sia perché chi approda al terrorismo proviene dal movimentismo di formazioni estremistiche che la lotta armata avevano teorizzato e auspicato come strumento necessario per scatenare la rivoluzione e prendere il potere». In verità in Italia la componente libertaria e ‘fricchettona’ se pure mai c’è stata, è stata travolta dal panpoliticismo e dalle ‘guardie armate’ (a volte non solo in senso metaforico) dei gruppi dominanti in seno al movimento. Essa era comunque una componente marginale. Nessun raffronto con gli Stati Uniti, cioè con la rivolta nei campus, è a mio avviso istituibile. E lo stesso Marcuse, che della rivolta americana fu l’intellettuale di riferimento, in Italia era inserito in contesti culturali che comunque accentuavano in senso classico la componente marxista, pur forte, del suo pensiero. Né raffronto è possibile, ovviamente, coi movimenti di dissenso dell’Est, che, come osserva sempre Flores d’Arcais e come ha recentemente ricordato Guido Crainz, erano mal visti e mal considerati da buona parte del movimento. Credo che la situazione italiana fosse, per certi aspetti, più vicina a quella francese, che però durò lo spazio di un mattino e suscitò le ironie amare di Raymond Aron sulla «rivoluzione introvabile». In effetti, Michel Foucault, intervistato da Duccio Trombadori, ha ammesso, seppur in un ordine di ragionamento più complesso, che in Francia «i mutamenti in corso avvenivano anche in rapporto a tutto un insieme di sistematizzazioni filosofiche, teoriche, e a tutto un tipo di cultura che aveva segnato, all’incirca, la prima metà del nostro secolo». E ha parlato anche del Maggio francese come di un «momento di smisurata esaltazione di Marx, di ‘iper-marxistizzazione’ generalizzata». Ritornando in Italia, il Sessantotto, proprio per questo suo carattere di movimento politico fortemente connotato, oltre a continuare per tutti gli ani Settanta, almeno fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro nel 1978, ha pure avuto una lunga genesi, che data almeno dalla fine degli anni Cinquanta. Una genesi, ripeto, tutta interna ad una sinistra insoddisfatta e convinta che in Italia fosse mancata o fosse stata ‘tradita’ la forte domanda di rivoluzione politica e giustizia sociale promessa dalla Resistenza. Da questo punto di vista, il ponte di passaggio più significativo è sicuramente stato quello rappresentato dal cosiddetto ‘operaismo’, il cui leader originario è stato Raniero Panzieri. Socialista, legato in modo particolare a Rodolfo Morandi, condirettore di «Mondoperaio», la rivista di indirizzo culturale fondata e diretta da Pietro Nenni, critico da sinistra dell’Unione Sovietica soprattutto dopo i fatti di Ungheria del 1956 (che al contrario erano stati contestati ‘da destra’ da un gruppo di 101 firmatari di uno storico documento critico), Panzieri si infatuò, in quel periodo, come altri intellettuali, della Cina di Mao e della «rivoluzione culturale». Visitatala insieme a Nenni, ne trasse la convinzione che il paese asiatico stesse «preparando in letizia una rivoluzione mondiale» (sic!). Accecato dal mito della rivoluzione, tutto fuorché realista quale pretendeva di essere, Panzieri, uomo di indubbia cultura, trasferitosi poi a Torino individuò nella centralità della fabbrica e della classe operaia l’emergere di un mondo tutto nuovo e rivoluzionario. Quanto fosse poco preveggente, e pregna di futuro, questa intuizione, non è difficile giudicare. Eppure, questa idea avrebbe mosso molta parte del ‘lungo Sessantotto’ successivo e continua a muovere ancora oggi, pur fra raffinati sofismi intellettuali, il cosiddetto ‘pensiero radicale’, non solo italiano. Ciò, in verità, soprattutto per il successivo convergere sulle posizioni operaiste di intellettuali come Toni Negri e Michael Hardt. Nel 1961, Panzieri fonda, «Quaderni rossi», la rivista di analisi e elaborazione che diventa la palestra delle nuove idee. Ad essa, si affiancherà, nel 1964, «Classe operaia», una rivista operaista ancora più radicale e di battaglia promossa da Mario Tronti, Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari. Entrambe le riviste, di cui usciranno un numero esiguo di fascicoli e che chiuderanno i battenti prima del Sessantotto, diventeranno una sorta di totem mitologico per la sinistra radicale, fino ad essere additate addirittura come il luogo più alto dell’elaborazione filosofica italiana del secondo dopoguerra (la cosiddetta Italian Theory): una tesi che non solo non regge, ma è significativa di come certe idee, legate ai mitologemi della rivoluzione e della critica a prescindere del capitalismo e della democrazia rappresentativa, siano giunte fino ai nostri giorni. Tanto da ritrovarle oggi nella cultura, o meglio sottocultura, di una certa sinistra diffusa e spesso dominante nella mentalità media o comune, nel conformismo intellettuale di massa o collettivo. Ma tant’è! Morto Panzieri (nel 1964), conclusa l’esperienza delle riviste ‘gloriose’, l’operaismo si diffonde per mille rivoli nella cultura sessantottina italiana e ne diviene la cifra caratterizzante. Lo ritroveremo, ovviamente, nelle elaborazioni connesse alle lotte di fabbrica o sindacali, ma anche in quel brodo di coltura e in quel terreno di connivenza («né con lo Stato né con le BR»), in cui maturò e prosperò, fra fabbrica e università, fino agli anni Ottanta il terrorismo rosso (si pensi alle parole e all’esempio di ‘cattivi maestri’, poi sdoganati, come Toni Negri). Una storia di idee ma una storia violenta. Una storia violenta, ma che è la storia d’Italia.
Non è dubbio che fra coloro, davvero pochi, che individuarono subito le origini retrograde e datate del Sessantotto ci fu, in Italia, Nicola Matteucci. Il quale parlò di «rivolta» o «insorgenza populistica», da intendere come l’apparire «di un nuovo clima di idee semplici e di passioni elementari, in radicale protesta contro la tradizione e, quindi, contro quella cultura e quella classe politica che ne è l’espressione ufficiale». Particolarmente pregnante è, nell’analisi di Matteucci, l’individuazione di una prima «insorgenza populistica» nel movimento interventista che, unendo trasversalmente gruppi di destra e di sinistra, tutti uniti da una concezione della realtà politica non liberale e anticostituzionale, portò l’Italia in guerra fra il 1914 e il 1915. Anche fra costoro circolava l’idea che una rivoluzione, nella fattispecie quella risorgimentale, fosse stata ‘tradita’ e che a ‘tradirla’ fossero stati i rappresentanti di una ‘Italia eterna’ compromissoria e levantina che trovava esemplificazione in Giovanni Giolitti. Un giudizio che tradiva in verità una concezione del mondo e della politica perfettistica e pericolosa, in contrasto con il pragmatismo e la prosaicità della democrazia borghese e rappresentativa e delle sue istituzioni. L’interventismo del 1914-1915 rappresenta, per Matteucci, l’origine comune di «coloro che domani diventeranno democratici o fascisti». In Matteucci, sin dalla fine degli anni Sessanta, si trovano in nuce sia il giudizio che sarà fatto proprio, sulla scia degli studi di storici come Renzo De Felice e di filosofi come Augusto Del Noce, dalla storiografia e dalla cultura italiana più avvertita, del fondo comune che lega fascismo e antifascismo; sia l’idea, connessa e conseguente, della necessità «di superare il cleavage fascismo/antifascismo, per aprire finalmente una fase nuova, quella del ‘postfascismo’» (Roberto Pertici). In tutt’altra direzione va però la più parte della cultura italiana del secondo dopoguerra, la quale gioca una battaglia di retroguardia e provinciale verso cui, forse inconsapevolmente, la cultura sessantottina viene a rappresentare un momento di radicalizzazione e approfondimento piuttosto che, come pretendeva, di rottura o capovolgimento. Il mito dell’antifascismo, che porta a bollare come ‘fascisti’ anche molti dei più sinceri democratici, giocò in esso ancora un ruolo centrale. E ‘fascisti’, come un tempo i riformisti socialdemocratici (i ‘socialfascisti’ di staliniana memoria), vennero a un certo punto bollati anche i dirigenti del PCI, ‘traditori’ della Resistenza (il ‘secondo Risorgimento’) e più in generale della classe operaia. Inutile dire che il Giolitti dell’Italia postbellica è stato, in questa lettura della nostra storia, Alcide De Gasperi, il quale, estromesse le forze popolari di sinistra dal governo e stretto i cordoni che legavano l’Italia agli Stati Uniti e al Patto Atlantico, ha iniziato quel periodo di governi centristi prima e di centrosinistra poi che avrebbero di fatto allontanato le prospettive della rivoluzione. Matteucci è critico sia con quei laici che avevano visto la Democrazia Cristiana come una forza quasi oscurantista, o comunque poco legata al ‘mondo moderno’; sia con coloro che avevano intralciato, soprattutto a sinistra, la possibile ma fallita stagione riformistica inaugurata dall’ingresso nel 1963 dei socialisti nenniani nella ‘stanza dei bottoni’. L’ossessione ‘modernista’ era poi anche di ampi settori cattolici, che alimentarono il Sessantotto e non solo nelle componenti ‘moderate’. Per Matteucci, c’era però un’incomprensione di fondo di quel che è la modernità, che non può essere certo fatta coincidere con le prospettive illiberali e palingenetiche di un’ideologia ottocentesca quale è il marxismo. Erano i centristi di De Gasperi e i riformisti, non certo i sessantottini, i corifei della nostra possibile modernizzazione, o quanto meno coloro che avevano mostrato di saper meglio cogliere e sfruttare le opportunità di trasformazione che il nuovo mondo, in cui l’Italia del boom e del ‘miracolo economico’ era ormai completamente immersa, aveva in sé. A questo punto, sorge a mio avviso il problema di capire fino a che punto il ‘libertinismo di massa’, ovvero la secolarizzazione delle idee e dei costumi, per usare un’espressione sempre di Matteucci, sia figlio del Sessantotto (come, sulle orme di Matteucci, sembra credere anche Orsina), oppure, come io ritengo, una tendenza che con esso si è incrociata ma che delineava un orizzonte di rottura rispetto alle pieghe che l’‘anno mirabile’ aveva preso in Italia. Ovviamente una libertà che non si rapporta dialetticamente al suo contrario, cioè l’autorità, e che trasforma i desideri in diritti, ha, come giustamente scrive Matteucci, poco o punto di liberale. È pur vero tuttavia che il ‘libertinismo di massa’, che trovò la sua apoteosi negli anni Ottanta, gli anni del ‘riflusso’, come vennero giustamente chiamati, segnalava una voglia di ‘privato’ che metteva in crisi il panpoliticismo settantottino, con la sua idea che il ‘privato è politico’ e l’individuo non possa disporre di una sfera autonoma che lo sottragga alle maglie del sociale. Non è un caso, ad esempio, che gli anni Ottanta siano visti dalla cultura dominante non, come è giusto che sia, in relazione e come reazione agli ‘anni di piombo’, ma come l’inizio di una decadenza morale che una sinistra in cerca di identità ha poi fatto coincidere in maniera superficiale con il ‘berlusconismo’ (paradigmatico, nel suo semplicismo e nella banalità degli assunti e dei ‘luoghi comuni’ che fa propri, è il libro di Paolo Morando, ‘80. L’inizio della barbarie). Certo, la stessa sinistra si è negli ultimi decenni molto trasformata ed ha abbandonato non solo i sogni palingenetici, ma anche ogni attenzione concreta e non parolaia ai problemi sociali. Ha puntato tutto sui diritti, vedendo in essi un surrogato della vecchia idea di ‘giustizia sociale’: alla ‘mistica dell’operaio’, che secondo Matteucci accompagnava la ‘mistica del povero’ negli anni Sessanta, si è oggi sostituita, si potrebbe dire, la ‘mistica del diverso’, dell’‘altro’, delle ‘minoranze’ che si presumono discriminate ma che finiscono per esigere per sé, al di fuori di ogni cultura liberale, privilegi e tutele di gruppo. È il «diritto ad avere diritti» di cui parlava Stefano Rodotà, il «dirittismo» le cui contraddizioni sono state messe recentemente in luce da Alessandro Barbano. È, più in generale, la dialettica del ‘politicamente corretto’ tante volte descritta e che è anch’essa, in qualche modo, una figlia del Sessantotto. Il fatto è che, per la mediazione anche di giornali come «La repubblica» o «L’Espresso», il ‘mito della rivoluzione tradita’ è stato forse abbandonato, ma certo è che l’Italia continua ad essere considerata, nel pensiero comune e dominante, nel mainstream, un paese non ‘normale’ e alla ricerca di una ‘compiutezza’ che non ha. In maniera anche irriflessa, perché spesso non ci si accorge che insistere su una nostra presunta ‘anomalia’ è a sua volta un elemento di essa. E che è proprio la retorica che attorno ad essa si costruisce, e che sedimenta opinioni e gruppi di pressione, un aspetto del potere più opprimente che a tratti vive il nostro dibattito pubblico e la nostra cultura politica. La storia viene vista, in questa prospettiva, soprattutto nei suoi momenti cruciali (Risorgimento, Resistenza, Costituzione repubblicana), poco realisticamente, come un insieme di ‘occasioni mancate’ o ‘promesse non mantenute’. Come qualcosa che non si è realizzato fino in fondo: come una democrazia solo ‘formale’ che va resa poco alla volta, per l’azione delle forze popolari e di quelle ‘sane’, anche ‘sostanziale’. E, anche se fu Palmiro Togliatti a parlare di «democrazia progressiva», non è difficile vedere, in questo moralismo che si accompagna al socialismo nella sinistra odierna, un portato di quella cultura azionista diffusa, e sopravvissuta al partito d’Azione, che è dopotutto la cifra dell’egemonia o ideologia italiana (Dino Cofrancesco ha parlato, più esattamente, di «gramsciazionismo»). Occorre perciò fare ancora una volta un passo indietro, e ritornare agli anni immediatamente precedenti il Sessantotto. È del 1966, infatti, un articolo di Norberto Bobbio, che della cultura azionista è stato il maggiore, e forse anche il più degno, rappresentante. In quell’articolo, il filosofo torinese parla di una «Resistenza incompiuta»: non ‘fallita’ o ‘tradita’, ma ancora da farsi o attuarsi compiutamente, in fieri. Egli, in questo modo, non si limita a constatare le tare dell’Italia repubblicana, che si vorrebbe così diversa e prosaica rispetto a quella immaginata dai partigiani, assurti a simbolo della ‘migliore Italia’, al di là di ogni realtà storica e in modo mitologico e discutibilissimo. Più radicalmente, Bobbio invita a rimboccarsi le maniche e a completare il discorso allora iniziato e poi interrottosi. Giorgio Bocca, che oltre che storico e giornalista aveva combattuto la guerra di liberazione, l’anno successivo, nel dare alle stampe la sua Storia dell’Italia partigiana, si sentirà in obbligo di aggiungere ad essa un breve capitolo finale, intitolato proprio La Resistenza incompiuta, in cui riprendeva l’invito bobbiano. D’altronde, già Piero Calamandrei, assurto in certi ambienti a cantore massimo di quell’epopea, aveva solennemente affermato, in un discorso tenuto al Teatro Lirico di Milano il 28 febbraio 1954, che «il compito degli uomini della Resistenza non è finito». È in questo preciso punto che la cultura azionista si salda ancora una volta, pur nelle differenze, con quella comunista e socialista. Contribuendo alla solidificazione di un mito, quello della ‘rivoluzione tradita’, che essa concepisce moralisticamente ma che altri arriveranno a concepire in maniera più direttamente politica se non addirittura, come gli amici di Secchia, militare. A partire dal Sessantotto, la novità è che però che quello che era stato un mito di cui il PCI si era accortamente servito, cioè con la prudenza politica del caso, diventa in mano a sessantottini e azionisti più o meno attardati, un elemento di critica della stessa politica comunista, ritenuta troppo timida o che addirittura si considera ‘svenduta’ alla borghesia e al ‘fascismo’. «Il mito della resistenza tradita – può perciò osservare Ernesto Galli della Loggia – divenne il terreno elettivo di scontro politico e storiografico per tutte quelle forze come il movimento studentesco, che tentavano di scalzare da sinistra l’egemonia del Partito comunista sulla sinistra medesima, contestando, fra l’altro, proprio il suo buon diritto a parlare a nome della guerra partigiana e dei suoi valori». Dopo aver ricordato che sul numero del 12 novembre del 1970 di «Lotta continua» si trovava ancora una volta ribadito che «la lotta antifascista è un momento della lotta anticapitalistica», lo stesso Galli della Loggia riporta un giudizio di Giovanni De Luna. Secondo lo storico dell’azionismo il gruppo di Adriano Sofri cominciò ad elaborare con particolare impegno, a partire dall’autunno del 1971, l’idea della equiparazione dello Stato italiano al fascismo e della necessità di una lotta antifascista a tutto campo. Fu questa, secondo lo storico dell’azionismo, un’idea «che riuscì a far breccia anche in settori largamente rappresentativi della sinistra, raccogliendo antiche elaborazioni gobettiane sugli esiti autoritari del processo risorgimentale e i giudizi di matrice azionista sulla resistenza come ‘occasione mancata’ per una vera rivoluzione democratica». Poco alla volta, si creò così nel paese un clima generale, un pensiero medio che dagli organi della sinistra extraparlamentare giungeva sino a quello che sarà successivamente chiamato il «ceto medio riflessivo» (che sempre più peso cominciava ad avere in un’Italia incamminata sulla strada della modernizzazione). Fu in questo brodo di coltura che il terrorismo rosso, dapprincipio disconosciuto da molti in questa sua colorazione e bollato ancora una volta semplicemente come ‘fascismo’, poté prosperare e godere se non sempre di vere e proprie connivenze certo quasi sempre di scarsa attenzione o indifferenza verso la sua pericolosità.
Fra gli intellettuali di sinistra, soprattutto, esso ebbe, almeno all’inizio, se non giustificazione, comprensione: i ‘brigatisti’, figli degeneri del Sessantotto, erano «compagni che sbagliavano» nei metodi ma non nel bersaglio. D’altronde, erano, come si è visto, idee vecchie che risalivano addirittura ai primi anni dell’Italia repubblicana. Tanto che sembra paradossale come questa liaison non fosse al momento vista che da pochi (ad esempio Rossana Rossanda che parlò di un comune «album di famiglia» che legava i brigatisti alla sinistra storica). Ed è significativo anche come, fra tanta letteratura ‘complottistica’ sorta sulla vicenda del rapimento di Moro, che in verità molte zone d’ombra conserva tutt’oggi, si sia guardato quasi sempre all’azione dei servizi di sicurezza americani e non a possibili collegamenti con il mondo dei Paesi dell’Est, ove alcuni comunisti inflessibili avevano riparato dopo l’avvento della Repubblica e dove operavano campi di addestramento militare per ‘rivoluzionari’ di tutto il mondo (una pista del genere la segue Luciano Mecacci, nel suo libro dedicato alla morte di Giovanni Gentile). Qui non si vuole dare adito alla ‘teoria dei complotti’, contro cui, anche a proposito dell’affaire Moro (per usare la celebre espressione di Leonardo Sciascia), mette in guardia il saggista e filosofo inglese John Gray. Si vuole solo segnalare, come fatto storico, un certo ‘strabismo’ che permea la nostra cultura media ancora oggi, e che se non è figlio del Sessantotto, quel ‘mirabile anno’ ha sicuramente contribuito a rafforzare. Questo mainstream culturale, o politico-culturale, è sicuramente l’eredità più rilevante e più dura a morire del Sessantotto (la si trova dove meno uno se lo aspetterebbe, ad esempio oggi in alcuni punti del programma politico del Movimento cinque stelle!). In definitiva, si può dire che «ciò che resta di quel complesso movimento politico, culturale e sociale», come scrive efficacemente Pertici, «è soprattutto una sorta di ‘pensiero socializzato’ largamente operante nella mentalità comune e nei comportamenti diffusi in ampi settori della nostra società».