(Estratto da Paradoxa 1/2024)
Che cosa significa essere progressisti oggi? La parola viene usata in modo generico e quasi sciatto, come in mancanza di meglio. I progressisti sono quelli che credono nel progresso? Sono quelli che sono di sinistra ma non troppo? Sono i socialdemocratici che vorrebbero rispolverare la loro antica e un po’ consunta identità? Nel linguaggio politico italiano (e forse europeo) il termine ha quasi una funzione eufemistica. Pensiamo all’Alleanza dei progressisti, che si formò nel 1994 con la partecipazione del Pds di Occhetto e di altre forze di sinistra, che andavano da Alleanza democratica a Rifondazione comunista, passando per i Cristiano sociali e per il Partito socialista di Del Turco. Se si guarda a questo composito schieramento, è difficile sfuggire all’impressione che il termine ‘progressisti’ sia stato scelto per consentire a sigle così diverse di stare insieme, senza scegliere – come forse sarebbe stato meglio – un’idea unificante. Una via seguita anche oggi dai socialisti europei, il cui gruppo parlamentare si chiama ‘Alleanza progressista dei socialisti e democratici’. E del resto i gruppi parlamentari italiani del Partito democratico portano la specificazione: ‘Italia democratica e progressista’. Anche in questi casi, chiaramente, per poter tenere insieme ispirazioni diverse, o esponenti non iscritti ai partiti in questione.
La scelta del termine progressista, tuttavia, non può essere considerata insignificante. Il termine ha una sua storia, tutt’altro che banale, nel mondo anglosassone più che in quello italiano o continentale. In inglese il termine è identificato con un ‘liberalismo welfaristico’, o con un movimento politico di riforma sociale, più radicale del liberalismo, che è stato attivo negli Stati Uniti, producendo importanti riforme, soprattutto nei primi anni del Novecento. Si parla così di una ‘era progressista’, della quale fu protagonista Theodore Roosevelt, che, uscito dal partito repubblicano, fondò nel 1912 un ‘Progressive Party’, con il quale si presentò alle elezioni come terzo partito, arrivando secondo dopo Woodrow Wilson. Nel programma del Progressive Party c’erano molti temi riformisti, alcuni dei quali ancora attuali nella politica statunitense. Il partito si è presto sciolto, ma il termine, e il progetto politico da esso designato, sono stati ripresi dal secondo Roosevelt, Franklin D., e da sua moglie Eleanor, molto impegnata sul fronte riformista. ‘Progressista’ oggi in America indica qualcosa di simile a ciò che noi chiameremmo socialista: una parola, questa, difficile da pronunciare nel dibattito pubblico, sebbene sia stata recuperata, negli ultimi anni, da Bernie Sanders e da Alexandra Ocasio-Cortez. In ogni caso, va ricordato che all’interno del Partito democratico esiste un gruppo più radicale che va sotto il nome di ‘Congressional Progressive Caucus’, che riunisce più di 100 deputati e un senatore, per l’appunto Bernie Sanders. Con ciò sembra che la distinzione tra progressista e socialista sia praticamente venuta meno nei contenuti. L’uso del termine progressista risulta però meno impegnativo dal punto di vista teorico, e rimanda, consapevolmente o meno, a una storia riformista tipicamente americana, segnata dal pragmatismo di Dewey e dall’iniziativa di attiviste come Jane Addams, più che dalle filosofie della storia europee.
A questo punto è d’obbligo la domanda: qual è il legame tra il progressismo e l’idea di progresso? La storia di quest’idea è ben nota, a partire dall’ottimismo illuminista di Kant o di Condorcet, convinti che la specie umana sia caratterizzata da una progressione verso il meglio: un meglio morale per Kant, un meglio anzitutto conoscitivo e sociale per Condorcet. Per Kant, uno dei principali fattori del progresso era – incredibilmente per un lettore della Pace perpetua – la guerra[1]; per Condorcet gli esseri umani, mossi dalla passione della verità, sono in grado di risolvere i problemi che la storia presenta[2]. La versione illuministica del progresso è quella di una evoluzione naturale, dovuta alla ragione, che è a sua volta una disposizione naturale dell’uomo, e quindi procede per prove ed errori. Quel che è proprio dell’idea di progresso, sia in questa versione sia in quella hegeliana, sia in quella positivistica, che vede la luce nell’Ottocento, è l’assunto che esista una storia unitaria della specie umana. Una storia del mondo che, per Hegel, ha una direzione precisa: come il sole, sorge a Oriente, e va anch’essa, come il sole, da Oriente a Occidente. Qui si ferma. Il suo movimento non è ciclico, come quello astronomico, ma lineare.
In questa storia del mondo che è lineare e va da Oriente a Occidente, l’Europa – con la sua appendice americana – è l’approdo, così come l’Asia è il principio. Il progresso coincide con la civiltà occidentale, con la sua superiorità che è insieme scientifica, tecnica, sociale, morale, giuridica. Non stupisce, allora, che l’idea di progresso sia rovinosamente crollata nella devastante esperienza della prima guerra mondiale, che metteva fine all’ottimismo positivistico di fine Ottocento. Il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, scritto prima della guerra, uscì subito dopo, segnando un passaggio d’epoca nella cultura europea. Da allora, la crisi dell’idea di progresso fa tutt’uno con la crisi della coscienza occidentale. L’Occidente veniva visto in una fase di declino e di decadenza: potenza del denaro, manipolazione della democrazia, masse prive di legami spirituali, esposte sia al conformismo sia all’individualismo più sfrenato. La critica dell’idea di progresso si diffonde ben oltre Spengler, caratterizzando buona parte del pensiero filosofico e politico del Novecento, da Heidegger alla scuola di Francoforte. Se volessimo ricapitolare i punti essenziali dell’armamentario concettuale di questa critica, potremmo mettere in evidenza anzitutto il venir meno di un soggetto unico della storia, al quale si sostituisce una pluralità di civiltà, che si sviluppano in modi diversi; il venir meno di un tempo lineare, al quale si sostituisce un tempo ciclico, che vede crescita e declino di ogni singola civiltà; infine, la diffidenza verso la tecnologia, intesa come un deragliamento dell’umano dalla sua vera essenza. Questo insieme di temi, e altri che ne discendono, nutrono non da oggi, ma in modo sempre più diffuso, il sentimento della crisi che sembra autoalimentarsi nella civiltà occidentale.
Questo sentimento della crisi ignora che lo stesso Occidente, che pure sembra avere una sua forte e definita identità, ha avuto fasi e forme diverse, tanto che si è potuto parlare di ‘occidenti’, al plurale[3]. Così come ignora che il tratto più fondamentale in cui l’Occidente si riconosce, la democrazia liberale, ha avuto e ha tuttora varianti significativamente diverse, per esempio tra l’Europa continentale e le democrazie anglosassoni, e anche – almeno sinché resterà tale – la democrazia indiana[4]. Eppure durante i ‘trenta gloriosi’, i tre decenni della ricostruzione seguita alla seconda guerra mondiale, e segnata dalla guerra fredda, l’Occidente sembrò poter riprendere un ruolo di progresso, sia pure in uno schema bipolare. Il confronto con la fallimentare impresa di costruzione di una società ‘altra’, come sarebbe stata quella comunista, rafforzava la sua identità. Paradossalmente, la fine della guerra fredda e il trionfo della globalizzazione hanno invece segnato un’ulteriore e più grave crisi del progressismo e dell’occidentalismo. Come è stato detto, «la nozione di progresso si è come disintegrata»[5]. Siamo così passati, dal provvidenzialismo ottocentesco, allo «sgomento di fronte a un mondo non controllabile»[6]. Secondo Berlin, si esprime in ciò un’eredità del Romanticismo, il suo lato paranoico, che ossessiona il Novecento in vari modi, dal pessimismo cosmico fino al cospirazionismo. Il nucleo romantico di questi atteggiamenti sta, per Berlin, nell’idea – decisamente antilluministica – che c’è nell’universo qualcosa di profondo che non possiamo controllare, che sfuggirà sempre alla nostra ragione e alla nostra volontà[7]. È di derivazione romantica anche il sentimento, presente soprattutto tra i giovani, l’idea di un declino inarrestabile verso la barbarie e verso la rovina non più solo della civiltà, ma dello stesso pianeta. Si è diffusa una perdita di fiducia nella stessa civiltà occidentale e nel suo ruolo globale, sostituita dal discorso sulle colpe dell’Occidente, ripreso in gran parte dagli studi coloniali e da quelli sulla razza, presente soprattutto nelle università e tra gli intellettuali impegnati[8].
Ma, accanto a questo filone pessimistico se non apocalittico, continua a vivere un filone che, sia pure con tonalità molto diverse da quelle illuministiche o positivistiche, e quindi senza supporre un’evoluzione lineare della storia, potremmo chiamare ottimistico. Quello che afferma che
una freccia esiste, dunque, nella storia della nostra presenza su questo pianeta, almeno per quanto concerne l’intensità delle conoscenze e del dominio della natura; e va in una direzione precisa e progressiva che conduce dal passato verso il futuro; da una soglia più bassa a una indefinitamente più elevata[9].
Questo modo di vedere non può non poggiare su una restituzione alla tecnologia della sua valenza positiva: è lo sviluppo tecnologico che libera la capacità di pensiero umano nella sua infinita potenzialità. La coscienza contemporanea è attraversata da diverse faglie: tra nazionalismo e cosmopolitismo, tra fede e scienza, tra umanità e natura; ma la faglia più importante e fondativa è quella sulla considerazione della tecnologia come fattore di avanzamento dell’umano o di sua perversione. È questo il grande divario del Novecento, destinato a diventare ancora più abissale nel nostro secolo.
Eppure noi sperimentiamo ogni giorno, nella nostra vita, il progresso scientifico e tecnologico. Possiamo separare del tutto questo innegabile progresso, che è evidente nella medicina, ma anche più in generale nella scienza, nell’industria, nella comunicazione, nelle forme della vita quotidiana, dalla nostra idea complessiva del mondo in cui viviamo? Possiamo pensare che non ci sia relazione morale, o ci sia perfino una relazione negativa, tra l’accumulo senza sosta di conoscenza e di trasformazione della natura, e lo sviluppo degli esseri umani verso una maggiore libertà? Il punto probabilmente è trovare un modo di pensare che conservi quello che c’è di valido, e perfino di necessario, nell’idea di progresso, assumendo anche quel che c’è di giusto nelle critiche che vengono avanzate.
Cominciamo col sottolineare che non si possono considerare gli avanzamenti tecnologici come estranei, o addirittura nemici, dell’umano. L’essere umano che noi siamo – homo sapiens – è fin dall’inizio anche homo faber, autore di trasformazioni continue della natura, attraverso una attitudine conoscitiva e trasformativa, dunque tecnologica, che è propria della specie. Queste trasformazioni hanno comportato spesso veri e propri traumi sociali: pensiamo all’invenzione della stampa, che ha concorso a produrre la rottura dell’unità del mondo cristiano, con le conseguenti feroci guerre di religione, o alla rivoluzione industriale e alle sue devastazioni – testimoniate da Marx e da tanti romanzi dell’Ottocento – ; per non dire dell’attuale rivoluzione digitale. Tuttavia, pur attraverso sofferenze e disagi, questi passaggi hanno prodotto un mondo migliore del precedente. Migliore: non in relazione a un criterio astratto, ma molto concretamente per chi ci viveva o ci vive. Basta pensare all’allungamento della vita, o alla diminuzione della violenza nella società. O alla diffusione dell’istruzione. Un discorso a parte va fatto per la rivoluzione forse più grande della storia umana, che è quella delle donne, che hanno acquisito diritti e libertà impensabili per millenni. Una conquista che è strettamente legata alle nuove condizioni di vita. Tutto ciò è indubbiamente progresso, anche se non nel senso di una filosofia della storia. In forme e in misura diversa questo progresso è condiviso oggi da tutti i popoli della terra, anche se non li vediamo più come un soggetto unico. Né ovviamente come diverse espressioni del dominio dell’homo occidentalis. Ciò significa però che dobbiamo abbandonare il cosmopolitismo settecentesco così come il globalismo della seconda metà del Novecento. Non la globalizzazione, che è altra cosa, e che potrà essere ripensata ma certo non revocata. Intendo per globalismo l’idea che il mondo possa essere unificato in una sola civiltà, quella occidentale, in virtù della sua superiorità morale. Con conseguente espansione – o anche esportazione manu militari – della democrazia e dei diritti umani. Questo è un punto particolarmente delicato.
Primo: è evidente che i cosiddetti ‘valori occidentali’ (spesso troppo retoricamente sbandierati) sono universali. Questo però non nel senso che tutti debbano accettarli così come sono. Universali non significa che valgono per tutti; significa che vengono pensati come validi per tutti. Sta agli ‘altri’ accettarli o rifiutarli. A noi sta sostenerli e difenderli; sostenere il loro universalismo senza pretendere di imporli. La storia dirà se i nostri valori sono in grado di conquistare le altre culture, trasformandosi nel cammino; così come del resto si sono trasformati nei circa quattro secoli della loro storia. Nessuno potrebbe pensare che i diritti umani di oggi siano paragonabili a quelli definiti nel Settecento, o che la nostra democrazia sia paragonabile a quella in cui il suffragio non era esteso alle donne, o ai neri, o ai nullatenenti. I valori occidentali hanno avuto una storia lunga e complessa e questa storia continuerà, ibridandosi – se va bene – con altre culture. Dunque il discorso sui diritti umani va profondamente riconsiderato. Si può, si deve, lottare per i diritti umani. E si può, si deve, riconoscere che gli stessi diritti umani possano avere declinazioni diverse nelle diverse culture. Troppo spesso il discorso dei diritti umani serve da veicolo all’imposizione di un’egemonia politica e culturale su altri popoli. E il fallimento dei vari episodi di esportazione della democrazia e dei ‘nostri valori’ ci dicono che la pedagogia esplicita, o addirittura coattiva, in questo campo non è efficace. Quello che è efficace è la pedagogia implicita, la forza di convinzione del modo di vita occidentale, della libertà e del benessere, a cui tutti aspirano. È questa forza che minaccia i regimi autoritari, indebolendone le radici.
Secondo: va riconosciuto il ruolo della nazione, di cui abbiamo creduto di liberarci troppo superficialmente. La nazione, del resto, è un’idea democratica: idea di Mazzini, di Kossuth, di MIll. Intendere la nazione come un’idea necessariamente e puramente conservatrice, è uno degli errori più grandi che si possano fare. Ma come pensare la nazione in modo progressista? Qualcuno – Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale del Corriere della Sera – interpreta il ritorno della nazione come un’idea difensiva, che esprime una ricerca di protezione, un rifugio dal mondo. E quindi qualcosa che parla soprattutto ai più deboli, a quella parte di popolazione che si sente messa ai margini dalla globalizzazione e dalla competizione planetaria che essa comporta; e chiede protezione. Non il vecchio nazionalismo aggressivo ed espansionista, che ha prodotto due guerre mondiali, ma una nazione ‘introflessa’, che si nutre della rabbia e produce le spinte di destra che stanno manifestandosi in tutti i paesi democratici, dagli Stati Uniti all’Europa all’India. È questo l’unico senso che si può dare oggi alla nazione? O è possibile darne un senso aperto e progressivo? Oggi parliamo di sovranismo, per indicare un fenomeno che è diverso dal nazionalismo democratico, e nasce dalle difficoltà della globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno che ha due facce, tra loro contraddittorie. Sul piano internazionale, non è affatto vero che abbia aumentato le disuguaglianze: al contrario, le ha diminuite, portando fuori dalla miseria e dalla fame milioni di esseri umani[10]. Ma, restringendo gli spazi di decisione della politica nazionale, ha reso molto più difficile, se non impossibile, controllare i processi economici e finanziari e le conseguenze sociali di questi processi all’interno dei singoli paesi, in particolare di quelli occidentali[11]. Di fatto, l’Occidente è in crisi a causa del suo successo mondiale. Il problema è evidente nel caso europeo – ma anche il successo di Trump dice la stessa cosa. Per salvare l’Europa si devono evitare fughe in avanti, e nello stesso tempo non ci si potrà accontentare di ritocchi all’architettura istituzionale. Si dovrà cercare, in modo inedito, di costruire un’identità europea, trovando un giusto equilibrio tra sovranità europea e sovranità nazionali. Ciò significa che bisogna smettere di considerare le sovranità nazionali come un male o un pericolo; il pluralismo linguistico e culturale è una caratteristica positiva dell’Unione, e non è qualcosa che possa essere ignorato. I caratteri nazionali, a lungo negati dalla storiografia democratica, esistono, e non sembrano destinati a scomparire nel breve periodo. La storia fin qui ci dice che non sono incompatibili; che è possibile farli convivere con alcuni principi comuni. Su questa strada va recuperata in positivo l’idea di nazione. Non è questo il luogo per accennare una storia di quest’idea; ma è ben noto che si tratta di un’idea che fa parte della reazione romantica contro il razionalismo illuminista, di cui abbiamo parlato sopra. Leggere questa contrapposizione come un conflitto tra apertura cosmopolita e chiusura etnica, però, sarebbe sbagliato. Il cosmopolitismo illuminista può assumere caratteri imperialistici, mentre il Romanticismo nazionalista può essere democratico. Uno dei più significativi paradossi della storia moderna è quello che ha visto gli ideali universalistici della Rivoluzione portati in giro per l’Europa dalle armate di Napoleone, mentre contro di esse si formavano o si rafforzavano le identità nazionali.
Terzo: un discorso progressista oggi non può semplicemente identificarsi con il cosiddetto ‘dirittismo’, cioè con un’infinita e indeterminata rivendicazione di diritti personali del tutto privi di contesto sociale. È dubbio peraltro che questo fenomeno esista davvero, se non nel campo larghissimo e confuso dei social network, la cui rappresentatività delle tendenze sociali è certamente sopravvalutata; e – spiace dirlo – nel linguaggio burocratico delle istituzioni, quando tenta di assumere un travestimento culturale: si è visto perfino un ‘diritto al cibo’, qualunque cosa voglia dire. C’è un topos linguistico, si direbbe quasi una moda, che circola nei linguaggi diffusi di giornali, programmi televisivi ecc., la cui penetrazione non è univoca e viene spesso esagerata. Tra filosofi, sociologi, politologi, chi mai sostiene quell’idea dei diritti? L’estremismo individualistico è forse un comodo idolo polemico, costruito ad hoc? Proviamo a mettere ordine. Che tra bisogni o desideri e diritti dell’individuo ci sia un passaggio complesso, determinato dal contesto sociale, economico, morale, è indubitabile e non è un argomento contro il progressismo. Così come non lo è il rifiuto dell’identificazione tra diritti e logica del mercato, che si ritrova in alcune posizioni, per esempio a giustificazione della prostituzione o della maternità surrogata. C’è qui un equivoco, che riguarda che cosa si intende per individualismo. Identificare l’individualismo con il narcisismo o con l’egoismo sociale è del tutto arbitrario. L’individualismo non è l’affermazione incontrollata dell’io. È precisamente la condizione teorica per affermare l’eguaglianza morale tra tutti gli esseri umani. Che sono eguali perché sono individui eguali. Questa concezione dell’individuo nasce col cristianesimo e col diritto naturale ed è sviluppata dal pensiero liberale e dalle sue proiezioni politiche. Perciò l’individualismo, lungi dal negare l’universalismo della tradizione occidentale, ne è l’altra faccia. Se non abbiamo come riferimento e supporto gli individui eguali, come facciamo a sostenere valori universali? E come potrebbe comprendersi la stessa rivoluzione femminile se non sulla base dell’affermazione dell’eguale valore morale degli individui – e ‘individue’ – indipendentemente dal ruolo a loro attribuito dalla società? Inteso in questo modo, e non nella caricatura che spesso se ne fa, l’individualismo è certamente un tratto essenziale e irrinunciabile della posizione progressista.
In conclusione, chi si definisce progressista oggi non ha in mente le ‘magnifiche sorti e progressive’ giustamente irrise da Leopardi, né pensa a un mondo nel quale esistano solo gli individui desideranti, privi di legami sociali e di appartenenze culturali, sullo sfondo utopico, o forse distopico, di un cosmopolitismo integrale. Ma pensa, più semplicemente e più criticamente, che tra prove ed errori gli esseri umani sono andati avanti, e che è presumibile, anche se non garantito, che continueranno a farlo, attraverso un percorso di libertà. Il progressista non è necessariamente un socialista, perché non è tenuto a condividere la concezione della società dei socialisti; ma è un riformista, perché pensa che il mondo non sia perfetto e non possa mai diventarlo, ma che una politica di riforme possa aumentare la quantità di giustizia, di libertà e di benessere per chi lo abita. Non è necessariamente un ottimista, ma rifiuta il pessimismo apocalittico; non sostiene la superiorità dell’Occidente e non nega i suoi errori, ma non attribuisce all’Occidente tutte le colpe della storia. Forse potremmo indicare il tratto più caratteristico del progressismo attuale proprio nella sua concezione della storia, non più illuminista né hegeliana né positivistica ma naturalistica e postdarwiniana: una storia in cui il caso ha molta parte, una storia senza soggetto né fine unici, una storia in cui tuttavia, grazie alle conoscenze e agli sforzi umani, il presente è certamente migliore del passato.
[1] In Inizio congetturale della storia degli uomini, 1786.
[2] In Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, 1793.
[3] A. Graziosi, Occidenti e modernità. Vedere un mondo nuovo, il Mulino, Bologna, 2023.
[4] Sul caso dell’Europa vedi M. Conway, L’età della democrazia. L’Europa occidentale dopo il 1945, Carocci, Roma, 2023.
[5] M. Longo, Progresso, in Enciclopedia filosofica Bompiani, vo.9, Bompiani, Milano, 2006, p. 9022-9025.
[6] P.Rossi, Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, il Mulino, Bologna, 1995, p.95.
[7] I. Berlin, Le radici del romanticismo, Adelphi, Milano, 2001.
[8] I.Buruma – A.Margalit, Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, Einaudi, Torino, 2004.
[9] A. Schiavone, Progresso, il Mulino, Bologna, 2020, p.61.
[10] B. MIlanovic, The Great Convergence, in «Foreign Affairs» del 14 giugno 2023.
[11] La perdita del lavoro dovuta alla concorrenza di paesi dove i lavoratori hanno meno diritti, la trasformazione tecnologica, gli squilibri sociali che derivano da questi processi.