Una amichevole interlocuzione con Francesco D’Agostino
Lo scorso 21 settembre venne pubblicato su “Europa” un manifesto con il titolo Una ragione pubblica per la bioetica. I firmatari (parte di area laica e parte di area cattolica) si rivolgevano al nascente Partito democratico, ma poi anche ad altre forze politiche. Volevano contribuire alla costruzione di un dialogo tra le due culture d’origine nelle delicate e complesse questioni legate alla vita umana. Ma non sembra che il Partito democratico si sia troppo incuriosito (non dico occupato) dell’iniziativa. La mente dei suoi esponenti era evidentemente versata in altro. E’ stato soprattutto il quotidiano “Avvenire” ad avvertire l’importanza della cosa e ha subito affidato a Francesco D’Agostino un giudizio di merito.
Francesco D’Agostino ha prima allineato (27 settembre) una serie di riserve (“Che si tratti di buone intenzioni, non c’è dubbio; se a tali buone intenzioni possono seguire davvero fatti congruenti è però un’altra questione. Per quel che mi concerne sono piuttosto scettico”: così cominciava.). Io ebbi subito dopo a replicare – come uno dei firmatari – alle ragioni di questo “scetticismo”. La mia “lettera aperta” a D’Agostino venne pubblicata su “Avvenire” l’11 di ottobre, preceduta (!) da una replica di D’Agostino, in cui i toni un po’ guardinghi del primo intervento erano già diventati toni perentori, per non dire taglienti: insomma, ne era seguita una opposizione frontale. Sempre su “Avvenire”, Stefano Semplici (18 ottobre), Paola Ricci Sindoni (25 ottobre) e Giampaolo Azzoni (1° di novembre) fecero sentire la loro autorevole opinione su questo stesso argomento. E ancora. Il 24 novembre dello scorso anno ci fu un incontro a Pavia per continuare a discutere del manifesto “democratico”. Proprio il giorno dopo fu pure presentato a Torino un Nuovo Manifesto di Bioetica laica. Per completare il quadro, bisogna però almeno rammentare che nel n. 7/2007 di “Liberal” era stato pubblicato un Manifesto per una bioetica critica.
Il mio confronto con Francesco D’Agostino, che è per me amico molto caro, ha avuto ancora un episodio piuttosto informale in un seminario organizzato da “Nova Spes” (Roma) nello scorso 14 dicembre, dove i tre manifesti citati vennero comparativamente commentati con interventi di Antonio Da Re, Francesco D’Agostino, Roberto Mordacci, Laura Palazzani e Stefano Semplici. Prendo ora occasione da questa nuova opportunità offertami da “Paradoxa” per riprendere alcune osservazioni fatte in quella sede e offrire qualche altra argomentazione al dibattito ancora in corso. Due punti soltanto forse bastano per proseguire nella discussione.
Il primo concerne il tema del “bene comune”, perché da questa nozione (sempre un po’ vaga, per la verità) dipendono tante cose. D’Agostino nella sua replica alla mia “lettera aperta” prende le mosse, in effetti, proprio da lì. Giustamente. Ma con una sottile equivocazione, tessuta forse di altrettanto sottile ironia. Mi fa dire di un “bene pubblico superiore”, che viene da lui inteso però come “superiore” al “bene comune”. Parlando ad un pubblico, come quello di “Avvenire”, abituato a scattare sull’attenti di fronte al “bene comune”, io così finisco per apparire sin da subito come uno di quelli che dicono esecrabili eresie. Eppure, avevo per la mia parte avvertito che intendevo il “bene comune” come quello “vero”. Come mai ho qualificato il bene pubblico come bene “superiore”, allora?
La risposta è semplice. “Superiore” è una qualificazione relativa. Se uno va a vedere quel che ho scritto, capisce subito che il bene pubblico è inteso come superiore al bene “privato”, non certo al bene “comune”. Dicendo di quest’ultimo che è il bene “vero”, e tenendolo distinto dal bene “pubblico” come bene “praticamente concordato”, si dovrebbe piuttosto ricavare che il bene comune è per me il bene “supremo”, giacché niente può essere preposto alla “verità” e quindi al bene comune “vero”.
Grazia o disgrazia vuole che siamo in un Paese dove sul “bene comune vero” non tutti la pensiamo allo stesso modo. Di più. Volendo dare un’occhiata al futuro prossimo venturo, la condizione italiana ed europea da melting pot all’americana sembra molto somigliare a un inevitabile destino. Di fronte al quale andare marciando compatti in nome del “bene comune vero” parrà molto eroico ad alcuni, ma a me pare mestiere da kamikaze o affare da talebani. Se è questo che si vuole, lo si dica e si fa presto ad intendersi (e dissentire). Se poi questo non si vuole, e io so bene che il mio amico Francesco D’Agostino questo non lo vuole, allora bisogna capire come tentar di uscire dell’impasse. Per quanto abbia letto e riflettuto, non ho trovato di meglio della formula rawlsiana del “consenso per intersezione”, nonostante la sua manifesta fragilità teorica. In fondo, si tratta del “minor male”, quando ci si confronta teoricamente (come lo stesso D’Agostino intende). La bioetica (ho quindi pensato insieme a qualche altro amico) può fungere da luogo di sperimentazione della formula, nonostante certe sue implicazioni da “scottatura” facile (e D’Agostino mi dice che più d’una se l’è già presa, guidando il Comitato nazionale di bioetica…). Ma sulla formula qualcos’altro si può dire. Ci provo.
Quando non si è d’accordo in fatto di teoria, si può essere distanti su una serie di convinzioni/risultati, ma a partire da comuni principi; oppure si può essere distanti anche sugli stessi principi. Già i vecchi scolastici ripetevano l’adagio: contra impugnantes principia, non est disputandum. Ma loro stavano meglio di noi, perché una qualche convenienza sui principi era allora visibile. Basta tener sott’occhio la Summa contra Gentiles di Tommaso per un esempio eminente di questa condizione. Arabi, ebrei e cristiani facevano quanto meno capo ai Greci, e tanto bastava. Ma ora siamo a corto anche di questo riferimento, e proprio sui principi l’intesa vacilla. Anzi non c’è più. Non solo le (credute) comuni evidenze veritative, ma anche le (credute) comuni evidenze etiche sembrano essersi congedate. E non c’è bisogno di imprecare contro lo “straniero” o l'”extracomunitario”. La verità sacrosanta è che “stranieri” (“stranieri morali”, in particolare) siamo diventati noi occidentali l’uno rispetto all’altro. Il nuovo manifesto per la bioetica laica non lo firma certo un collega afgano, ma un collega italiano moralista, magari dello stesso Dipartimento o della stessa Università in cui io lavoro.
Che fare? Torna implacabile la domanda. Che fare, in particolare, quando non si è d’accordo quasi su nulla? Che fare quando si ragiona “a vuoto”? Mi pare di solare evidenza che restino due alternative: si confligge, finché uno dei due non l’ha vinta; oppure ci si accorda (prima o dopo la lotta, per ora non importa stabilirlo). Quando uno l’ha vinta, l’altro solitamente lavora per tornare a vincere, a meno che non venga esterminato prima. Se invece ci si accorda, l’accordo non può essere, strettamente parlando, di natura “teorica” o “veritativa” (ne abbiamo già ipotizzato l’impossibilità). Sarà dunque di natura “pratica”, cioè sarà una convenire che prende a fondamento una libera decisione delle parti. Ma le parti sono pure esseri umani, e quindi decideranno di convenire per lo più su alcune umane pratiche di vita. Per esempio, converranno sul fatto che le avances pedofile sono da perseguire penalmente e non da tollerare. Perché le avances pedofile sono da perseguire penalmente? I due dialoganti possono dare motivazioni diverse: uno, ad es., dirà che offendono la legge di Dio, l’altro dirà che fanno male ai bambini. Quel che conta è che tali pratiche vengano escluse dalla sfera della civile e democratica comprensione per la diversità. L’accordo pratico vive, in tal caso, nonostante la diversità teorica.
L’esempio che ho recato è dei più facili e dei più semplici. Ma lo schema del consenso per intersezione funziona più o meno così (il dettato letterale di Rawls mi interessa relativamente poco). Il suo nocciolo duro è propriamente – come risultato – un accordo pubblico su una pratica di vita che ha a che fare con il bene pubblico. Non che le ragioni da una parte o dall’altra non si spendano al meglio, ma non sono quelle, in quanto ragioni, a decidere in ultima istanza dell’accordo (altrimenti ci sarebbe un accordo “veritativo”). Sono piuttosto convenienze più complesse, ma realizzate mediante argomentazioni ragionevoli che variamente illuminano e variamente “giustificano” quel convenire pubblico.
Facciamo un altro passo, stavolta in direzione ancora più epistemologica. Nelle proposizioni il vero e il falso non di necessità sono assolutamente opposti. Lo sono solo nelle proposizioni contraddittorie. Ma ci sono anche opposizioni più “morbide”, come quelle tra proposizioni contrarie. Si sa, ad es., che due proposizioni contrarie possono anche essere entrambe vere. La natura dei contrari, in generale, è poi quella di “mescolarsi”: un po’ come il bianco e il nero, che valgono come i contrari dei colori, e che, mescolati, producono infinite sfumature di grigio. Ora, come il bianco e il nero, si possono mescolare nelle proposizioni il vero e il falso secondo una misura a noi per lo più ignota. Noi chiamiamo di solito “opinioni”, “credenze” ecc. simili proposizioni: intorno ad esse non sappiamo decidere in modo netto se sono vere o false. Esse quindi valgono per noi come un po’ vere e un po’ false. In alcuni casi sono molto vere e in altri casi molto false. Platone trattava le prime proposizioni come un “opinare con ragione”. Rawls pensa certamente a qualcosa di simile quando parla di “ragionevolezza”.
E’ pur vero che, nell’universale diffidenza per la verità, la ragionevolezza è diventata una sorta di “refugium peccatorum”. Ci sono intere teorie legate alla “ragionevolezza” o alla ragione “probabile”. Oggi, ad es., quasi tutte le teorie scientifiche vendono se medesime come teorie “ipotetiche” o come “modelli interpretativi”. Cioè come modelli “ragionevoli”. Persino la filosofia ha preso il vezzo di chiamarsi fuori dalla figura solenne della “verità” e pur essa offre un campionario di etichette che alludono alla semplice ragionevolezza (problematicismo, congetturalismo, prospettivismo, pensiero debole, ermeneutica, pensiero meditante, pensiero nomade, pensiero narrativo, pensiero discorsivo, filosofia pratica ecc. ecc.); etichette tutte accomunate dalla previa dichiarazione (comunque, in sé e per sé autocontraddittoria) che una verità stabile (o incontrovertibile o epistemica che dir si voglia) è impossibile.
Io credo che nelle pratiche di vita, considerata la loro complessità e fatto mente alle inevitabili deliberazioni, relative a gesti singolari (l’azione è sempre singolare), oltre la ragionevolezza non si possa onestamente andare. Ma la ragionevolezza pratica si ottiene intenzionando il particolare da realizzare a partire da uno sguardo che deve in qualche modo avere a che fare con l’universale, cioè appunto con la regola. Da tempo immemorabile questa è anche la semplice cifra della saggezza. Ora, la regola, a sua volta, non si declina in modo univoco. La regola etica non è la legge giuridica, che pure è una regola. E la regola etica non è sempre una regola che vale come ultimo principio, anzi è quasi sempre una qualche determinazione di un principio generalissimo. Ad es., dire che il bene va fatto e il male evitato trova forse pochi contraddittori tra le persone “normali” (non tra gli intellettuali, che non di rado “normali” proprio non sono), ma dire che una certa cura va o non va somministrata può trovare molti che sensatamente contraddicono. Eppure, c’è di mezzo il bene e il male di una persona.
Nonostante io ritenga che la totalizzazione epistemologica della ragionevolezza sia impossibile (sia autocontraddittoria), volentieri concedo che in sede di pubblica discussione, dove ne va di pratiche di vita, la ragionevolezza sia, tutto sommato, la cifra più avanzata della possibilità di intendersi. Ma l’istanza che ora vorrei avanzare è propriamente questa: la ragionevolezza non basta, se è intesa astrattamente, cioè se viene coltivata al di fuori di un contesto relazionale in cui ci si rispetti e ci si riconosca reciprocamente. Detto in altri termini, la ragionevolezza non serve molto in sede pubblica, se non lavora all’interno di qualcosa che potremmo chiamare, usando una vecchia formula, una qualche amicizia politica.
Questa integrazione delle precedenti considerazioni riveste ai miei occhi una particolare importanza. Come dire: io sono convinto del fatto che la relativa debolezza dell’argomentare può essere soccorsa solo da un intervento convergente dell’intenzionalità pratica secondo una “buona complicità”. Si può anche aggiungere che in generale l’argomentare nelle dispute richiede sempre questo tipo di intervento, se vuole raggiungere l’interlocutore e tentare di persuaderlo. Ma nel caso di una argomentazione forte, l’intervento dell’intenzionalità pratica riconoscente può essere ridotto al ruolo di semplice complemento; nel caso invece di una argomentazione debole, l’intervento di tale intenzionalità pratica acquista un rilievo in certo modo determinante. Supplisce alla debolezza teorica e può consentire una intesa efficace, nonostante tutto. Siccome ho l’impressione che questo lato della questione non abbia di solito avuto conveniente risalto, indugio ancora un poco nel dilucidarlo.
Una argomentazione debole – per definizione .- non può essere in sé e per sé stringente. Non può cioè valere come confutazione dell’avversario. Proprio perché vale come una “ragionevole” opinione, può lasciarsi accanto altre “ragionevoli” opinioni, senza che ci si debba decidere per abbracciare l’una o l’altra. Se lo si fa, lo si fa per un intervento che diremo “extra-teoretico”, cioè per un intervento di altre forme della relazione intenzionale tra due soggettività. Ora, se mettiamo da parte il “logos”, resta che ad influire sull’interlocutore per “chiudere” l’efficacia dell’argomentare debbono venire innanzi il “pathos” e il l'”ethos”. Detto in altri termini, l’argomentare non decisivo può diventare praticamente decisivo (efficace) solo se la maniera di rapportarsi all’interlocutore viene “direzionata” in modo giusto. Ma il modo giusto qui è uno solo: quello che l’interlocutore percepisce come giusto. Ebbene, un interlocutore a mio avviso percepisce come giusto solo quel modo che “sente” come per lui; non gli pare giusto quel modo che sente come contro di lui. Questo discrimine generalissimo di solito precede l’interlocuzione determinata: ne è come la forma atematica.
Mettiamo subito in chiaro che non si tratta di esortare ad una complicità truffaldina. Non è qui in vista la ricerca della modalità più scaltra e sottile per far capitolare l’avversario, anche se una strategia come quella che sto indicando, può essere benissimo usata a tal fine. Qui si tratta piuttosto di provare a intendersi nel reciproco rispetto dei differenti punti di vista, ma usando di una intenzionalità amica, perché è la più rivelativa quanto alla messa in chiaro dei rispettivi punti di vista: di contro sta una intenzionalità nemica, che solitamente produce l’effetto opposto, ossia riesce occultante quanto ai punti di vista in conflitto.
Nei dibattiti di bioetica in Italia, ciò che salta subito agli occhi è proprio una tessitura di scontri tra nemici giurati, per cui la mira principale, da una parte e dall’altra, è quella di far fuori o di ridicolizzare l’avversario, cui solitamente si imputano le peggiori intenzioni. Una maniera per fuoriuscire da questo tunnel potenzialmente infinito è stato proprio il manifesto che personalmente ho ritenuto opportuno firmare, perché intende obbedire ad uno spirito diverso. E questo spirito io ho cercato di onorare non solo nei confronti dei colleghi di ispirazione laica, ma anche dei colleghi di ispirazione cattolica. Devo dire che la cosa mi è venuta fin troppo facile nella risposta a Francesco D’Agostino, per la vecchia amicizia che ci lega. Perciò è ancora in nome di questa amicizia che invito Francesco ad essere meno diffidente sia verso il manifesto che io ho firmato (e che lo ha lasciato scettico) sia verso le tesi di bioetica laica.
Spirito d’amicizia non significa cieca condiscendenza. Se alcune proposte teoriche paiono sbagliate, onestà vuole che lo si dica con franchezza. Dire con franchezza significa esporre il dissenso e nel contempo concedere all’interlocutore non solo la buona fede (questa non dovrebbe mai essere negata), ma anche la capacità di avere in vista una qualche parte della verità. Salvo verifica, s’intende. E da parte della bioetica laica di verità in vista a mio avviso ce n’è. Io vi trovo in generale una particolare attenzione all’umana fragilità, una particolare preoccupazione dinanzi alla nostra difficoltà nell’affrontare il dolore e la morte, una ferma difesa della nostra dignità come persone che vorrebbero poter far buon uso della propria libertà. Dico di intenzioni. Non dico di una pratica teorica giusta. In non poche tesi del nuovo manifesto di una bioetica laica, ad es., io ci trovo ben poco di giusto. A volte vi si fa innanzi, piuttosto, un io che a me pare ipertrofico (cui purtroppo la modernità ci ha assuefatti). Ciò nonostante, molte delle istanze che vengono da quella parte meritano di essere ascoltate, perché avvertono quanto meno dei pericoli della tendenziale spietatezza di chi va avanti a forza di principi supremi inflessibili, forse lasciando troppo sullo sfondo la pur comune convinzione che il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
Altrove ho ragionato intorno al tema del riconoscimento reciproco, come principio pratico delle nostre relazioni intersoggettive. E, del resto, questa maniera di presentare l’etica è quasi diventata patrimonio di buona parte del pensiero contemporaneo. Quindi evito di insistere. Spendo invece qualche osservazione ancora su un secondo punto di teoria, che mi divide da Francesco D’Agostino. Egli mi dice che la bioetica come io la intendo (e come la intendono quelli del manifesto che con me hanno firmato) è riducibile ad una bioeconomia, perché le ragioni pubbliche non sono mai ragioni etiche, bensì ragioni economiche.
Sulle prime, l’osservazione, avanzata con il richiamo all’autorità (?) di B. Croce, fa qualche impressione. Ma basta poco ad accorgersi che la cosa non può stare. Legare la “ragionevolezza” della interlocuzione pubblica e la ricerca del bene pubblico alla semplice ricerca dell’utile, infatti, si mostra subito una operazione teorica perdente proprio per la parte che D’Agostino vuole difendere; parte che è pure la mia parte. Direi perciò all’amico: guarda che, se si abbandona la sfera pubblica alla sfera dell’utile, ci si allea proprio con chi riduce le vita che ci accomuna ad uno scambio di equivalenti.
Non vorrei correre troppo lontano. Probabilmente quella di D’Agostino è solo una battuta paradossale. Io la trovo però pericolosa, se presa sul serio. Espellere dalla sfera pubblica tutto ciò che non rientra nell’utile è, comunque, contraddire una tradizione veneranda e vera, che fa dell’amicizia politica l’architrave del bene comune. Si vuole una cosa così? Ne dubito. Perché dovremmo relegare nella privatezza il mondo degli affetti e dei legami. Dovremmo ridurre la gratuità al buon cuore della singolarità. Dovremmo soprattutto escludere dalla sfera pubblica (che non è la sfera politica soltanto, perché prende con sé anche la società civile) tutto ciò che riguarda le strategie di vita e le forme della dignità che a ogni essere umano spettano. Sono infatti, queste, tutte forme che nulla hanno a che vedere con l’utile. Sono forme altamente etiche. Dovremmo infine trattare l’etica pubblica come un “circolo quadrato”. Credo proprio che Francesco D’Agostino non voglia in nessun caso andare per questa strada. Credo, piuttosto, che egli riconosca che ci sono questioni di etica che sono questioni di “etica pubblica”. E allora bisogna pur dire che le argomentazioni che le riguardano non possono essere argomentazioni che hanno a che fare con l’utile, anche se sono argomentazioni solo “ragionevoli”. Cioè argomentazioni da “ragione pubblica”.
Forse basta così per tentare di capirci meglio con l’amico Francesco. Il resto, alla prossima puntata. Gli chiedo solo, prima di chiudere, di lasciarmi sottolineare che, anche col senno di poi, il manifesto che ho firmato conserva ancora la funzione preziosa di un tentativo di “mediazione”. In un paese spaccato in due, come è il nostro, le mediazioni (s’intende, quelle “oneste”) dovrebbero ricevere speciale attenzione, perché danno una mano per venir fuori da situazioni alla lunga ingovernabili, specie se sono più o meno rivestite di rimandi ai “grandi principi”. Da una parte e dall’altra.