Carlo Trigilia – L’ENIGMA MEZZOGIORNO

(estratto da Paradoxa 4/2019)

A centocinquant’anni dall’Unità, il Mezzogiorno resta il più grande nodo irrisolto dello sviluppo del Paese. Un caso unico a livello europeo per la consistenza del divario e per la sua durata nel tempo, e quindi difficile da spiegare: una sorta di enigma per le scienze sociali. Negli anni si è accumulata una letteratura vastissima, ma manca una diagnosi davvero condivisa e quelle che sono più accreditate – come questo fascicolo di «Paradoxa» cerca di mostrare – non sono oggi le più convincenti.

Una diagnosi efficace è però necessaria perché non è immaginabile uno sviluppo solido per l’Italia nel futuro senza il Mezzogiorno.  Se le regioni del Sud non saranno in grado di crescere sempre più con le proprie gambe, anche le prospettive del Nord tenderanno a rattrappirsi ulteriormente, e le regioni più sviluppate perderanno ancora terreno rispetto a quelle europee più avanzate.

Questo legame tra Nord e Sud – da sempre messo in luce dalla migliore tradizione meridionalistica – è condiviso a parole da quasi tutte le forze politiche e sociali e da tutti i governi, ma nei fatti non si accompagna, specie negli ultimi decenni, a una strategia lungimirante, coerente e integrata. Per quali motivi?

La tesi che sosterrò è che essi non vadano cercati solo in fattori di tipo economico: la debolezza della struttura produttiva meridionale, l’arretratezza della rete infrastrutturale e l’incapacità dei governi di mettere in campo efficaci politiche di sviluppo. Tutti questi elementi sono certo rilevanti ma funzionano come cause prossime delle difficoltà che incontra uno sviluppo autonomo.

Le cause più profonde vanno a mio avviso cercate nel tipo di rappresentanza che il sistema politico offre agli interessi del Mezzogiorno. Si tratta di una rappresentanza schiacciata su interessi a breve di natura particolaristica – sia a livello locale che nei rapporti con il centro – ai quali viene data soddisfazione con politiche prevalentemente redistributive che non sono in grado di favorire uno sviluppo autonomo a medio e lungo termine, ma anzi spesso lo ostacolano, alla ricerca di consenso politico.

Questo quadro è stato negli anni più recenti messo in discussione dal ridursi delle risorse redistributive, anche in seguito alla crisi economica, e dalla forte diffusione di una politica di protesta nel Mezzogiorno. Tuttavia, finora, la protesta non è stata capace di introdurre cambiamenti significativi nel funzionamento della politica locale e nei rapporti centro periferia, anche se l’assetto politico tradizionale appare certo più debole e destrutturato che in passato.

Tra gli obiettivi del fascicolo c’è quello di mostrare come meccanismi, di tipo politico prima che economico, aiutino a spiegare meglio le difficoltà di sostenere uno sviluppo autonomo nelle regioni meridionali con interventi pubblici adeguati, e anche a comprendere la marginalizzazione progressiva del problema del Mezzogiorno nel dibattito pubblico e in quello politico.

Ricordiamo anzitutto qualche dato essenziale (indicatori più dettagliati si trovano nei contributi successivi, che toccano vari aspetti dell’economia, del welfare e delle disuguaglianze, oltre che della politica).

Con un terzo della popolazione italiana (circa 21 milioni di abitanti), il Sud produce un quarto dei Pil complessivo e un quinto di quello del settore privato. Il Pil per abitante è il 56% di quello del Centro-Nord (dopo aver raggiunto la punta massima del 60% nel 1975; era il 50% nei primi anni ‘50). Nel Sud si concentra metà dei disoccupati ufficiali italiani e due terzi di coloro che si trovano in condizioni di povertà relativa.

Il tasso di occupazione ufficiale è del 47% contro il 69% del Centro-Nord, quello femminile è del 34 % contro il 61 del Centro-Nord. Produzione e occupazione hanno subito un ridimensionamento molto più forte negli anni della Grande Crisi dal 2008 al 2013. Le regioni meridionali sono quelle con il più alto livello di disuguaglianze sociali e con il tasso più elevato di povertà. Le disuguaglianze sono aumentate più che nel Centro-Nord in seguito alla crisi degli ultimi anni […].

Molti altri dati si potrebbero considerare ma non cambierebbe il quadro complessivo di un divario persistente e consistente. Due considerazioni preliminari sono però necessarie. La prima: sarebbe pressoché impossibile la tenuta sociale di una società con questi numeri di occupazione, reddito e povertà se non ci fossero degli ammortizzatori che accrescono il reddito effettivo e permettono quindi un livello di consumi per abitante ben superiore a quello del reddito ufficiale (i consumi pro-capite sono di oltre 10 punti più alti del reddito prodotto per abitante). Ne segnalo due.

Il più rilevante di questi ammortizzatori ha a che fare con l’economia sommersa e il lavoro nero, e con l’economia criminale. Quest’ultima è ovviamente molto difficile da misurare, ma quella sommersa è stimata in cerca un terzo del Pil complessivo del Mezzogiorno […].

Un altro ammortizzatore antico, che il Mezzogiorno conosce bene già dalla fine dell’800, è costituito dall’emigrazione. Questo fenomeno ha assunto però anch’esso caratteri nuovi, specie nell’ultimo quindicennio: la ripresa dei flussi ha coinvolto in misura crescente i giovani con livelli di istruzione più elevati (tra il 2000 e il 2015 sono emigrati 1,7 milioni di residenti nel Sud, due terzi dei quali giovani tra i 15 e i 34 anni e un terzo di laureati). Si tratta anche in questo caso di un adattamento regressivo perché priva il Mezzogiorno di quelle risorse che potrebbero alimentare una imprenditorialità sana e innovativa. Per di più la nuova emigrazione si accompagna a una diminuzione progressiva della popolazione e a una più forte spinta all’invecchiamento che connoteranno le regioni meridionali nei prossimi anni.

La seconda qualificazione necessaria riguarda dinamiche più positive di cui va pure tenuto conto. Non bisogna trascurare la differenziazione interna al Mezzogiorno stesso, che per molti versi è cresciuta negli ultimi anni e si è accompagnata anche a fenomeni di cambiamento e di innovazione (come ricordano i contributi di Viesti e Nisticò).

Ci sono segni e luoghi di movimento, specie in alcuni settori come l’agricoltura, l’agro-industria e il turismo, alimentati da risorse locali delle regioni meridionali che incontrano una domanda di beni e servizi crescenti dall’esterno.  In generale si può dire che la globalizzazione ha favorito la crescita di una domanda internazionale che riguarda il turismo e la fruizione di beni culturali e ambientali (di cui il Sud non è meno dotato del Centro-Nord), ma anche produzioni agricole e agro-industriali di qualità. Si tratta di attività per le quali le caratteristiche ambientali (il suolo, il clima), insieme a tradizioni di saper fare locali, costituiscono un vantaggio competitivo tale da compensare, almeno in parte, le diseconomie ambientali in termini di infrastrutture beni e servizi collettivi. In questi settori sono nate e crescono iniziative capaci di stare sul mercato, alimentate da una nuova imprenditorialità.

Resta il fatto che la globalizzazione ha nel contempo creato più gravi problemi per l’apparato industriale tradizionale del Mezzogiorno. Tra gli anni ’80 e i ’90 si era assistito anche in diverse aree del Sud, specie in Abruzzo, Puglia e in Campania, a uno sviluppo di piccola impresa basato su aggregazioni territoriali di aziende specializzate nella produzione flessibile di beni legati in particolare al comparto della moda e dei beni per la casa (tessile-abbigliamento, calzature, mobilio). La collocazione di questi sistemi locali nella fascia di qualità relativamente più bassa li ha però esposti maggiormente alla crescente concorrenza di costo dei paesi emergenti con il dispiegarsi della globalizzazione. Ne è risultato un drastico ridimensionamento di questa parte dell’apparato produttivo meridionale, che è stata anche penalizzata da un contesto ambientale più fragile in termini di infrastrutture materiali e immateriali e servizi collettivi […].

Nel complesso, non c’è dubbio che i tentativi di dare una soluzione alla ‘questione meridionale’ non abbiano dato i risultati sperati specie nell’ultimo quarantennio. Oggi ci troviamo di fronte a un Mezzogiorno che è ulteriormente indebolito dalla crisi, in cui lo scontro tra tendenze progressive e regressive rischia di essere perso dalle prime e di allontanare ulteriormente l’obiettivo di uno sviluppo autonomo e solido delle regioni del Mezzogiorno. Occorre dunque cercare di mettere a punto una diagnosi efficace dei fallimenti delle politiche condotte negli scorsi decenni. Quali sono le cause di questi insuccessi? Che cosa può aiutarci a spiegare il mancato sviluppo autonomo del Mezzogiorno e insieme la marginalizzazione del problema del Sud nel dibattito pubblico?

I commenti sono chiusi.