Tavola Rotonda – Parole e guerra

In occasione della pubblicazione del volume di Vittorio Mathieu Conflitto e narrazione. Omero, i mass media e il racconto della guerra.

19 dicembre 2006, Roma
Palazzo Corsini – Accademia dei Lincei

Conflitto e narrazione sono due realtà che si intrecciano su più livelli. Non ogni parola è strumento di dialogo, e non ogni conflitto è immediatamente sinonimo di guerra. Nell’epoca dei mass-media, in cui fatto e rappresentazione sono sempre più reciprocamente connessi, una riflessione sui vocaboli, sulle metafore, sui linguaggi che strutturano i conflitti appare ineludibile.


Atti:

Resoconto
«In Italia per trent’anni, sotto i Borgia, vi furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non vi fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù».
La memorabile battuta, pronunciata da Orson Welles ne Il terzo uomo di Carol Reed, sintetizza in modo brillante un’opinione non proprio «politicamente corretta», ma abbastanza diffusa: la guerra è crudele e tremenda, certo, ma anche tremendamente affascinante, perché gravida di sollecitazioni creative; per contro la pace è statica e, tutto sommato, terribilmente noiosa.
Questo «paradosso», forse un po’ troppo condiviso per esser davvero tale, è risuonato più volte – quasi un filo conduttore – nelle riflessioni svolte da Pietro Boitani, Alberto Gaston, Monica Maggioni e Vittorio Emanuele Parsi, invitati dalla Fondazione Nova Spes ad interrogarsi sul binomio Parole e guerra . Tentiamo innanzitutto di restituire, per quanto possibile, il complesso intreccio delle argomentazioni svolte che, pur muovendo da interessi, prospettive e competenze eterogenee , hanno trovato un punto di convergenza nella sottolineatura dell’elemento intrinsecamente dinamico (e dunque potenzialmente narrativo) della guerra di contro alla pace. Sulla pace, in effetti, sembra esserci poco da dire e, a maggior ragione, da raccontare. Nello stato di pace, si dice, non succede nulla: e questo è tutto. L’assenza di eventi significativi impedisce allo scorrere del tempo di assumere un verso ed un senso in rapporto ad un prima e ad un dopo, di scandire un preambolo, un climax e un finale: tutti elementi indispensabili affinché abbia luogo un certo orientamento del flusso temporale, ossia, appunto, un racconto. La guerra, per contro, sembra intrattenere per definizione un rapporto privilegiato con la narrazione. Non è un caso, lo ha ricordato Boitani in avvio di discorso, che tra le prime grandi narrazioni dell’Occidente figuri l’Iliade, un poema di guerra, in cui quest’ultima è contemporaneamente cornice ed oggetto della narrazione.
E non è un caso che l’origine vera e propria di questa guerra originaria sia la bellezza: la straordinaria bellezza di Elena, per definire la quale il poeta sfrutta la significativa ambiguità dell’aggettivo «ainós», ossia «terribile», «maledetto». Elena è talmente bella da somigliare maledettamente alle dèe: maledettamente bella, dunque, proprio come la guerra che scatena, e che è, a sua volta, terribile, ma anche tale da suscitare ed alimentare lo stupendo racconto dell’Iliade. Boitani ha richiamato l’attenzione sul fatto che persino la momentanea interruzione delle ostilità, cui dà luogo l’apparizione di Elena nel terzo libro del poema (Iliade III, vv. 156-58), non significa affatto un principio di risoluzione del conflitto: è esattamente il contrario. «Non è vergogna che Teucri e Achei, schinieri robusti, soffrano a lungo dolori per una donna simile», esclamano gli anziani alla vista di Elena. E così facendo riaffermano e implicitamente legittimano il nesso guerra-bellezza: vale davvero la pena, insomma, guerreggiare per bellezza. E la bellezza merita di essere raccontata. Il poema omerico costituisce una delle prime attestazioni dell’intrinseca disposizione della guerra a tradursi in narrazione, ma non certo l’ultima. Boitani ha insistito su questo registro narratologico, rintracciando il binomio parole e guerra in alcuni momenti topici della letteratura occidentale: da Dante, a Stendhal, a Tolstoj, fino ad arrivare al poeta caraibico contemporaneo, premio Nobel nel 1982, Derek Walcott. Tuttavia approccio letterario e teoria del racconto non esauriscono la complessità del binomio in questione e anzi si rischia di nascondere la tensione altissima che l’attraversa, come ha argomentato Gaston, se non si introduce una dimensione ulteriore. Nel caso della guerra, infatti, si acuisce un problema che in realtà è costitutivo della narrazione come tale: la narrazione è una forma di rappresentazione e la rappresentazione non coincide mai completamente con l’evento che rappresenta. Gaston ha ricordato il racconto in cui Borges narra di un Averroè alle prese con la Poetica di Aristotele e con la difficoltà di rintracciare una traduzione adeguata dei termini “commedia” e “tragedia”, in mancanza di un qualsiasi corrispettivo nella propria cultura dei “fatti” che i due termini rappresentano: nel momento stesso in cui Averroè ritiene di aver individuato la soluzione giusta – che in realtà è sbagliata – svanisce, si dissolve. Cosa significa questo curioso finale e a cosa allude la dissoluzione cui va incontro chi pretenda di aver risolto lo scarto tra fatto e rappresentazione? E perché tutto ciò dovrebbe gettar lumi sul fatto che la guerra rappresenti un caso estremo di quello scarto? Generalmente ciò che distingue la narrazione dal resoconto è il rispettivo coefficiente di realtà, che varia tra il grado minimo della prima (quello proprio della cosiddetta imagery) e il grado massimo della seconda (che è quello cui dovrebbe aspirare la descrizione obiettiva). La capacità di tener ferma questa distinzione, di separare l’immaginazione della realtà, è ciò che distingue la sanità mentale dalla follia. Un “io” che non sappia tener distinti i piani, che si illuda di possedere la chiave per colmare il divario, è destinato, proprio come l’Averroè di Borges, a dissolversi.
Ma c’è di più. Proprio nel caso della guerra, infatti, questa distinzione tende ad assottigliarsi in modo pericoloso, perché la guerra intrattiene un nesso strutturale con il «delirio», che, etimologicamente, significa «uscire dal solco tracciato». Per sua natura ciò che separa – confine, limite, soglia – è potenzialmente conflittuale: riprendendo un suggestivo spunto di Filo della Torre, Gaston ha definito il solco come quella «zona di turbolenza» costituita dallo spazio infinitesimo che separa il dito di Dio da quello di Adamo nel Giudizio universale di Michelangelo. Il de-lirium, la trasgressione di un solco di questo genere, può dunque a buon diritto esser compreso come l’origine stessa del conflitto, del gesto fratricida e fondativo con cui, per esempio, Romolo uccide (e poi onora) Remo. La guerra, come il delirio, è violazione di confini stabiliti, ingresso in un ambito di indistinzione.
La tesi avanzata in conclusione da Gaston è che in una società mass-mediatica, caratterizzata da una moltiplicazione delle rappresentazioni della guerra, abbia luogo una resa al “delirio” bellico con conseguente alterazione proprio del coefficiente di realtà: da certi resoconti di guerra la realtà non traspare ormai più. La spettacolarizzazione prevale sulla descrizione; il che dà luogo ad un vero e proprio “scarto emotivo”: quanto più è cruenta la rappresentazione, quanto più è visibile il “macello”, tanto più è forte lo scarto tra la rappresentazione stessa e la reazione emotiva che provoca nello spettatore.
Tutt’altra, su questo punto, l’opinione di Monica Maggioni, che ha proposto una diversa analisi di ciò che davvero succede sul versante dei media: qui, in realtà, non vi è alcuna ostentazione del “macello”; spesso, anzi, accade proprio il contrario. E’ il codice simbolico utilizzato che provoca l’effetto di sistematico depotenziamento emotivo del contenuto comunicato. Lo spettatore è raggiunto da suoni distanti e immagini confuse: non vede mai la devastazione reale, lo smembramento dei corpi, lo scorrere del sangue. Ma non è da quel che si vede o non si vede che dipende, secondo Maggioni, lo “scarto emotivo” denunciato da Gaston: il distacco della realtà, semmai, è provocato dal fatto che viene rimossa la compiutezza di senso di una storia in cui lo spettatore possa immedesimarsi. Il punto è che nella guerra raccontata secondo il codice televisivo dominante non sono la “persone” a morire, ma la “gente”. L’interruzione della vita e degli affetti è il fatto che risalta di meno nei resoconti radio-televisivi della guerra ed è questo che ne abbassa il coefficiente di realtà. Si tratta, tra l’altro, di una situazione strutturale che non può essere evitata, secondo Maggioni, con iniziative di un singolo. Il bilancio della propria esperienza personale e della propria attività di giornalista, che ha tentato di raccontare il conflitto iracheno dalla posizione privilegiata di embedded, non è positivo: a fronte dell’ideologia, che diviene subito il registro narrativo dominante nello stato di guerra, le narrazioni, per quanto obiettive, per quanto volte a restituire la realtà – e non lo spettacolo – della guerra medesima, non riescono a farsi spazio; ci sono racconti che, semplicemente, non lasciano traccia.
Secondo Vittorio Emanuele Parsi ciò è del tutto naturale e dipende semplicemente dal fatto che nessuno può davvero assumere la posizione di narratore neutrale di una guerra: o la raccontano i vinti, o i vincitori. La narrazione è tutta dentro la guerra, è parte integrante di essa: Tucidide, Senofonte o Cesare non avevano l’ambizione di restituire con obiettività certi accadimenti, ma di trarne un senso, di raccontare passaggi epocali.
Nel tentativo di restituire al termine “guerra” un significato più preciso e originario di quello corrente, più saldamente ancorato alla realtà, Parsi ha ricordato che una reazione esclusiva di “orrore” non è un portato necessario dell’evento bellico: è invece un atteggiamento tipico del solo Novecento. Non che l’orrore non sia un elemento significativo della guerra, ma non è l’unico, né il principale. La guerra è una realtà innanzitutto e squisitamente politica; più precisamente: è un aspetto particolare della violenza politica (anche se non l’unico). Per contro la pace non è qualcosa che sia a priori e per definizione preferibile alla guerra, come vorrebbe un troppo facile irenismo: in realtà, sotto il profilo politico, la pace è preferibile solo in quanto è una condizione ottimale per godere le risorse, e non perché la guerra sia intrinsecamente riprovevole. Non ci si può rapportare alla guerra come se questa fosse una catastrofe naturale e inevitabile: la guerra è un mezzo per ottenere un certo fine politico. Si tratta di una definizione che oggi scandalizza gli occidentali, i quali hanno perso il senso politico della guerra e tendono a ricondurla ad un’aggressività innata e naturale, che sarebbe il caso, per quanto possibile, di contenere. Ma, secondo Parsi, è esattamente il contrario: in quanto azione politica espressamente orientata ad un fine, la guerra è già una forma di regolazione della violenza: anzi, essa ha una sconvolgente razionalità. L’aspetto di “delirio” della guerra, al contrario di quanto dichiarato da Gaston, è un portato del tutto secondario: “c’è della follia in quel metodo”, e non viceversa. Come si accennava all’inizio, pur nella differenza delle prospettive e nella dissonanza – talora molto marcata – su singole tesi, resta condivisa l’idea per cui la “guerra”, a differenza della pace, intrattiene un rapporto forse problematico, ma comunque privilegiato con le “parole”. Il conflitto, lo si è visto a livelli diversi, è la trama originaria di ogni narrazione. E’ però proprio in forza di alcune delle argomentazioni sviluppate (penso, in particolare, all’analisi di Gaston) che si può sollevare una questione, che per altro è quella che ha guidato Nova Spes nel progetto pluriennale di ricerca all’interno del quale si inserisce l’incontro all’Accademia dei Lincei: ma davvero la nozione di “conflitto” coincide senza residui con quella di “guerra”? E se la pace non fosse banalmente l’assenza di conflitti – situazione che, effettivamente, annoia soltanto a pensarla – , ma solo un certo modo, non necessariamente distruttivo, né per forza violento, di gestirli? In tal caso ci si dovrebbe abituare a pensare il conflitto come un elemento “terzo” tra pace e guerra: un terzo incomodo e scomodo da pensare, una condizione strutturale e non illegittima del vivere insieme, che deve essere affrontata con gli strumenti giusti e non evitata o, peggio, rimossa. In tal caso, allora, il vero paradosso consisterebbe nel fatto che non è il conflitto stesso, ma la sua rimozione ad innescare la violenza e gli esiti più devastanti.
Nessuna pretesa, ovviamente, di risolvere in poche battute questioni tanto radicali: certo, però, che in questa prospettiva, solo per fare un esempio, l’elemento di “delirio”, di cui parla Gaston, che riguarda propriamente il conflitto quale dimensione profonda dell’esistenza, non contraddice più la “razionalità” politica della guerra rivendicata da Parsi, la quale diventa uno dei modi in cui, in certe situazioni e a certe condizioni, può essere razionale che il conflitto sia affrontato. Ma nessuna guerra risolve la strutturale precarietà dei confini identitari – il vero conflitto, appunto – che caratterizza l’esistenza umana. E forse va cercata qui, più che in una dimenticanza dell’occidente novecentesco, la radice profonda del fatto che le guerre spesso travolgono teleologia e razionalità politica di cui avrebbero dovuto essere strumento, al punto tale che si dimentica il fine per cui le si era volute e resta solo l’orrore.

Partecipanti: P. Boitani, A. Gaston, M. Maggioni, V. E. Parsi, P. Valenza.

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