Tavola rotonda – Il malessere della democrazia (o dei suoi teorici)

7 ottobre 2011, Roma
Camera dei Deputati, Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, Via del Seminario 76

A partire da Paradoxa 2/2011 “Quelli che…la democrazia”

Il numero di Paradoxa sulla democrazia propone uno spartiacque inedito, che rimodella quelli tradizionali (destra/sinistra, democrazia formale/d. sostanziale, etc.): da una parte vi è chi pone, con forza, il problema di uno stato di malessere del sistema democratico, arrivando, al limite, alla denuncia di un’emergenza democratica in Italia; dall’altra c’è chi colloca questo malessere non tanto a livello della democrazia reale, quanto a livello di teorie che paradossalmente – nel tentativo di difendere o celebrare la democrazia come valore – tradiscono tratti profondamente antidemocratici. Si impongono alcune domande: la democrazia è un valore o uno strumento? Quali e quanti diritti (sociali, politici, etc.) sono costituzionalizzabili? E quali e quanti sono compatibili fra loro? Le forme di governo sovranazionali sono ‘diversamente’ democratiche? Come pensare lo spazio (democratico) per un conflitto tra visioni alternative di democrazia?


Interventi:

VITTORIO EMANUELE PARSI
– Paradoxa fa parlare di sé ad ogni uscita, ma stavolta più di altre (è di qualche giorno fa una bella recensione del Foglio). Nel fascicolo di cui discutiamo oggi, il tema, di per sé ‘caldo’, della democrazia è affrontato in modo provocatorio, e cioè prendendo a bersaglio il pensiero di alcuni autorevoli teorici, per lo più collocabili nell’area della sinistra, che diagnosticano una ‘crisi’ in atto del sistema democratico. Dal controcanto proposto dagli autori intervenuti su Paradoxa emerge un quadro molto critico nei confronti di un’impostazione teorica, largamente condivisa, che si rivela assai lontana da un’ispirazione liberale e che per di più rischia di tradire i principi stessi di quella democrazia che vorrebbe difendere. Su queste tesi si confronteranno i relatori invitati dalla Fondazione Nova Spes, molto diversi tra loro per prospettive e per competenze.
ALESSANDRO FERRARA
– Ho molto apprezzato la vis polemica della rivista e la difesa appassionata di una delle due concezioni della democrazia che si contendono il campo (quella opposta alla mia). La tesi è che negli studiosi chiamati in causa (da Zagrebelski a Urbinati, da Canfora a Salvadori) vi sia una concezione sostanzialmente paternalista della democrazia, che espropria quello che il Curatore chiama «signor Nessuno» e che, nel tentativo di difendere la democrazia come valore, nasconde tratti anti-democratici. Ma qual è la concezione che viene contrapposta a questa? A giudicare da quanto appare in controluce dal fascicolo, a me pare si prefiguri un assetto complessivo della società che dovrebbe rispondere al risultato aggregato delle preferenze espresse dall’elettore. È facile, però, rendersi conto del fatto che, a rigore, una democrazia così intesa non assicura la sopravvivenza di alcun diritto, perché quest’ultimo dipenderebbe dalla sopravvivenza di una determinata maggioranza contingente. Di più: questa posizione non soltanto rende precari i diritti, ma mina la sopravvivenza della democrazia stessa: ricordo che nel 1933 l’espressione della maggioranza fu Hitler, democraticamente eletto.
Nel leggere le critiche che mi vengono mosse da Dino Cofrancesco, mi sembra di trovarmi nella posizione di un ‘nano’, che riceve bordate da parte di chi non si è accorto del fatto che sotto il nano c’è il gigante. E il gigante è niente di meno che John Rawls, con la sua difesa della democrazia costituzionale: una difesa pienamente liberale, come attesta il suo Il liberalismo politico del 1993. Il fascicolo di Paradoxa abbonda di riferimenti a Hobbes, Rousseau, Constant, Schumpeter. Poi c’è l’abisso. Sembra che dopo costoro non vi siano più stati pensatori politici degni di essere menzionati o discussi. E invece con John Rawls nasce un’idea di legittimità che merita di essere presa in considerazione (e che, per altro, costituisce il cuore della mia personale posizione).
Mi si rimprovera di aver negato (paternalisticamente) che il popolo esprima il suo consenso nelle questioni ordinarie, mentre gliene avrei lasciato lo spazio soltanto in materia di diritti fondamentali e altre previsioni di rango costituzionale. Ora, «esprimere il consenso» è espressione molto ambigua. La Legge Gelmini sull’Università, per esempio, non incontra certo il mio consenso (anzi, posso spingermi a definirla scriteriata): il che non toglie che si tratti di un provvedimento del tutto legittimo, in quanto in accordo con quanto previsto dalla Costituzione. Alla p. 126 di Liberalismo politico, Rawls riassume un dibattito politico che comincia almeno da quando Trasimaco, nella Repubblica, oppone a Socrate la definizione di giustizia come «utile del più forte». La distinzione tra potere legittimo e forza arbitraria è articolata da Rawls in questo modo: «noi esercitiamo il potere politico in modo pienamente corretto solo quando lo esercitiamo in armonia con una Costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini, in quanto liberi ed eguali, ne accolgano, alla luce di principi e ideali accettabili per la loro comune ragione umana, gli elementi essenziali». Il potere politico è perciò legittimo quando è in armonia con la Costituzione (e con i suoi principi generali), sottoscritta da tutti i cittadini liberi e uguali: non quando è in armonia con la maggioranza uscita dalle elezioni, con la maggioranza dell’opinione pubblica registrata dai sondaggi o con un qualche testo sacro.
Questa concezione di Rawls, che è alla base del costituzionalismo e che recepisce il «dualismo democratico» di Bruce Ackerman, è frutto di un preciso contesto storico. La democrazia è un sistema immerso in un sistema sociale più ampio, il quale, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, è diventato sempre più inospitale per gli istituti democratici, per un insieme di ragioni: l’allargamento della base elettorale, il pluralismo culturale, la complessità delle questioni istituzionali, la trasformazione dei media, l’influenza del denaro sulla politica, e così via. A queste mutate condizioni la politica è chiamata a dare una risposta ed è irrealistico pensare che il consenso dei governati debba riguardare tutti i dettagli dell’azione legislativa, esecutiva e giudiziaria: non potrà che essere relativo ad uno strato alto che coincide con la legislazione di rango costituzionale (ci sarà sempre un provvedimento legislativo ordinario, un decreto del governo, o una sentenza dei giudici che vengono vissuti come ingiusti). Tutto il resto si legittima in quanto “non incostituzionale”. Di questa dottrina liberaldemocratica assolutamente standard, nella quale siamo immersi, nel fascicolo non vi è traccia.
Un’altra considerazione critica riguarda l’idea di libertà sul cui sfondo si collocano gli autori del numero. A me pare che si tratti di una concezione, affermatasi soprattutto negli ultimi trenta anni (da Reagan in poi), che si appropria della bandiera del liberalismo, ma che in realtà con il liberalismo ha ben poco a che fare. Semplificando: è la libertà del «signor Nessuno» di poter decidere ciò che più gli aggrada con minor costrizione possibile da parte della legge. La legge, insomma, sarebbe il limite della libertà, che comincia, appunto, dove la legge tace. A ben guardare, però, questa è l’idea enunciata da Hobbes – il quale è tutto fuorché un liberale – nel XXI capitolo del Leviatano: «la libertà dell’uomo consiste in ciò: che egli non trova ostacolo nel fare quello che egli ha volontà o desiderio di fare». E ancora: «La libertà è in quelle cose che il sovrano ha omesso nel regolare le azioni dei sudditi» (cioè libertà di comprare e vendere, di stipulare un qualunque tipo di contratto, di educare i figli secondo le proprie inclinazioni, etc.). Ne risulta che per Hobbes la libertà vive in quegli interstizi che si creano tra ciò che la legge prescrive e ciò che vieta, con il corollario che quanto minore è lo spazio della legge, tanto maggiore è quello della libertà. Una generazione più tardi, Locke replica a Hobbes che «la libertà naturale dell’uomo consiste nell’esser libero da ogni superiore potere sulla terra; la libertà dell’uomo in società consiste nel non essere soggetto a nessun altro potere legislativo che non sia quello stabilito per comune consenso dello Stato». Tradotto: la legge non toglie la libertà, ma la procura.
CORRADO OCONE
– Mi pare che la rivista, nell’aprire un dibattito senza tesi precostituite, risponda veramente all’esigenza arendtiana di far emergere il giudizio dal basso, invece di presupporlo; e che sia perciò una boccata d’aria fresca per chi, come me, non si ritrova nella vulgata trionfante a sinistra, pur collocandosi in quella parte politica. Nel 1923 Benedetto Croce scrisse una notarella intitolata Contro la troppa filosofia politica: uno dei limiti degli autori presi di mira dal fascicolo consiste proprio nel voler ridurre la pluralità effettiva della vita a degli automatismi o schemi rigidi, come quello di rapportare costantemente la democrazia reale a quella ideale, il liberalismo reale a quello ideale. Questo, però, è profondamente anti-liberale: liberalismo, infatti, significa riconoscere alla politica una sua autonomia, che non deve essere sacrificata alle esigenze della filosofia o dell’idealità. È l’azione individuale che fa la politica: un’azione intessuta di morale, certo, ma anche di interessi legittimi. Ora, la logica di Croce è contestualista, tiene conto di occasioni e presupposti, si piega alle esigenze delle situazioni contingenti: il che ha portato alcuni a rilevare vere e proprie contraddizioni nel suo pensiero. Su un punto, però, Croce è sempre stato inequivocabile: il suo nutrire, insieme a tutti i grandi liberali dell’Ottocento, un forte sospetto nei confronti della democrazia. Per Croce il valore supremo non è affatto la democrazia, ma la libertà; e la democrazia non è che uno strumento per realizzarla. La lezione crociana consente di cogliere il vero discrimine non tanto tra un liberalismo di destra e uno di sinistra, quanto piuttosto tra un liberalismo metafisico, ideologico, giusnaturalistico, da una parte, e un liberalismo storicistico, dall’altra. La grande frattura epistemologica è avvenuta con Tocqueville, il quale, nella Democrazia in America, non definisce astrattamente la libertà, ma ne descrive le forme concrete sulla base della sua esperienza americana. Questa grande corrente del liberalismo storicistico prosegue con Croce, Isaiah Berlin, e persino Gobetti, il quale difende questa idea non metafisica, ma attivistica della libertà.
Concludo osservando che mi pare di poter dire che l’intento dichiarato dal curatore del fascicolo – quello cioè di non muovere critiche basate su pregiudizi, rispettando la distinzione weberiana tra l’uomo di scienza e l’uomo di azione – sia stato pienamente realizzato.
ANTONIO POLITO
– Vorrei concentrarmi su quanto attiene più strettamente alle mie competenze, e quindi non tanto il pensiero politico, quanto piuttosto l’analisi della realtà politica che abbiamo di fronte e del sistema politico con cui concretamente abbiamo a che fare. Innanzitutto vorrei complimentarmi con la rivista, per aver preso di petto un pensiero forse non dominante, ma certo dilagante, visto che ha travalicato l’ambito accademico per informare di sé la stampa quotidiana, contribuendo ad ingenerare confusioni sul contenuto stesso del termine «democrazia». Confusioni che hanno purtroppo guadagnato una loro salda posizione nell’opinione pubblica. «Democrazia», per esempio, non coincide con «stato di diritto»: in Russia vige la prima, ma non certo il secondo. Né si può mettere tutta la questione dei diritti sociali in carico alla democrazia, la quale è soprattutto un sistema finalizzato a garantire il ricambio della classe dirigente senza spargimento di sangue ma attraverso il voto.
Detto questo, non ci si può nascondere il fatto che un malessere della democrazia esista e che sia un fenomeno comune a tutto l’Occidente; un malessere che mette in crisi la forma più evoluta di democrazia che abbiamo affinato attraverso i secoli: quella parlamentare. Vi è oggi un’evidente esportazione dei poteri democratici verso l’alto, cioè verso la dimensione extra-nazionale, che si estrinseca in forme diverse: la crisi finanziaria, che travalica i confini dello Stato nazione e coinvolge soggetti che sono al di fuori del controllo democratico esercitato dai cittadini con il voto (la lettera della Bce al governo italiano è uno dei documenti storici di questo fenomeno); o anche il diffondersi di poteri non democratici, anche se non necessariamente anti-democratici. Non democratici sono gli apparati degli ex-partiti, che esercitano tuttora un forte potere nella gestione della cosa pubblica. Non democratico è il potere dei media, che non sono responsabili se non di fronte al mercato. Non democratico è il potere della rete (o, come preferisco dire, della «conversazione pubblica»), che è generalmente considerato in modo positivo, ma che si presenta, a mio avviso, come fortemente corrosivo del dibattito pubblico informato contribuendo non poco al diffondersi di populismi di ogni genere. In Italia, poi, abbiamo una difficoltà in più: abbiamo operato in modo da rendere di fatto impossibile il ricambio della classe dirigente; il risultato è che abbiamo, di nuovo, una democrazia bloccata, con la differenza che ora discriminante è il berlusconismo, laddove prima il blocco era costituito dall’impossibile alternanza tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista.
Sulla base di queste premesse, vorrei proporre quattro riserve nei confronti del messaggio che accomuna gli autori discussi criticamente da Paradoxa.
Primo: incitamento dell’opinione pubblica ad un ampliamento a dismisura della sfera dei diritti che debbono essere garantiti dalla cosa pubblica. Per esempio il diritto al lavoro. Se la tutela di tali e tanti <nuovi diritti> viene chiesta al sistema politico, ne consegue inevitabilmente una abnorme allargamento dei poteri dello Stato, che del resto è all’origine della crisi finanziaria innescata dai debiti sovrani. Si tratta, per altro, di un’idea <totalitaria>, per così dire, della democrazia, perché le si chiede di occuparsi della totalità della vita dei cittadini, il che mette notevolmente a rischio il carattere liberale della democrazia.
Secondo: costante riproposizione della retorica delle due Italie: di un Paese spaccato tra feccia morale ed élite virtuosa. L’innalzamento del livello d’odio sociale che ne è scaturito è impressionante, e soprattutto è all’origine di una preoccupante incapacità di coesione nazionale in momenti di emergenza: ne è prova la forte reazione corporativa che ha innescato il tentativo del governo di far fronte alla crisi imponendo sacrifici e nuovi carichi fiscali.
Terzo: uso politico della Costituzione, che, curiosamente, è un cavallo di battaglia della destra americana. In Italia è appannaggio del pensiero di sinistra, con delle clamorose omissioni. Si cita soltanto metà dell’art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»; e si omette il seguito: «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Si espunge completamente dal dibattito pubblico sulle intercettazioni l’art. 15: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Questo è un uso selettivo, politico e molto pericoloso, che impedisce di sentire la Costituzione come una base comune.
Quarto: tendenza alla riduzione dell’autonomia della sfera politica, in favore di morale e religione. Mi limito alla morale: si pretende di risolvere il problema dell’incapacità del sistema politico nel gestire il ricambio della classe dirigente, appellandosi ad un potere non democratico che dovrebbe esercitare una sorta di controllo di qualità morale della classe politica così selezionata: la magistratura.
PIERO OSTELLINO
– Condivido, per ragioni professionali, la prospettiva empirica di chi mi ha preceduto, ed è dunque su questo piano che svolgerò le mie considerazioni. Mi pare di capire che secondo Ferrara i limiti della democrazia liberale consistono nel fatto che è espressione della legislazione di una maggioranza, che ha ottenuto un consenso popolare. Questo significa che, per Ferrara, la democrazia esiste soltanto quando vi è una maggioranza che corrisponde ai suoi propri principi ed ideali: se così è, significa che il berlusconismo ha fatto breccia anche nella sua prospettiva. Questa, però, non è democrazia liberale, la quale, come diceva Popper, consiste piuttosto nel poter cambiare i governi senza dover ricorrere alla violenza.
Sono personalmente convinto (anche in base alla mia esperienza in Russia e in Cina) che la forza del liberalismo consista proprio nel tenersi saldamente sul livello empirico, contro ogni forma di costruttivismo. Se mi chiedo se piova, non ho altra possibilità di verifica che quella di guardare fuori dalla finestra; e lo stesso deve valere per il controllo dell’operato dei governi. Il problema è che mentre all’Est il costruttivismo totalitario è morto con il crollo del comunismo, ad Ovest sopravvive e imperversa un costruttivismo democratico. Sento dire, per esempio, nei cosiddetti talk show che la spesa pubblica in deficit è stata il volano della crescita, dell’occupazione e dello stato sociale. Poi guardo le statistiche e rilevo, a fronte di alti debiti pubblici, il dato di milioni di disoccupati. Oppure sento interpretare la crisi finanziaria come dimostrazione del fallimento del capitalismo. Oppure leggo, persino sul giornale per il quale scrivo, che il mercato ha provocato l’indebitamento e la bolla speculativa. Nell’affermazione (incontrastata) di questo tipo di fallacie consiste quel che chiamo costruttivismo democratico. E mi chiedo quando usciremo da una cultura simile, politicamente obsoleta, rivelatasi falsa alla prova empirica, ispirata da concezioni filosofiche sconfitte dalla storia.
Concludo osservando che la democrazia liberale è quella che riesce a gestire il pluralismo dei valori e a conciliare valori che si presentano come inconciliabili. Questa è la lezione che traggo da un azionista capace di leggere i classici senza pregiudizi: Norberto Bobbio.
GIANFRANCO PASQUINO
– Questo fascicolo di Paradoxa è frutto di una grande idea, svolta in maniera efficace. Il che non toglie che vi siano dei problemi, e Ferrara ne metteva in evidenza alcuni. Ma mi pare utile sottolineare l’importanza di un’operazione culturale di questo genere, che stimola una riflessione critica su alcuni autori che collaborano con giornali ad alta diffusione e sono veri e propri opinion makers. Dibattiti di questo genere – conversazioni davvero democratiche – sono molto utili nel nostro Paese, in cui la sfera pubblica è occupata da politici che per lo più si scambiano insulti.
Proverò ad accomunare le prospettive dei diversi autori trattati, che pure sono molto diverse tra loro. Mi pare che da tutti emerga una concezione abbastanza schematica della democrazia, astratta e per di più elitista. Una concezione che, per altro, emerge soltanto per contrapposizione alla particolare situazione italiana. Mi dicono, però, che la democrazia esiste anche fuori, per esempio nei Paesi scandinavi, in Germania, o negli Stati Uniti. Qualcuno sostiene addirittura che in questi anni la democrazia si sia ampiamente estesa: in tutto il mondo gli oppositori dei regimi totalitari combattono in nome della democrazia, che si continua erroneamente a definire «occidentale». La signora birmana Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha certamente studiato a Oxford, ma sostiene una concezione della democrazia che è universale, in primo luogo perché non ne esiste un’altra. Dico questo con esplicito riferimento a quanto variamente sostenuto da Luciano Canfora.
È vero, ogni autore per parlare sale sulle spalle dei giganti che conosce meglio. Il problema è che per salire sulle spalle dei giganti ci vuole un trampolino. Bisogna aver letto molti libri, bisogna avere accumulato molta letteratura «democratica». Come i libri di Rawls, per esempio, che è il più grande filosofo politico liberale degli ultimi trenta anni.
Personalmente, il gigante cui faccio riferimento è Giovanni Sartori. Non credo che una discussione seria sulla democrazia possa prescindere dai due volumi di The Theory of Democracy Revisited (1987). Preferisco citare l’edizione inglese perché nelle varie sue opere in italiano sulla democrazia non si trova tutto quello che c’è in questi due volumi. Secondo Sartori abbiamo – e abbiamo il diritto di avere – una concezione ideale della democrazia, che ha origine con i Greci e che cresce e matura via via nel tempo: una concezione che, pur essendo per definizione irraggiungibile, si confronta necessariamente con le democrazie reali, oggetto di analisi empirica, orientando la nostra valutazione di queste. È da questa tensione tra ideale e reale che nascono organizzazioni, movimenti, critiche a quello che di volta in volta è il sistema democratico esistente. Muovendo dall’ideale possiamo riscontrare due tipi di deficit nel reale: un cattivo funzionamento della democrazia, oppure un cattivo funzionamento dei pensatori della democrazia, i quali si avventurano su versanti scoscesi che non controllano del tutto, e che impartiscono prediche retoriche su quel che dovrebbe essere, senza troppo curarsi di quel che effettivamente è. Si parla di crisi della democrazia, si lamenta una mancanza di rappresentanza: spesso però queste analisi si costringono nella visuale limitata della realtà italiana. Si potrebbe rilevare con altrettanta sicurezza una crisi del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento di Westminster o di quelli scandinavi?
Il punto è che questi autori ‘di sinistra’, senza tener troppo conto di altre realtà e della prospettiva di altri autori, muovono da una loro definizione ideale di democrazia per poi arrivare – apponendo il loro «come volevasi dimostrare» – a sostenere il malfunzionamento della democrazia nel nostro Paese, attribuito per lo più al berlusconismo. A questo proposito, mi sembra importante prima di tutto richiamare alla memoria quanto si diceva della situazione precedente la discesa in campo di Berlusconi. Non mi pare che, nemmeno allora, si decantassero le virtù o la tenuta del sistema democratico italiano. In secondo luogo, osservo che da questa concezione elitista derivano due conseguenze inopportune: la prima è una visione ‘indecisionista’, secondo la quale, poiché questo governo (di destra) persegue una politica criticabile, meglio sarebbe che non agisse e non prendesse alcuna decisione. Ma questo è un vero e proprio vulnus alla democrazia, il cui obiettivo è proprio quello di consentire che siano prese decisioni, eventualmente sbagliate e comunque sempre passibili di revisione. La seconda conseguenza indesiderata consiste in un’implicita critica mossa ai cittadini, costantemente accusati di non rendersi conto di quanto sta accadendo, e quindi ritenuti bisognosi di un’operazione educativa che spieghi loro come stanno effettivamente le cose. Mi permetto di estremizzare e distorcere una tesi condivisibile, ma che a mio avviso va posta in altri termini: il sistema democratico in quanto tale (in Italia, dunque, ma non solo) è un sistema esigente, come mi è capitato di scrivere in un volumetto di alcuni anni fa (La democrazia esigente); un sistema che, per poter funzionare correttamente, esige cittadini interessati, informati, disponibili e disposti ad una partecipazione attiva.
DINO COFRANCESCO
– Innanzitutto desidero ringraziare la rivista, i colleghi che hanno collaborato al numero e i presenti che hanno accettato di discuterne. Dico subito che francamente non mi riconosco molto negli appunti mossi da Alessandro Ferrara. Certo, le lacune nel fascicolo ci sono e sono molte: tuttavia l’intento non era quello di offrire un panorama esaustivo delle teorie in circolazione sulla democrazia, quanto piuttosto quello di discutere la concezione che emerge in un certo ambiente intellettuale, costituito dagli studiosi che gravitano attorno alla “Repubblica”, all’“Espresso” e anche al “Corriere della Sera” (sebbene in quest’ultimo vi siano posizioni più variegate). Si tratta di una vera e propria scuola di pensiero, che ha soppiantato il vecchio materialismo storico, del quale ho cominciato a provare nostalgia. I marxisti di una volta erano capaci di una presa davvero realistica sulla società e sulle classi sociali. A tal punto realistica, che Palmiro Togliatti si rese conto dell’opportunità di prendere sul serio quella sorta di ‘clown’ di Guglielmo Giannini, pronunciando il celebre Discorso di un uomo serio ad un uomo faceto.
Ora, per individuare lo specifico di questa nuova scuola di pensiero è necessario essere molto chiari, e il passaggio per Rawls o Ackerman rischia di essere fuorviante: innanzitutto perché si tratta di intellettuali appartenenti ad una cultura di tipo anglosassone, di cui si rischia di fare un uso per lo più strumentale o polemico. Quel che caratterizza questa scuola non è il semplice fatto di collocarsi ‘a sinistra’. Come mi è capitato di argomentare in un altro fascicolo di Paradoxa (Sinistra e destra. Allo specchio, 3/2008), sinistra e destra non sono altro che sistole e diastole del dibattito parlamentare, e possono prendere qualsiasi nome: democratici e repubblicani, socialdemocratici e conservatori, etc. È impensabile una competizione politica in assenza di programmi di governo alternativi e di riferimento a valori diversi. La distinzione tra destra e sinistra è un fatto fisiologico che rientra nel Dna di una democrazia liberale.
La particolarità italiana consiste nel fatto che mentre in altri contesti politici e sociali questa competizione ha luogo tra strategie diverse per arrivare a risultati condivisi, da noi essa assume i tratti di una lotta del bene contro il male. La lotta tra chi sta nell’alveo della storia e chi rischia la nullificazione ontologica. Prendo come esempio la cosiddetta ricetta liberista, che ha caratterizzato la politica economica del più grande presidente americano, Ronald Reagan, all’inizio degli anni Ottanta. Come è stata recepita dall’opinione pubblica in un Paese di tipo anglosassone? Come un modo – giusto o sbagliato – per arrivare ai risultati che stanno a cuore a tutti (benessere, lavoro, sicurezza, cultura). Non così in Italia. La battaglia per la nazionalizzazione dell’energia elettrica fu vissuta come una grande offensiva delle forze del progresso contro i reazionari. Una cultura politica secolarizzata vi avrebbe visto semplicemente la normale dialettica tra posizioni diverse per risanare il sistema economico e razionalizzare le relazioni industriali. Quando ci fu il primo governo che interrompeva la serie di governi di centro-sinistra, guidato da Malagodi, fu vissuto come la fine di tutte le speranze per un progresso del Paese. In realtà fu poi un buon governo.
A mio avviso, questa visione della politica deriva da quello che ho definito il ‘gramsciazionismo’, cioè una mistura di ideologia azionista che si innesta sul vecchio materialismo storico, in cui è sopravvissuto solo il mito illuminista secondo la storia è la lotta della luce contro le tenebre. Essendosi però dissolta la complessa sostanza del materialismo storico, non è rimasto che il moralismo azionista.
ALESSANDRO FERRARA
– Non è che nell’impostazione proposta da Cofrancesco io abbia rilevato l’assenza di un elemento di dettaglio. Quel che manca è un intero continente: l’idea costituzionalista della democrazia, la quale non è che valga solo per quel mondo anglosassone dove si leggono Rawls e Ackerman. Vale a dire è assente dal fascicolo l’idea secondo cui la dialettica delle posizioni politiche avviene in un quadro di regole e diritti che non sono a disposizione della maggioranza. Affermare che un diritto poggia sulla volontà della maggioranza, significa affermare un controsenso: quando la maggioranza cambia, quel diritto svanisce. Ricordo che è stato un liberale come Tocqueville a mettere in guardia dalla «tirannia della maggioranza». A tal proposito aggiungo una citazione di John Locke, dal Secondo trattato del governo civile. Nel paragrafo 222 parla del diritto di resistenza del popolo, che può essere fatto valere «contro l’alterazione del legislativo», ossia quando il potere legislativo viene assoggettato da quello esecutivo. Questo significa, per esempio, che il governo non può fare uso di promesse e incentivi per corromperne i rappresentanti, nè per fare eleggere deputati che si sa già in anticipo come voteranno su certe questioni in parlamento. Un’ultima battuta, rivolta in particolare a Polito, sull’analisi della situazione concreta in cui ci troviamo e sulla condivisa esecrazione di un certo moralismo: i dati della media delle ultime dichiarazioni dei redditi dicono chiaramente che vi sono categorie di professionisti (gioiellieri, ristoratori, macellai ed altri esercenti) i cui redditi medi lordi ammontano a 1100 euro al mese, mentre gli stipendi dei docenti universitari sono il doppio di quelli dell’avvocato o dell’architetto medio. Mi pare che questa sia una situazione da codice penale che dovrebbe attirare una conventio ad excludendum bipartisan e che invece entra nel mercato della politica, nel momento in cui una delle parti in competizione condanna, diciamo così, con minor vigore questa inciviltà. Come bisogna rapportarsi a questo dato di fatto? E’ forse moralismo il condannarlo?
CORRADO OCONE
– Quanto dice Ferrara è senz’altro vero, e tuttavia continuo a ritenere che la differenza non corra tra puri e impuri. Esiste un malessere della democrazia che investe tutti. C’è un’incoerenza profonda tra idee dichiarate e comportamenti effettivi che caratterizza anche gli ambienti cosiddetti ‘radical-chic’. Una citazione dell’Enciclopedia delle Scienze filosofiche del ‘divino’ Hegel – come lo definiva Togliatti – si adatta al meccanismo di pensiero che è proprio dell’atteggiamento mentale che stiamo criticando: «la separazione della realtà dall’idea è specialmente cara all’intelletto astratto, che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace, ed è tutto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo della politica va predicando assai volentieri, quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come deve essere ma non è, che se poi fosse come deve essere, dove andrebbe la saccenteria di quel dover essere?».
È semplicistico ritenere che gli evasori fiscali si annidino soltanto tra le file degli elettori di Berlusconi, quando in realtà è un intero Paese ad essere votato al «culto del particulare». Su questo punto la sinistra è vittima di un’ipocrisia estrema, resa evidente anche dal modo in cui si sono svolte finora le primarie nel Pd. Si è trattato di vere elezioni interne al Partito? Si possono considerare un efficace meccanismo di selezione dei candidati? E, se è così, perché è stato scelto Rutelli come candidato sindaco di Roma nel 2008?
Questa divaricazione tra comportamenti dichiarati e comportamenti effettivi, questa contrapposizione tra bene e male, è frutto di un inquinamento del dibattito pubblico (di cui è senz’altro responsabile anche Berlusconi), che getta il Paese in preda alla retorica. Per comprendere gli avvenimenti è dunque necessario distanziarsi da questo schematismo e tornare allo studio dei classici: Hegel, la Storia del liberalismo europeo di Guido de Ruggiero, Marx, Croce ecc. Confrontarsi direttamente con i grandi teorici – e non con gli epigoni del rawlsismo – consente di abituarsi ad un pensiero più complesso. Un pensiero che non può non sfociare nel dubbio, come accadeva per Bobbio che era molto lontano dalle certezze esibite dagli autori trattati nel fascicolo di Paradoxa (come ben mette in evidenza il contributo di Cofrancesco su Zagrebelski).
ANTONIO POLITO
– Rispondo a Ferrara in merito all’evasione fiscale: sulla condanna penale, e sulla censura civile, non si discute. Sarebbe opportuno che i governi facessero rispettare la legge: con tutti i mezzi coercitivi a loro disposizione. Non è questo il punto in discussione. Quel che non trovo corretto è costruire su questo problema una vera e propria antropologia politica, che pretenda di far coincidere necessariamente il profilo dell’evasore con quello dell’elettore di Berlusconi. Sarà anche vero a livello statistico, ma non si possono chiudere gli occhi di fronte al fatto che il fenomeno dell’evasione è estremamente diffuso nel Paese, ed è sopravvissuto a Visco e a rigorosi governi di sinistra. Per di più, applicando lo stesso rigido schematismo, si potrebbe elaborare un’antropologia dell’elettore di sinistra, per lo più rintracciabile tra studenti universitari, pensionati, disoccupati e statali: categorie non propriamente animate dal ‘fuoco sacro’ della produttività. Ma non voglio cedere a questo modo di impostare il discorso, che procede per schematismi facili e alimenta contrapposizioni false e soprattutto pericolose: questi due schieramenti antropologici non possono confrontarsi se non tentando ciascuno di modificare l’altro a propria immagine e somiglianza, provocando dunque la situazione di stallo in cui di fatto ci troviamo. Sono d’accordo invece con l’osservazione di Ferrara sulla «tirannia della maggioranza», e con l’opportunità di sottolineare l’esigenza che l’esecutivo eserciti i suoi poteri nei limiti e nelle forme previste dalla Costituzione, come recentemente ribadito anche dal Presidente Napolitano.
Sarebbe interessante sviluppare le considerazioni di Cofrancesco relative al rapporto dell’attuale sinistra con un materialismo storico ridotto a macerie. Mi pare infatti che negli ultimi due decenni sia avvenuto un passaggio decisivo da una prospettiva orientata al futuro, guidata dalla visione teleologica della storia propria appunto del materialismo storico, ad un ripiegamento nostalgico sul passato, così che paradossalmente la sinistra si è fatta portavoce di istanze conservatrici: in nome della tutela ambientale ostacola la modernizzazione economica del Paese, si preoccupa dell’esaurimento delle fonti energetiche, ma è contraria al nucleare. E questo vale anche per l’economia e la politica, giudicate alla luce del «come si stava bene prima».
Concordo infine con Pasquino, sia per quanto riguarda l’idea di democrazia come «sistema esigente», sia relativamente all’opportunità di uno sguardo comparato: tuttavia mi pare che dalla crisi non siano affatto immuni i Parlamenti di Stati Uniti, Gran Bretagna o Francia.
PIERO OSTELLINO
– Uno dei motivi di malessere della democrazia in Italia è costituto dall’esistenza di una Costituzione ispirata da un pensiero costruttivista. Ad esempio, essa prevede il «diritto al lavoro», vale a dire una società senza disoccupati. Si tratta di una condizione impossibile da realizzare in una società capitalista. Lo aveva già sottolineato Stalin ad un costituente liberale come Manlio Brosio, ambasciatore a Mosca dal 1947. Brosio presentò a Stalin la Costituzione italiana, sottolineando in particolare l’articolo sul «diritto al lavoro», con il fine di stabilire un rapporto privilegiato tra l’Italia e l’Urss. Nella circostanza, Stalin evidenziò che si trattava di una previsione irrealizzabile, perché l’Italia aveva scelto il capitalismo e in un sistema di questo tipo il lavoro è una merce, soggetta alle regole della domanda e dell’offerta.
Prevedere nella Costituzione un diritto impossibile da garantire genera per forza di cose un risentimento contro la democrazia liberale. Ovviamente il sistema può poi prevedere meccanismi di welfare per compensare gli squilibri dell’economia capitalistica, come ha fatto un liberale quale Beveridge. Non occorre arrivare a definizioni quali «l’economia sociale di mercato», rubando dal linguaggio dei sovietici. Nel 1968 ebbi modo di dibatterne con Wilhelm Röpke, il massimo teorico tedesco di questo orientamento. Quando negli stessi anni chiesi all’ex cancelliere tedesco Ludwig Erhard cosa intendesse con l’espressione «economia sociale di mercato», mi rispose che si trattava di un sistema di mercato, dove si prevedevano però dei meccanismi di protezione nei confronti delle disfunzioni da esso generate.
Ad essere in crisi non è dunque la democrazia liberale perché non in grado di rispondere alla Costituzione nel contrastare la disoccupazione, ma la stessa Costituzione e la sua ispirazione costruttivista, frutto di un compromesso tra il solidarismo cattolico sponsorizzato da Dossetti, il corporativismo di Fanfani, e il paramarxismo del secondo dopoguerra.
Per tornare alla distanza tra alcuni propositi enunciati dai cosiddetti liberali di sinistra e poi la reale pratica quotidiana, è opportuno sottolineare l’assenza su giornali come “Repubblica” di articoli relativi all’approvazione da parte dell’attuale governo (anch’esso presunto liberale) di leggi liberticide quali l’esecutorietà della sanzione amministrativa, la retrodatazione delle leggi, l’inversione dell’onere della prova. Ne ho scritto solo io sul Corriere della Sera. Il che dimostra l’assenza di una vera cultura liberale tra gli intellettuali di sinistra.
GIANFRANCO PASQUINO
– Le considerazioni svolte da Ostellino sulla Costituzione italiana sono troppo schematiche. Essa non è solo il frutto di un compromesso tra cultura cattolica e marxista, ma del contributo di più orientamenti, come quelli, sicuramente importanti, azionista e socialista. Il dibattito da cui è nata la Costituzione è stato molto articolato. Ad esempio, Piero Calamandrei aveva contestato il riferimento al «diritto al lavoro», proprio perché non riteneva opportune norme programmatiche. Ma alla fine cedette per procedere oltre. Tutte le costituzioni sono il frutto di un compromesso, tra diversi orientamenti politici, tra pubblico e privato, tra Stato e mercato.
Quanto al rapporto tra democrazia e maggioranza di governo, Bobbio diceva che la democrazia non consiste nel decidere sempre e comunque a maggioranza assoluta, perché le decisioni democratiche possono essere prese anche a maggioranza relativa e, talvolta, a maggioranza qualificata. Il requisito fondamentale è che i procedimenti avvengano in un quadro di autonomia relativa dei diversi poteri. A conclusione del procedimento elettorali, gli inglesi usano l’espressione «winner takes all», ma questo non significa affatto che la maggioranza abbia il diritto di fare tutto ciò che vuole. Semplicemente, ha conquistato il potere politico di governare.
Occorre, infine, contestualizzare le tesi di Locke e Hobbes, altrimenti se ne ricava un’idea distorta. Si tratta infatti di pensatori che elaborarono la loro concezione con riferimento alle situazioni contingenti: la guerra civile nel caso di Hobbes, una monarchia assoluta nel caso di Locke. Non a caso, l’autore preferito di Bobbio, cioè di uno studioso liberaldemocratico, era proprio Hobbes, per la sua limpida lucidità di analisi in quel contesto specifico.
Anche gli autori analizzati dal fascicolo di Paradoxa sono spesso schematici, qualche volta settari. Nessuno di loro è azionista, anche se in molti, penso a Bovero, prevale una rigidità e un moralismo tipicamente torinese. L’analisi del malessere della democrazia dovrebbe invece essere molto più complessa. Ad esempio, Bobbio si confrontava spesso con le promesse non mantenute della democrazia, concludendo che, forse, si trattava di promesse che la democrazia non poteva mantenere. L’ultima cosa da fare è caricare il regime democratico della nostra richiesta di felicità. La democrazia offre buon governo ai cittadini, i quali, poi, cercheranno quello che considerano felicità.
Non posso non rispondere a Cofrancesco che individua in Reagan il più grande presidente americano. Non sono d’accordo. Voglio ricordare Franklin D. Roosevelt, ma soprattutto Lyndon Johnson, l’artefice della Great Society. Concludo dicendo che tra le cause profonde del malessere della democrazia vi è una insufficienza di cultura politica, determinata dal fatto che non si stanno più insegnando i principi democratici e il senso civico.
DINO COFRANCESCO
– Raramente una citazione è stata così sistematicamente fraintesa come quella di Tocqueville sulla tirannia della maggioranza. Quel che Tocqueville paventa è la possibilità che una maggioranza – che potremmo definire ‘di sinistra’, cioè giacobina – attenti a diritti intoccabili, come per esempio quello di proprietà. Tocqueville pronunciò un bellissimo discorso sul diritto al lavoro nel 1848 – che mi piacerebbe molto fosse citato da Zagrebelsky citasse – nel quale è ben spiegato che la tirannia della maggioranza si manifesta quando si impongono certi diritti sociali, che sono proprio quelli che molti giuristi vorrebbero costituzionalizzare. È grave fraintendere Tocqueville su questo punto perché quando difende i giudici, intende i giudici conservatori, che hanno il compito di assicurare la certezza del diritto. Per Tocqueville il diritto è un palazzo chiuso alle istanze sociali, dunque alla ribellione. Le istanze sociali appartengono ad un altro ambito, in cui la volontà del popolo è onnipotente. Perfino Rosmini aveva frainteso questo punto, scrivendo che anche un grande pensatore liberale come Tocqueville parlava del pericolo di onnipotenza della maggioranza.
Quando faccio riferimento all’azionismo nella cultura politica italiana, mi riferisco all’eticizzazione della politica che esso ha determinato. Quello azionista è uno stile di pensiero che risale al Risorgimento, a Giuseppe Mazzini. Il nocciolo duro del pensiero mazziniano consiste nella convinzione che una democrazia possa esistere soltanto se i cuori sono limpidi, se c’è dedizione al bene comune e gli interessi privati sono accantonati. Ma si tratta di un pensiero presecolarizzato, che tuttavia ancora pervade il dibattito italiano. Non siamo ancora entrati nell’era della secolarizzazione della politica, in base alla quale ognuno di noi ha interessi e valori legittimi da difendere e ognuno ha diritto di essere riconosciuto per quello che è, in quanto cittadino attivo.
VITTORIO EMANUELE PARSI
– Nel ringraziare tutti, relatori e pubblico, mi permetto una battuta conclusiva, per proporre all’attenzione i due problemi capitali che provocano, dal mio punto di vista, lo stato di malessere in cui indubbiamente oggi versa la democrazia: uno squilibrio di forze gigantesco tra democrazia e mercato, con il conseguente, radicale svuotamento dei diritti politici che, a mio avviso, è assai più grave e radicale dello svuotamento dei diritti sociali, di cui per lo più si parla; la tendenza ad estendere enormemente l’ambito in cui pretendiamo di legiferare, nonostante la consapevolezza sempre più acuta dei limiti procedurali.

Partecipanti: Dino Cofrancesco, Alessandro Ferrara, Corrado Ocone, Piero Ostellino, Vittorio Emanuele Parsi, Gianfranco Pasquino, Antonio Polito

I commenti sono chiusi.