7 ottobre 2011, Roma
Camera dei Deputati, Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, Via del Seminario 76
A partire da Paradoxa 2/2011 “Quelli che…la democrazia”
Il numero di Paradoxa sulla democrazia propone uno spartiacque inedito, che rimodella quelli tradizionali (destra/sinistra, democrazia formale/d. sostanziale, etc.): da una parte vi è chi pone, con forza, il problema di uno stato di malessere del sistema democratico, arrivando, al limite, alla denuncia di un’emergenza democratica in Italia; dall’altra c’è chi colloca questo malessere non tanto a livello della democrazia reale, quanto a livello di teorie che paradossalmente – nel tentativo di difendere o celebrare la democrazia come valore – tradiscono tratti profondamente antidemocratici. Si impongono alcune domande: la democrazia è un valore o uno strumento? Quali e quanti diritti (sociali, politici, etc.) sono costituzionalizzabili? E quali e quanti sono compatibili fra loro? Le forme di governo sovranazionali sono ‘diversamente’ democratiche? Come pensare lo spazio (democratico) per un conflitto tra visioni alternative di democrazia?
Interventi:
Nel leggere le critiche che mi vengono mosse da Dino Cofrancesco, mi sembra di trovarmi nella posizione di un ‘nano’, che riceve bordate da parte di chi non si è accorto del fatto che sotto il nano c’è il gigante. E il gigante è niente di meno che John Rawls, con la sua difesa della democrazia costituzionale: una difesa pienamente liberale, come attesta il suo Il liberalismo politico del 1993. Il fascicolo di Paradoxa abbonda di riferimenti a Hobbes, Rousseau, Constant, Schumpeter. Poi c’è l’abisso. Sembra che dopo costoro non vi siano più stati pensatori politici degni di essere menzionati o discussi. E invece con John Rawls nasce un’idea di legittimità che merita di essere presa in considerazione (e che, per altro, costituisce il cuore della mia personale posizione).
Mi si rimprovera di aver negato (paternalisticamente) che il popolo esprima il suo consenso nelle questioni ordinarie, mentre gliene avrei lasciato lo spazio soltanto in materia di diritti fondamentali e altre previsioni di rango costituzionale. Ora, «esprimere il consenso» è espressione molto ambigua. La Legge Gelmini sull’Università, per esempio, non incontra certo il mio consenso (anzi, posso spingermi a definirla scriteriata): il che non toglie che si tratti di un provvedimento del tutto legittimo, in quanto in accordo con quanto previsto dalla Costituzione. Alla p. 126 di Liberalismo politico, Rawls riassume un dibattito politico che comincia almeno da quando Trasimaco, nella Repubblica, oppone a Socrate la definizione di giustizia come «utile del più forte». La distinzione tra potere legittimo e forza arbitraria è articolata da Rawls in questo modo: «noi esercitiamo il potere politico in modo pienamente corretto solo quando lo esercitiamo in armonia con una Costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini, in quanto liberi ed eguali, ne accolgano, alla luce di principi e ideali accettabili per la loro comune ragione umana, gli elementi essenziali». Il potere politico è perciò legittimo quando è in armonia con la Costituzione (e con i suoi principi generali), sottoscritta da tutti i cittadini liberi e uguali: non quando è in armonia con la maggioranza uscita dalle elezioni, con la maggioranza dell’opinione pubblica registrata dai sondaggi o con un qualche testo sacro.
Questa concezione di Rawls, che è alla base del costituzionalismo e che recepisce il «dualismo democratico» di Bruce Ackerman, è frutto di un preciso contesto storico. La democrazia è un sistema immerso in un sistema sociale più ampio, il quale, tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, è diventato sempre più inospitale per gli istituti democratici, per un insieme di ragioni: l’allargamento della base elettorale, il pluralismo culturale, la complessità delle questioni istituzionali, la trasformazione dei media, l’influenza del denaro sulla politica, e così via. A queste mutate condizioni la politica è chiamata a dare una risposta ed è irrealistico pensare che il consenso dei governati debba riguardare tutti i dettagli dell’azione legislativa, esecutiva e giudiziaria: non potrà che essere relativo ad uno strato alto che coincide con la legislazione di rango costituzionale (ci sarà sempre un provvedimento legislativo ordinario, un decreto del governo, o una sentenza dei giudici che vengono vissuti come ingiusti). Tutto il resto si legittima in quanto “non incostituzionale”. Di questa dottrina liberaldemocratica assolutamente standard, nella quale siamo immersi, nel fascicolo non vi è traccia.
Un’altra considerazione critica riguarda l’idea di libertà sul cui sfondo si collocano gli autori del numero. A me pare che si tratti di una concezione, affermatasi soprattutto negli ultimi trenta anni (da Reagan in poi), che si appropria della bandiera del liberalismo, ma che in realtà con il liberalismo ha ben poco a che fare. Semplificando: è la libertà del «signor Nessuno» di poter decidere ciò che più gli aggrada con minor costrizione possibile da parte della legge. La legge, insomma, sarebbe il limite della libertà, che comincia, appunto, dove la legge tace. A ben guardare, però, questa è l’idea enunciata da Hobbes – il quale è tutto fuorché un liberale – nel XXI capitolo del Leviatano: «la libertà dell’uomo consiste in ciò: che egli non trova ostacolo nel fare quello che egli ha volontà o desiderio di fare». E ancora: «La libertà è in quelle cose che il sovrano ha omesso nel regolare le azioni dei sudditi» (cioè libertà di comprare e vendere, di stipulare un qualunque tipo di contratto, di educare i figli secondo le proprie inclinazioni, etc.). Ne risulta che per Hobbes la libertà vive in quegli interstizi che si creano tra ciò che la legge prescrive e ciò che vieta, con il corollario che quanto minore è lo spazio della legge, tanto maggiore è quello della libertà. Una generazione più tardi, Locke replica a Hobbes che «la libertà naturale dell’uomo consiste nell’esser libero da ogni superiore potere sulla terra; la libertà dell’uomo in società consiste nel non essere soggetto a nessun altro potere legislativo che non sia quello stabilito per comune consenso dello Stato». Tradotto: la legge non toglie la libertà, ma la procura.
Concludo osservando che mi pare di poter dire che l’intento dichiarato dal curatore del fascicolo – quello cioè di non muovere critiche basate su pregiudizi, rispettando la distinzione weberiana tra l’uomo di scienza e l’uomo di azione – sia stato pienamente realizzato.
Detto questo, non ci si può nascondere il fatto che un malessere della democrazia esista e che sia un fenomeno comune a tutto l’Occidente; un malessere che mette in crisi la forma più evoluta di democrazia che abbiamo affinato attraverso i secoli: quella parlamentare. Vi è oggi un’evidente esportazione dei poteri democratici verso l’alto, cioè verso la dimensione extra-nazionale, che si estrinseca in forme diverse: la crisi finanziaria, che travalica i confini dello Stato nazione e coinvolge soggetti che sono al di fuori del controllo democratico esercitato dai cittadini con il voto (la lettera della Bce al governo italiano è uno dei documenti storici di questo fenomeno); o anche il diffondersi di poteri non democratici, anche se non necessariamente anti-democratici. Non democratici sono gli apparati degli ex-partiti, che esercitano tuttora un forte potere nella gestione della cosa pubblica. Non democratico è il potere dei media, che non sono responsabili se non di fronte al mercato. Non democratico è il potere della rete (o, come preferisco dire, della «conversazione pubblica»), che è generalmente considerato in modo positivo, ma che si presenta, a mio avviso, come fortemente corrosivo del dibattito pubblico informato contribuendo non poco al diffondersi di populismi di ogni genere. In Italia, poi, abbiamo una difficoltà in più: abbiamo operato in modo da rendere di fatto impossibile il ricambio della classe dirigente; il risultato è che abbiamo, di nuovo, una democrazia bloccata, con la differenza che ora discriminante è il berlusconismo, laddove prima il blocco era costituito dall’impossibile alternanza tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista.
Sulla base di queste premesse, vorrei proporre quattro riserve nei confronti del messaggio che accomuna gli autori discussi criticamente da Paradoxa.
Primo: incitamento dell’opinione pubblica ad un ampliamento a dismisura della sfera dei diritti che debbono essere garantiti dalla cosa pubblica. Per esempio il diritto al lavoro. Se la tutela di tali e tanti <nuovi diritti> viene chiesta al sistema politico, ne consegue inevitabilmente una abnorme allargamento dei poteri dello Stato, che del resto è all’origine della crisi finanziaria innescata dai debiti sovrani. Si tratta, per altro, di un’idea <totalitaria>, per così dire, della democrazia, perché le si chiede di occuparsi della totalità della vita dei cittadini, il che mette notevolmente a rischio il carattere liberale della democrazia.
Secondo: costante riproposizione della retorica delle due Italie: di un Paese spaccato tra feccia morale ed élite virtuosa. L’innalzamento del livello d’odio sociale che ne è scaturito è impressionante, e soprattutto è all’origine di una preoccupante incapacità di coesione nazionale in momenti di emergenza: ne è prova la forte reazione corporativa che ha innescato il tentativo del governo di far fronte alla crisi imponendo sacrifici e nuovi carichi fiscali.
Terzo: uso politico della Costituzione, che, curiosamente, è un cavallo di battaglia della destra americana. In Italia è appannaggio del pensiero di sinistra, con delle clamorose omissioni. Si cita soltanto metà dell’art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»; e si omette il seguito: «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Si espunge completamente dal dibattito pubblico sulle intercettazioni l’art. 15: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Questo è un uso selettivo, politico e molto pericoloso, che impedisce di sentire la Costituzione come una base comune.
Quarto: tendenza alla riduzione dell’autonomia della sfera politica, in favore di morale e religione. Mi limito alla morale: si pretende di risolvere il problema dell’incapacità del sistema politico nel gestire il ricambio della classe dirigente, appellandosi ad un potere non democratico che dovrebbe esercitare una sorta di controllo di qualità morale della classe politica così selezionata: la magistratura.
Sono personalmente convinto (anche in base alla mia esperienza in Russia e in Cina) che la forza del liberalismo consista proprio nel tenersi saldamente sul livello empirico, contro ogni forma di costruttivismo. Se mi chiedo se piova, non ho altra possibilità di verifica che quella di guardare fuori dalla finestra; e lo stesso deve valere per il controllo dell’operato dei governi. Il problema è che mentre all’Est il costruttivismo totalitario è morto con il crollo del comunismo, ad Ovest sopravvive e imperversa un costruttivismo democratico. Sento dire, per esempio, nei cosiddetti talk show che la spesa pubblica in deficit è stata il volano della crescita, dell’occupazione e dello stato sociale. Poi guardo le statistiche e rilevo, a fronte di alti debiti pubblici, il dato di milioni di disoccupati. Oppure sento interpretare la crisi finanziaria come dimostrazione del fallimento del capitalismo. Oppure leggo, persino sul giornale per il quale scrivo, che il mercato ha provocato l’indebitamento e la bolla speculativa. Nell’affermazione (incontrastata) di questo tipo di fallacie consiste quel che chiamo costruttivismo democratico. E mi chiedo quando usciremo da una cultura simile, politicamente obsoleta, rivelatasi falsa alla prova empirica, ispirata da concezioni filosofiche sconfitte dalla storia.
Concludo osservando che la democrazia liberale è quella che riesce a gestire il pluralismo dei valori e a conciliare valori che si presentano come inconciliabili. Questa è la lezione che traggo da un azionista capace di leggere i classici senza pregiudizi: Norberto Bobbio.
Proverò ad accomunare le prospettive dei diversi autori trattati, che pure sono molto diverse tra loro. Mi pare che da tutti emerga una concezione abbastanza schematica della democrazia, astratta e per di più elitista. Una concezione che, per altro, emerge soltanto per contrapposizione alla particolare situazione italiana. Mi dicono, però, che la democrazia esiste anche fuori, per esempio nei Paesi scandinavi, in Germania, o negli Stati Uniti. Qualcuno sostiene addirittura che in questi anni la democrazia si sia ampiamente estesa: in tutto il mondo gli oppositori dei regimi totalitari combattono in nome della democrazia, che si continua erroneamente a definire «occidentale». La signora birmana Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha certamente studiato a Oxford, ma sostiene una concezione della democrazia che è universale, in primo luogo perché non ne esiste un’altra. Dico questo con esplicito riferimento a quanto variamente sostenuto da Luciano Canfora.
È vero, ogni autore per parlare sale sulle spalle dei giganti che conosce meglio. Il problema è che per salire sulle spalle dei giganti ci vuole un trampolino. Bisogna aver letto molti libri, bisogna avere accumulato molta letteratura «democratica». Come i libri di Rawls, per esempio, che è il più grande filosofo politico liberale degli ultimi trenta anni.
Personalmente, il gigante cui faccio riferimento è Giovanni Sartori. Non credo che una discussione seria sulla democrazia possa prescindere dai due volumi di The Theory of Democracy Revisited (1987). Preferisco citare l’edizione inglese perché nelle varie sue opere in italiano sulla democrazia non si trova tutto quello che c’è in questi due volumi. Secondo Sartori abbiamo – e abbiamo il diritto di avere – una concezione ideale della democrazia, che ha origine con i Greci e che cresce e matura via via nel tempo: una concezione che, pur essendo per definizione irraggiungibile, si confronta necessariamente con le democrazie reali, oggetto di analisi empirica, orientando la nostra valutazione di queste. È da questa tensione tra ideale e reale che nascono organizzazioni, movimenti, critiche a quello che di volta in volta è il sistema democratico esistente. Muovendo dall’ideale possiamo riscontrare due tipi di deficit nel reale: un cattivo funzionamento della democrazia, oppure un cattivo funzionamento dei pensatori della democrazia, i quali si avventurano su versanti scoscesi che non controllano del tutto, e che impartiscono prediche retoriche su quel che dovrebbe essere, senza troppo curarsi di quel che effettivamente è. Si parla di crisi della democrazia, si lamenta una mancanza di rappresentanza: spesso però queste analisi si costringono nella visuale limitata della realtà italiana. Si potrebbe rilevare con altrettanta sicurezza una crisi del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento di Westminster o di quelli scandinavi?
Il punto è che questi autori ‘di sinistra’, senza tener troppo conto di altre realtà e della prospettiva di altri autori, muovono da una loro definizione ideale di democrazia per poi arrivare – apponendo il loro «come volevasi dimostrare» – a sostenere il malfunzionamento della democrazia nel nostro Paese, attribuito per lo più al berlusconismo. A questo proposito, mi sembra importante prima di tutto richiamare alla memoria quanto si diceva della situazione precedente la discesa in campo di Berlusconi. Non mi pare che, nemmeno allora, si decantassero le virtù o la tenuta del sistema democratico italiano. In secondo luogo, osservo che da questa concezione elitista derivano due conseguenze inopportune: la prima è una visione ‘indecisionista’, secondo la quale, poiché questo governo (di destra) persegue una politica criticabile, meglio sarebbe che non agisse e non prendesse alcuna decisione. Ma questo è un vero e proprio vulnus alla democrazia, il cui obiettivo è proprio quello di consentire che siano prese decisioni, eventualmente sbagliate e comunque sempre passibili di revisione. La seconda conseguenza indesiderata consiste in un’implicita critica mossa ai cittadini, costantemente accusati di non rendersi conto di quanto sta accadendo, e quindi ritenuti bisognosi di un’operazione educativa che spieghi loro come stanno effettivamente le cose. Mi permetto di estremizzare e distorcere una tesi condivisibile, ma che a mio avviso va posta in altri termini: il sistema democratico in quanto tale (in Italia, dunque, ma non solo) è un sistema esigente, come mi è capitato di scrivere in un volumetto di alcuni anni fa (La democrazia esigente); un sistema che, per poter funzionare correttamente, esige cittadini interessati, informati, disponibili e disposti ad una partecipazione attiva.
Ora, per individuare lo specifico di questa nuova scuola di pensiero è necessario essere molto chiari, e il passaggio per Rawls o Ackerman rischia di essere fuorviante: innanzitutto perché si tratta di intellettuali appartenenti ad una cultura di tipo anglosassone, di cui si rischia di fare un uso per lo più strumentale o polemico. Quel che caratterizza questa scuola non è il semplice fatto di collocarsi ‘a sinistra’. Come mi è capitato di argomentare in un altro fascicolo di Paradoxa (Sinistra e destra. Allo specchio, 3/2008), sinistra e destra non sono altro che sistole e diastole del dibattito parlamentare, e possono prendere qualsiasi nome: democratici e repubblicani, socialdemocratici e conservatori, etc. È impensabile una competizione politica in assenza di programmi di governo alternativi e di riferimento a valori diversi. La distinzione tra destra e sinistra è un fatto fisiologico che rientra nel Dna di una democrazia liberale.
La particolarità italiana consiste nel fatto che mentre in altri contesti politici e sociali questa competizione ha luogo tra strategie diverse per arrivare a risultati condivisi, da noi essa assume i tratti di una lotta del bene contro il male. La lotta tra chi sta nell’alveo della storia e chi rischia la nullificazione ontologica. Prendo come esempio la cosiddetta ricetta liberista, che ha caratterizzato la politica economica del più grande presidente americano, Ronald Reagan, all’inizio degli anni Ottanta. Come è stata recepita dall’opinione pubblica in un Paese di tipo anglosassone? Come un modo – giusto o sbagliato – per arrivare ai risultati che stanno a cuore a tutti (benessere, lavoro, sicurezza, cultura). Non così in Italia. La battaglia per la nazionalizzazione dell’energia elettrica fu vissuta come una grande offensiva delle forze del progresso contro i reazionari. Una cultura politica secolarizzata vi avrebbe visto semplicemente la normale dialettica tra posizioni diverse per risanare il sistema economico e razionalizzare le relazioni industriali. Quando ci fu il primo governo che interrompeva la serie di governi di centro-sinistra, guidato da Malagodi, fu vissuto come la fine di tutte le speranze per un progresso del Paese. In realtà fu poi un buon governo.
A mio avviso, questa visione della politica deriva da quello che ho definito il ‘gramsciazionismo’, cioè una mistura di ideologia azionista che si innesta sul vecchio materialismo storico, in cui è sopravvissuto solo il mito illuminista secondo la storia è la lotta della luce contro le tenebre. Essendosi però dissolta la complessa sostanza del materialismo storico, non è rimasto che il moralismo azionista.
È semplicistico ritenere che gli evasori fiscali si annidino soltanto tra le file degli elettori di Berlusconi, quando in realtà è un intero Paese ad essere votato al «culto del particulare». Su questo punto la sinistra è vittima di un’ipocrisia estrema, resa evidente anche dal modo in cui si sono svolte finora le primarie nel Pd. Si è trattato di vere elezioni interne al Partito? Si possono considerare un efficace meccanismo di selezione dei candidati? E, se è così, perché è stato scelto Rutelli come candidato sindaco di Roma nel 2008?
Questa divaricazione tra comportamenti dichiarati e comportamenti effettivi, questa contrapposizione tra bene e male, è frutto di un inquinamento del dibattito pubblico (di cui è senz’altro responsabile anche Berlusconi), che getta il Paese in preda alla retorica. Per comprendere gli avvenimenti è dunque necessario distanziarsi da questo schematismo e tornare allo studio dei classici: Hegel, la Storia del liberalismo europeo di Guido de Ruggiero, Marx, Croce ecc. Confrontarsi direttamente con i grandi teorici – e non con gli epigoni del rawlsismo – consente di abituarsi ad un pensiero più complesso. Un pensiero che non può non sfociare nel dubbio, come accadeva per Bobbio che era molto lontano dalle certezze esibite dagli autori trattati nel fascicolo di Paradoxa (come ben mette in evidenza il contributo di Cofrancesco su Zagrebelski).
Sarebbe interessante sviluppare le considerazioni di Cofrancesco relative al rapporto dell’attuale sinistra con un materialismo storico ridotto a macerie. Mi pare infatti che negli ultimi due decenni sia avvenuto un passaggio decisivo da una prospettiva orientata al futuro, guidata dalla visione teleologica della storia propria appunto del materialismo storico, ad un ripiegamento nostalgico sul passato, così che paradossalmente la sinistra si è fatta portavoce di istanze conservatrici: in nome della tutela ambientale ostacola la modernizzazione economica del Paese, si preoccupa dell’esaurimento delle fonti energetiche, ma è contraria al nucleare. E questo vale anche per l’economia e la politica, giudicate alla luce del «come si stava bene prima».
Concordo infine con Pasquino, sia per quanto riguarda l’idea di democrazia come «sistema esigente», sia relativamente all’opportunità di uno sguardo comparato: tuttavia mi pare che dalla crisi non siano affatto immuni i Parlamenti di Stati Uniti, Gran Bretagna o Francia.
Prevedere nella Costituzione un diritto impossibile da garantire genera per forza di cose un risentimento contro la democrazia liberale. Ovviamente il sistema può poi prevedere meccanismi di welfare per compensare gli squilibri dell’economia capitalistica, come ha fatto un liberale quale Beveridge. Non occorre arrivare a definizioni quali «l’economia sociale di mercato», rubando dal linguaggio dei sovietici. Nel 1968 ebbi modo di dibatterne con Wilhelm Röpke, il massimo teorico tedesco di questo orientamento. Quando negli stessi anni chiesi all’ex cancelliere tedesco Ludwig Erhard cosa intendesse con l’espressione «economia sociale di mercato», mi rispose che si trattava di un sistema di mercato, dove si prevedevano però dei meccanismi di protezione nei confronti delle disfunzioni da esso generate.
Ad essere in crisi non è dunque la democrazia liberale perché non in grado di rispondere alla Costituzione nel contrastare la disoccupazione, ma la stessa Costituzione e la sua ispirazione costruttivista, frutto di un compromesso tra il solidarismo cattolico sponsorizzato da Dossetti, il corporativismo di Fanfani, e il paramarxismo del secondo dopoguerra.
Per tornare alla distanza tra alcuni propositi enunciati dai cosiddetti liberali di sinistra e poi la reale pratica quotidiana, è opportuno sottolineare l’assenza su giornali come “Repubblica” di articoli relativi all’approvazione da parte dell’attuale governo (anch’esso presunto liberale) di leggi liberticide quali l’esecutorietà della sanzione amministrativa, la retrodatazione delle leggi, l’inversione dell’onere della prova. Ne ho scritto solo io sul Corriere della Sera. Il che dimostra l’assenza di una vera cultura liberale tra gli intellettuali di sinistra.
Quanto al rapporto tra democrazia e maggioranza di governo, Bobbio diceva che la democrazia non consiste nel decidere sempre e comunque a maggioranza assoluta, perché le decisioni democratiche possono essere prese anche a maggioranza relativa e, talvolta, a maggioranza qualificata. Il requisito fondamentale è che i procedimenti avvengano in un quadro di autonomia relativa dei diversi poteri. A conclusione del procedimento elettorali, gli inglesi usano l’espressione «winner takes all», ma questo non significa affatto che la maggioranza abbia il diritto di fare tutto ciò che vuole. Semplicemente, ha conquistato il potere politico di governare.
Occorre, infine, contestualizzare le tesi di Locke e Hobbes, altrimenti se ne ricava un’idea distorta. Si tratta infatti di pensatori che elaborarono la loro concezione con riferimento alle situazioni contingenti: la guerra civile nel caso di Hobbes, una monarchia assoluta nel caso di Locke. Non a caso, l’autore preferito di Bobbio, cioè di uno studioso liberaldemocratico, era proprio Hobbes, per la sua limpida lucidità di analisi in quel contesto specifico.
Anche gli autori analizzati dal fascicolo di Paradoxa sono spesso schematici, qualche volta settari. Nessuno di loro è azionista, anche se in molti, penso a Bovero, prevale una rigidità e un moralismo tipicamente torinese. L’analisi del malessere della democrazia dovrebbe invece essere molto più complessa. Ad esempio, Bobbio si confrontava spesso con le promesse non mantenute della democrazia, concludendo che, forse, si trattava di promesse che la democrazia non poteva mantenere. L’ultima cosa da fare è caricare il regime democratico della nostra richiesta di felicità. La democrazia offre buon governo ai cittadini, i quali, poi, cercheranno quello che considerano felicità.
Non posso non rispondere a Cofrancesco che individua in Reagan il più grande presidente americano. Non sono d’accordo. Voglio ricordare Franklin D. Roosevelt, ma soprattutto Lyndon Johnson, l’artefice della Great Society. Concludo dicendo che tra le cause profonde del malessere della democrazia vi è una insufficienza di cultura politica, determinata dal fatto che non si stanno più insegnando i principi democratici e il senso civico.
Quando faccio riferimento all’azionismo nella cultura politica italiana, mi riferisco all’eticizzazione della politica che esso ha determinato. Quello azionista è uno stile di pensiero che risale al Risorgimento, a Giuseppe Mazzini. Il nocciolo duro del pensiero mazziniano consiste nella convinzione che una democrazia possa esistere soltanto se i cuori sono limpidi, se c’è dedizione al bene comune e gli interessi privati sono accantonati. Ma si tratta di un pensiero presecolarizzato, che tuttavia ancora pervade il dibattito italiano. Non siamo ancora entrati nell’era della secolarizzazione della politica, in base alla quale ognuno di noi ha interessi e valori legittimi da difendere e ognuno ha diritto di essere riconosciuto per quello che è, in quanto cittadino attivo.
Partecipanti: Dino Cofrancesco, Alessandro Ferrara, Corrado Ocone, Piero Ostellino, Vittorio Emanuele Parsi, Gianfranco Pasquino, Antonio Polito