ALESSANDRO DE NICOLA
Il paper scritto da Marcello Messori e Lapo Berti, è stimolante perché riassume in modo agile, ma completo, le varie evoluzioni del liberalismo e del liberismo italiano. Vorrei ricordare che qualche confusione terminologica la si fa anche in America, dove i liberals sono l’equivalente dei nostri socialdemocratici o dei «liberali di sinistra», come amerebbe definirsi Eugenio Scalfari. In America colui che non è conservative (parola che abbraccia un’altra serie di stilemi i quali hanno a che fare anche con la visione sociale, etica etc.), il puro liberale/liberista, è il classic liberal (Adam Smith). Non contribuisce all’ordine concettuale anche il fatto, ad esempio, che in Inghilterra il partito liberale per molti anni ha avuto scarsa propensione al liberalismo economico e molta propensione ai diritti civili, alla stregua dei nostri radicali – con la differenza che i radicali adesso sostengono di esser sempre stati liberisti, mentre i liberali inglesi cominciano faticosamente ad accettare il mercato, formano un governo conservatore, realizzano il Libro Arancione etc. Anche in Inghilterra è invalsa così la tendenza a definirsi classic liberals, per evitare confusioni. Un aspetto del paper che mi sembra invece riflettere il difetto italiano è la tendenza a baloccarsi con la distinzione destra-sinistra, a dare dignità al fatto che Alesina e Giavazzi, economisti per altro di prim’ordine, sostengano che il liberismo è di sinistra, o che gli amici di Noisefromamerika abbiano un atteggiamento di sinistra. Sinistra, destra e centro sono luoghi geografici o geometrici, privi di ogni senso reale, che vengono usati per comodità, come molti altri termini che servono a semplificare il linguaggio comune, o a formalizzare un concetto altrimenti difficile da esprimere. Un caso simile è il termine «società»: non esiste la società, esistono individui. La questione sollevata da Nicola Rossi – e vengo anche alla sollecitazione del prof. Pasquino – deriva dal fatto che la destra nei Paesi latini ha un problema di definizione. Nel Nord Europa troviamo a destra gli impeccabili liberali olandesi, i conservatori svedesi, britannici, norvegesi. Ma abbiamo anche la destra rude del nostro passato storico fascista, i nazisti, tutti i partiti nazionalisti presenti soprattutto nell’Europa dell’Est o in Grecia (Alba Dorata, il Fronte nazionale). Dichiararsi «di destra» in Italia non fa una bella impressione. Si aggiunga a ciò il fatto che il centro-destra si compone di un pantheon di pensatori come Gasparri, Cicchitto, Storace… Esiste, insomma, un problema definitorio. Molto più semplice, per contro, definire la sinistra, che è un continuum: comunisti, socialisti massimalisti, socialisti riformisti, socialdemocratici, liberaldemocratici; un filone che si allunga o si restringe a seconda del grado di accettazione delle regole della democrazia o delle regole del mercato. Il centro, dal punto di vista della realtà, non esiste: difficile capire quale sia una posizione di centro sui temi etici, della giustizia, della separazione delle carriere dei magistrati, della criminalità, della certezza della pena. Nonostante Norberto Bobbio abbia contribuito alla confusione con il suo Destra e sinistra, in realtà l’asse portante è uno solo: la distinzione tra liberali e socialisti, o statalisti e individualisti. Il liberalismo è qualcosa di complesso, differenziato, che negli venti/trent’anni ha saputo creare una contaminazione feconda, capace di far comprendere meglio il funzionamento della società. Si pensi a Niall Ferguson, uno storico dell’economia di Harvard che risulta assai più penetrante di un formalista macroeconomico, o a Douglas North, che spiega l’influenza delle istituzioni, o a Buchanan, un genio assoluto con la sua teoria della public policy che spiega perché esistono i fallimenti economici. La radice del liberalismo, però, è pur sempre l’individualismo metodologico. Se solo gli individui esistono, e se people have rights, come dice Nozick, vuol dire che non esiste una dimensione dell’individuo che sia differente dalla libertà economica, politica o civile. La libertà è una sola. Non c’è differenza tra il non poter operare, esprimersi, innovare, creare e vedere i frutti del proprio lavoro, rispetto al fatto di non poter votare per le elezioni del consiglio di quartiere, cosa che sarebbe vista come una violazione assoluta dei diritti politici di qualsiasi cittadino. Il liberalismo è l’individuo che esplica la sua libertà. Certo, esistono poi vari modi d’interpretarlo: Friedman non condivide molte delle posizioni di Hayek; i monetaristi dissentono dagli austriaci; per non parlare dei libertari che tendono a considerare tutti dei pericolosi comunisti. La radice, però, è comune ed è il privilegio metodologico accordato all’individuo e all’unicità della sua libertà nello studio della società e dell’economia. È ovvio che, muovendo tutti da un’ignoranza di fondo, nessuno sia in grado di offrire soluzioni per ogni problema che si presenti nella società; ed è altrettanto ovvio che non esista, per ogni problema, una risposta liberale univoca. Certo è che tale risposta non è detenuta da un burocrate, da un politico o da un ministro, posto che nessuno gode di un punto di vista privilegiato sulla società e sulle sue esigenze. In realtà, proprio in virtù della nostra ignoranza intrinseca siamo liberi: se fossimo onniscienti non avremmo bisogno di libertà. Poiché non lo siamo, non possiamo far altro che imparare dai nostri errori, mettendo l’individuo e l’interazione tra individui al centro della nostra azione politica. Questo è liberalismo: che poi Boldrin non sia d’accordo con Einaudi sulla protezione della proprietà intellettuale, fine with me! Sono questioni di cui si può discutere, senza probabilmente arrivare mai a una soluzione definitiva, perché non esiste una dottrina in grado di dare una risposta a tutto. Ma, accantonando finalmente distinzioni obsolete come sinistra-destra, o liberalismo-liberismo, occorre concentrarsi su una differenza fondamentale: quella tra chi pensa che sia una collettività organizzata, guidata da qualcuno autonominatosi o prescelto, a dover dire dove devono indirizzarsi gli altri individui, e chi invece pensa che l’onere della prova sia dall’altra parte, che siano gli individui a doversi auto-organizzare, a dover scegliere e godere dei frutti del proprio lavoro, avviandosi verso una cooperazione volontaria solo se c’è qualcosa che è più vantaggioso fare insieme. Non vedo altre differenze: sotto questo profilo tendo ad essere idealista, meglio: ideologo.