Roma, 3-4 Dicembre 1999
Nel proporre il tema Globalizzazione e particolarità alla riflessione di specialisti di economia, diritto, filosofia, politologia, e ad operatori di centri di ricerca e di organizzazioni internazionali, Nova Spes ha voluto stimolare una riflessione sul fenomeno della globalizzazione a tutto tondo, dagli aspetti strettamente monetari e finanziari, a quelli politici (dalla crisi degli stati nazionali al ruolo delle organizzazioni internazionali) a quelli culturali, dalle nuove affermazioni di identità che conseguono alla sempre maggiore integrazione, alle sfide che i nuovi processi propongono alla riflessione etica ed alla sua applicazione pratica.
Atti:
Nel proporre questo tema di riflessione a specialisti di economia, diritto, filosofia, politologia, e ad operatori di centri di ricerca e di organizzazioni internazionali, Nova Spes ha voluto stimolare una riflessione sul fenomeno della globalizzazione a tutto tondo, dagli aspetti strettamente monetari e finanziari, a quelli politici (dalla crisi degli stati nazionali al ruolo delle organizzazioni internazionali) a quelli culturali, dalle nuove affermazioni di identità che conseguono alla sempre maggiore integrazione, alle sfide che i nuovi processi propongono alla riflessione etica ed alla sua applicazione pratica.
Laura Paoletti nel suo intervento di introduzione ai lavori ha sottolineato che nell’accezione corrente “globale” allude al globo terrestre e, perciò, “globalizzazione” sta per il più esatto “mondializzazione”. Nell’orizzonte di pensiero di Nova Spes, invece, con “globale” e con “uomo globale” si intende l’uomo tutto intero, opposto all’uomo che si particolarizza in singole attività perdendo di vista l’insieme della sua persona. La globalizzazione nel primo senso può portare vantaggi all’uomo globale, ma è anche foriera di rischi, legati soprattutto al primato dell’economia e alla standardizzazione dei rapporti. Di qui l’approccio di Nova Spes alla globalizzazione: un approccio specificamente culturale, teso a riportare la cultura al suo fine specifico: la formazione dell’uomo, e quindi a richiamare tutti coloro che operano o si occupano in senso tecnico dei processi di globalizzazione all’orizzonte ultimo costituito dalla condizione umana.
Sintetizzando il suo intervento, dal titolo Globalization and Financing of Social Protection, Vito Tanzi, del dipartimento affari fiscali del Fondo Monetario Internazionale, ha preso le mosse dalla considerazione che la centralità dell’informazione e dello scambio di informazioni in forme sempre più rapide ed economiche rende la fase di interdipendenza che il mondo sta vivendo diversa dalle precedenti e cambia l’ambiente entro cui si muovono le istituzioni esistenti. La globalizzazione, nelle forme che sta assumendo, incide e inciderà sempre di più nei prossimi anni sui modi attraverso i quali gli Stati finanzieranno la spesa pubblica, con inevitabili ripercussioni sui livelli di protezione sociale garantiti dallo Stato. Gli Stati saranno sempre più condizionati in scelte quali l’incremento del livello di tassazione (già ora a livelli storicamente alti), l’adozione di sistemi di tassazione, l’uso di regolamenti per particolari obiettivi: il criterio guida diviene quello dell’efficienza, dettato da una competizione crescente che la globalizzazione porta con sé. I soggetti autonomi, come le imprese, possono, per loro conto, compiere scelte per adeguarsi a tale crescente competizione, ma anche la loro efficienza è condizionata dalle scelte politiche. Per Giuseppe Zampaglione, della Banca Mondiale, la globalizzazione, soprattutto con la fine della guerra fredda, ha portato ad una formidabile riduzione dei costi di produzione, ad ingenti trasferimenti tecnologici e all’apertura dei mercati. Ne è conseguita una crescita economica rilevante in alcuni paesi, ma sono nate anche sfide epocali per alcune nazioni, in taluni casi esiziali. Un fenomeno parallelo, per Zampaglione, è lo sviluppo di una cultura della localizzazione, cioè l’avvento di nuovi soggetti subnazionali con loro istanze. I processi in corso delineano un’agenda per il futuro prossimo: 1. L’emersione di una dimensione economica e culturale particolare: quella dei beni pubblici globali. 2. La necessità di un’attenzione da parte della comunità economica internazionale per questi beni. 3. Il rafforzamento dei sistemi istituzionali a tutti i livelli. La rete internet è un esempio di tali beni pubblici globali, esempio che illustra tanto il gap di conoscenza e partecipazione che divide i paesi del mondo quanto la via per il suo superamento: la creazione di networks per obiettivi comuni (ad es. un vaccino contro l’Aids o politiche per combattere la criminalità). Un sistema internazionale di incentivi e disincentivi può canalizzare risorse per la produzione di beni pubblici globali, come beni la cui fruizione non è esclusiva e competitiva. I problemi, nel muoversi in questa direzione, vengono dai gap giurisdizionali, partecipativi, ed anche relativi al mercato, che impediscono un’azione coordinata. Il gap giurisdizionale può essere superato con il rafforzamento dei sistemi decisionali e di governo globali rispetto ai particolarismi nazionali, portatori di conflittualità permanenti. Il gap partecipativo può essere anch’esso superato attraverso il collegamento con le strutture nazionali nell’amministrazione dei beni. Sulle debolezze dei mercati ci sono varie proposte circolanti nel dibattito sulla nuova architettura finanziaria internazionale, ancora lontane da reali progressi verso l’operatività. Il miglioramento delle conoscenze ed il rafforzamento delle istituzioni esistenti è quanto, al momento, appare realisticamente fattibile. Cornelius Georg Fetsch nel suo contributo ha considerato l’impatto della globalizzazione sotto molteplici aspetti: quello economico, quello della tecnologia e della comunicazione, quello politico, quello culturale. I processi di globalizzazione non mostrano un carattere finalistico, si presentano piuttosto come processi aperti. Ciò richiede che siano armonizzati libertà e sicurezza sociale, proprio per evitare paure diffuse di fronte ai processi in corso. Per Fetsch, particolarmente importante per l’efficacia dell’azione delle imprese è l’esistenza di un management interculturale capace di interagire con sistemi di valori differenti dal proprio. Governare un complesso di fenomeni non automaticamente indirizzato ad esiti positivi richiede, sul piano politico, la creazione di istituzioni controllabili in grado di orientare lo sviluppo del commercio mondiale, di creare regole per la competizione e contro le concentrazioni di potere, di definire standard sociali ed ambientali, di accrescere il consenso nella lotta alla corruzione. Il dibattito sugli statements di questa sessione si è centrato soprattutto sulla necessità di regole e sui processi di deregolamentazione. Tutti i soggetti coinvolti hanno dei doveri, ma importante è soprattutto la sicurezza nell’organizzazione (Fetsch). La deregolamentazione appare una risposta ideologica (Pfaff) e in questo senso si potrebbero muovere precise critiche al Fondo Monetario Internazionale. Chiamato in causa Tanzi ha fatto rilevare che la dirigenza del Fondo Monetario ha tentato di dare, negli ultimi anni, un contenuto sociale ad una struttura che non ne aveva, ma ciò non esclude che ci si debba preparare a politiche del tutto nuove rispetto al passato).
Tanzi ha elencato una molteplicità di fattori che rende il sistema di tassazione tradizionale sempre più vicino al collasso: la libertà di acquisto in altri paesi, specie di beni ad alto costo; la crescita della mobilità nell’intraprendere attività economiche fuori dai confini di uno Stato; la crescita del commercio elettronico e la smaterializzazione di molti prodotti; la crescita di paradisi fiscali e di canali di investimento finanziario ad alto rendimento; la crescente importanza del ruolo economico di multinazionali che operano in contesti diversi. A fronte di questa diminuzione delle fonti di finanziamento della spesa gli Stati si troveranno, d’altro canto, a dover soddisfare impellenti bisogni di risorse in settori vitali quali la ricerca, la formazione, le infrastrutture e al tempo stesso dovranno sostenere livelli di spesa prevedibilmente più alti, in settori quali le pensioni o la sanità per l’allungarsi della vita media. Per Tanzi si esce da questa situazione immaginando forme di organizzazione alternative a quelle finora utilizzate, forme che dovranno prendere corpo proprio per l’impossibilità materiale degli Stati nazionali di venire incontro a tutte queste necessità ed emergenze.
Elido Fazi nel suo intervento intitolato Gli investimenti diretti esteri: un’opportunità di sviluppo, ha messo al centro il ruolo delle imprese multinazionali nello sviluppo economico di un territorio, e il ruolo della politica nel creare le condizioni favorevoli per attrarre investimenti e raccogliere le opportunità da essi offerte. La globalizzazione va intesa come un processo di tendenziale azzeramento delle distanze dovuto allo sviluppo tecnologico. Alla delocalizzazione dei processi produttivi si accompagna l’integrazione dei mercati finanziari, la mobilità degli investimenti, la tendenza alla concentrazione delle imprese. I dati economici sulle multinazionali mostrano la loro rilevanza nella produzione di ricchezza su scala mondiale. L’impatto di investimenti diretti sul territorio è però, ad avviso di Fazi, difficile da valutare in assoluto, il saldo tra vantaggi e svantaggi sul medio periodo varia secondo le regioni ed il tipo di attività. Più che il contributo occupazionale è importante il contributo allo sviluppo delle capacità tecnologiche che può avvenire attraverso la promozione di capacità alla forza lavoro, attraverso lo stimolo di attività tecnologiche e lo sviluppo di nuove tecnologie. Gli strumenti adoperabili a questo scopo consistono nella creazione di un ambiente attrattivo per il trasferimento di tecnologia e nella promozione di technical capabilities, cioè competenze, infrastrutture, capitale umano, per lo sviluppo e l’adozione di nuove tecnologie. L’insediamento di imprese multinazionali sul territorio può avere ricadute benefiche sulle piccole e medie imprese, stimolandone il miglioramento e favorendone lo sviluppo sui mercati internazionali. Le politiche seguite dagli enti locali per ottenere una maggiore competitività del territorio hanno puntato sulla deregolamentazione, con la creazione di un unico interlocutore per dare garanzie su tempi e iter procedurali, e sull’istituzione di strutture ad hoc per il marketing territoriale. Anche da recenti studi è emerso che la promozione dell’immagine ha grande importanza nell’attrarre investimenti. Di qui, in conclusione, tre indicazioni operative per la promozione del territorio: 1) migliorare l’immagine del territorio; 2) generare direttamente gli investimenti; 3) fornire servizi per gli investitori. Nel dibattito sono emersi dubbi e perplessità per un atteggiamento di difesa del territorio di fronte alla globalizzazione (Zampaglione). La risposta a questi rilievi ha messo in luce, da un lato, che la promozione della cultura locale può essere del tutto compatibile con l’apertura ai processi di globalizzazione (Benedetti, Tanzi), e che tuttavia il rischio che si perda un certo distillato culturale esiste (Blasi). Una politica equilibrata deve seguire il principio di sussidiarietà (Fetsch), in questo però le istituzioni economiche internazionali, al di là della buona volontà, si trovano spesso vincolate dalla necessità di passare per la mediazione dei governi (Gronbacher, Zampaglione). Un’altra incongruenza rilevata nel dibattito, a fronte dell’importanza della valorizzazione di risorse non trasferibili, è che mentre la cultura costituisce la conoscenza non trasferibile e non codificabile, il sistema formativo tende ad insegnare la conoscenza trasferibile (Lepri). In questo si è rilevato un significativo ritardo di mentalità nel sistema formativo, che ha cancellato la forma di trasmissione del sapere dominante nel passato senza riuscire a sostituirla con nuove forme che siano adeguate ai tempi e non inseguano semplicemente lo sviluppo economico e tecnologico (Blasi, Tanzi). Laszlo Zsolnai nel suo statement introduttivo (The Globalization Threat) ha inteso criticare il cosiddetto “fondamentalismo del mercato”, che minaccia la libertà individuale, le culture locali e gli ecosistemi. Le istanze di alcuni soggetti, come le generazioni future, di necessità non sono rappresentate nelle valutazioni di mercato; il mercato, quindi, non può essere che una delle forme di valutazione delle attività economiche, e va affiancato dagli interventi di politica internazionale e della società civile transnazionale (organizzazioni non governative). Nel suo statement (Some Notes on the Complexity of Development and the Historical Context of Globalization) William Pfaff ha dato una lettura in chiave storica della globalizzazione, ma anche in termini critici, sia sul retroterra storico, sia sui rischi connessi a questo processo. Per Pfaff la campagna per una maggiore deregolamentazione e integrazione dell’economia internazionale è l’ultima manifestazione dello sconvolgimento che l’Occidente ha portato nella civiltà asiatica ed in altre civiltà, sfidando il loro sistema di valori. Più che di originalità dell’Occidente si dovrebbe parlare di imperialismo occidentale, diretto ad un dominio sulle cose e sulla natura e persuaso della validità universale delle proprie convinzioni. A questo sconvolgimento ha resistito in parte soltanto il Giappone, e a costi notevoli. La globalizzazione come fenomeno materiale è resa possibile dagli sviluppi tecnologici che consentono comunicazioni mondiali istantanee, l’integrazione finanziaria, la parcellizzazione internazionale delle manifatture. Sul piano ideologico è un fenomeno di matrice angloamericana, ostile all’intervento governativo regolativo dell’economia. Una totale deregolamentazione è però un’utopia. La globalizzazione ha generato una ricchezza indifferenziata, ma provocato danni sociali, politici ed economici, e sul piano ideologico ha generato instabilità politica in molte aree del mondo. Su questa base il ventunesimo secolo, più che integrato, rischia di profilarsi come immensamente caotico. Il dibattito ha ripreso i nuclei proposti dagli statements, sintetizzabili nell’ambivalenza dei processi di globalizzazione, che portano problemi ed opportunità. Pfaff avverte che se si applicano alla cultura le regole di competizione del mercato, la cultura occidentale, che è già egemone, finirà per assorbire le altre e per produrre una sorta di omogeneizzazione, ma ciò significa impoverimento per tutti, anche per la stessa cultura occidentale. Alcuni modelli già esistenti costituiscono degli esempi di possibile globalizzazione: l’area dell’Euro già propone il problema dell’unità e della sopravvivenza, al tempo stesso, delle diversità culturali (Cappugi). La discussione si è anche soffermata sulla validità del modello americano. Per Tanzi il modello americano non ha mai funzionato bene come oggi e il mercato ha mostrato di funzionare meglio di ogni altro sistema. Zamagni chiarisce che nel suo intervento non voleva affermare che il modello americano non abbia funzionato, al contrario, ma per il futuro esso, all’interno dei processi di globalizzazione, rischia – come avvertono anche studiosi americani – di lacerare il tessuto sociale. L’economia di mercato sin dalle sue origini – che precedono di tre secoli la nascita del capitalismo – ha favorito e garantito la libertà. Perciò noi difendiamo il mercato quale occasione di libertà e non, come spesso si dice, quale garanzia di efficienza. E libertà vuol dire più che autodeterminazione. Oggi significa possibilità di autorealizzazione ed è in quest’ottica che Nova Spes riflette sulla globalizzazione, sull’economia di mercato e sui problemi interculturali. (Zamagni) Il governo politico opera a livello locale. Il problema è semmai costituito dalle regole, di quale tipo di regole necessitiamo noi oggi. Sul piano culturale un problema che si pone di fronte ai processi in atto è quello dell’identità (Ceruti): come pensare insieme il locale e il globale? La crisi dello Stato-nazione che ha cementato l’idea di cittadinanza (territoriale, fautrice dell’universalizzazione della legge e del principio di non intervento) propone in modo urgente il problema (Ceruti, Zamagni). Un’istanza politica appare doverosa di fronte al possibile strapotere del laisser-faire, del quale è emblema la macdonaldizzazione con l’apertura di punti di ristoro anche in veri e propri luoghi simbolo della cultura di un paese (Zsolnai). A quest’osservazione si è risposto (Cappugi) che la globalizzazione non coincide affatto con il laisser-faire. A maggior ragione in Europa. Globalizzazione, condizione umana e senso del limite Mauro Ceruti nel suo statement ha fornito alcuni spunti per un’antropologia globale. Di fronte alla globalizzazione le scienze umane e sociali cominciano a riconoscere l’urgenza di una prospettiva transdisciplinare. Questa è richiesta dalla profondità e multidimensionalità dei problemi planetari che si presentano come processi nei quali si sovrappongono tempi brevi, medi, fino ai tempi lunghi della storia delle civiltà, della specie umana e degli ominidi. Ciò richiede un’attitudine policronica che colga l’intersezione di dimensioni temporali diverse. Si può vedere l’evoluzione della specie umana come un movimento di espansione diasporica nel pianeta che da cinquecento anni ha invertito la direzione, andando verso una sempre maggiore integrazione. Ne è maturata una nuova relazione fra globale e locale, un nuovo forte senso del limite, un senso della storia come insieme di creazioni, emergenze, reinvenzioni. Ceruti ha quindi elencato alcuni processi irreversibili che si propongono alla nostra riflessione: 1) una artificializzazione degli habitat, degli ecosistemi naturali, del clima; 2) la riduzione della diversità umana e naturale; 3) l’esplosione demografica che visualizzerà in futuro il limite del pianeta; 4) la virtualizzazione del corpo, legata ai progressi della medicina, della chirurgia, dell’ingegneria genetica; 5) la crisi del concetto di cultura per le ibridazioni successive che stanno portando ad una meta-cultura planetaria; 6) la deterritorializzazione delle relazioni sociali; 7) la crescita esponenziale degli stimoli e delle possibilità cognitive che richiede nuove mappe selettive; 8) la nuova complessità del problema delle identità individuali e collettive. Per Ceruti il nuovo terreno d’incontro tra filosofi e politici, scienziati e tecnici può essere costituito dalla sfida dell’emergere di un’umanità planetaria quale nuova possibilità evolutiva per la specie umana. In quest’evoluzione però l’omologazione non è la dimensione privilegiata: la diversità è altrettanto primaria, sul piano biologico e antropologico. Con il suo statement (The differences between globalization and internationalization) Ruud Lubbers ha inteso specificare le differenze tra due processi strettamente connessi tra di loro, l’internazionalizzazione e la globalizzazione, facendo emergere in questo modo la specificità di quest’ultimo. Nei processi di internazionalizzazione attori e processi sono collocati territorialmente e frequentemente hanno per centro gli Stati nazionali; la globalizzazione è differente in quanto qui l’allocazione territoriale di attori e oggetti è sempre più irrilevante: anche i processi locali sono ormai inseriti in un più ampio contesto globale. Queste differenze per Lubbers si possono cogliere in diversi ambiti: nel mondo degli affari e nel suo ambito di regole, nel rapporto tra normative internazionali esplicite e normative usate e applicate anche se non ratificate dai parlamenti nazionali (la cosiddetta “soft law”), nella cultura sviluppata ormai al di fuori dei territori d’origine. Non è all’orizzonte, nei processi di globalizzazione, un conflitto di civiltà, perché a suo avviso, per definizione, le civiltà dialogano, ma i conflitti sono comunque latenti e vanno disinnescati intervenendo sulle grandi differenze di ricchezza. Le divisioni fra aree del mondo che vigevano al tempo della guerra fredda sono ormai superate e nel ridefinirsi dei rapporti internazionali sono rilevabili, a vari livelli, alcuni deficit avvertiti dalle opinioni pubbliche: deficit di sicurezza e di mercato; deficit ambientale; deficit anche democratico. Le reazioni, evidenziate anche dai fatti di Seattle, al predominio di logiche soltanto economiche e tecnologiche, propongono il problema di un nuovo governo nel quale le organizzazioni non governative appaiono poter giocare un ruolo importante, anche limitandosi alla pressione sugli organismi internazionali e sulle aziende transnazionali. L’obiettivo che sfida l’azione politica, oggi, è quello di una società giusta, equa, sostenibile, partecipata, e che tenga conto delle future generazioni. Il dibattito si è incentrato soprattutto sulla specificità della globalizzazione e sul tema delle identità in presenza della crisi dello Stato-nazione. La globalizzazione potrebbe essere l’ultima tappa di un processo di integrazione che ne ha viste altre non del tutto diverse qualitativamente, occorre quindi mettere in guardia da un’eccessiva enfasi sulla novità dei processi in atto (Tanzi). Quanto alle identità, potrebbero svilupparsi nuove appartenenze, quali le appartenenze al gruppo (Tanzi). Agli interventi sul significato storico dell’idea di nazione, ed anche alla sua recezione mancata o deformata nelle altre culture (Antiseri, Valenza). Agazzi ha risposto ribadendo comunque la centralità della nazione nel senso di appartenenza, sottolineando l’incompatibilità tra nazionalismo e nazione: il nazionalismo distrugge l’idea di nazione nella sua autenticità. La sessione è stata conclusa dagli interventi di Francis McHugh, Paul Dembinski, Patrick Nerhot e Armando Rigobello. Paul Dembinski, del centro “Observatoire de la Finance”, ha preso le mosse dall’esperienza del suo Centro che si occupa di tecnica economica e attività di aiuto ed assistenza ad organizzazioni internazionali. Per articolare l’idea del possibile contributo della finanza al bene comune, Dembinski ha descritto il tipo antropologico dell‘homo finantiarius, tipo sviluppatosi nella seconda metà del Novecento come discendente dell’homo oeconomicus. I beni dell‘homo finantiarius sono grafici, i suoi mezzi di comunicazione sono i video o i gesti, il suo vocabolario è estremamente povero e tecnico. Egli è dinamico in momenti topici, ad es. in situazioni di boom economico, fuori dal suo ambiente però rischia di avere seri problemi di sopravvivenza, la sua riproduzione è intellettuale. Questa descrizione in termini naturalistici del tipo homo finantiarius vuole concludere sui rischi di una sua estensione sic et simpliciter su scala planetaria. Per Dembinski si rende necessaria una ricostruzione a tutti i livelli (accademici, delle istituzioni sociali e politici) che integri il ruolo dell’homo finantiarius in contesti di valore più ampi. Patrick Nerhot ha messo al centro del suo statement la filosofia dell’universalismo in una fase di ripensamento da parte dell’occidente: il cristianesimo è assunto come terreno di sviluppo del razionalismo moderno. Nerhot ha discusso una definizione fondamentale del senso come proiezione infinita di un ritorno che è la scrittura di un’assenza. Il principio di razionalità è una formalizzazione di quest’idea di senso come anticipazione di una infinità di percorsi, la cui definizione porta a circoscrivere fenomeni. Dopo una premessa sui pericoli e le opportunità della globalizzazione, Armando Rigobello nel suo statement ha evidenziato alcuni problemi legati alla globalizzazione: problemi di premesse epistemologiche alla base delle conoscenze che sostengono i processi in atto; problemi di antropologia filosofica, per l’impatto sulla condizione umana di logiche di conoscenza e di programmazione; problemi di ordine etico e morale relativi alle direttive pratiche e agli accorgimenti educativi che possano minimizzare i rischi ed esaltare le opportunità. Il dibattito su questa parte della sessione si è centrato pressoché esclusivamente sul ruolo delle regole: le regole sono importanti (Tanzi), sono uno strumento in perenne divenire (Benedetti), definiscono qualcosa che ancora non si è precisato nei suoi contorni (Nerhot). E’ illusorio però pensare che le regole risolvano tutti i problemi: immaginare che le leggi del mercato siano sempre efficaci può essere pericoloso, e in questo senso, pur seguendole, bisogna essere anche pronti ad andare oltre (Dembinski). La quinta sessione, tenutasi nella sede dell’Accademia dei Lincei, si è articolata in una tavola rotonda con protagonisti il ministro del Tesoro Giuliano Amato, il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’on. Antonio Martino. Il ministro Giuliano Amato ha definito la globalizzazione in termini di relazione tra mondi differenti che ora sempre più si vedono e si parlano, e fronteggiano problemi spesso difficilmente solubili. Prendendo spunto dal fallimento del vertice di Seattle, Amato ha evidenziato gli interessi contrastanti di soggetti che apparentemente sembrerebbero stare dalla stessa parte della barricata, come i paesi più poveri e le organizzazioni non governative. In questo senso la stessa fiducia nelle regole, pur necessarie, va ridimensionata: Amato si è chiesto se economie che interagiscono devono, per farlo, essere necessariamente tutte e due sane, virtuose in termini economici: non c’è dubbio che un sistema basato sul libero mercato sia migliore, così come la concorrenza è da preferire all’assenza di concorrenza, e la democrazia all’assenza di democrazia, ma è anche vero che per rispettare veramente le diversità occorre mettersi tutti sullo stesso piano. Antonio Fazio nel suo intervento ha ripercorso dall’interno la storia dell’economia degli ultimi anni, enunciando anzitutto l’idea che sistemi di regole che si è tentato di imporre all’economia mondiale si sono rivelati non sostenibili in alcune realtà economiche. La crisi messicana segna in questa storia un punto di svolta, sia per il coinvolgimento del dollaro, sia per la conseguente espansione della liquidità che spiega la successiva crisi giapponese. Nelle crisi e nella successiva evoluzione dei processi economici si è evidenziato un rapporto sempre più sproporzionato tra attività di credito e attività economica reale, il che però non significa che i due termini possano sganciarsi l’uno dall’altro. La realtà degli Stati Uniti, con un grande debito ed una moneta in crescita, non può quindi essere assunta a modello e non è, sul lungo periodo, del tutto rassicurante: il problema della moneta e del credito rimane aperto, e va affrontato costruendo un’architettura complessiva nella quale sono importanti le regole di vigilanza Antonio Martino ha inteso anzitutto affermare l’idea che la globalizzazione è un processo positivo, che consente all’economia di crescere e che favorisce relazioni pacifiche. Anche i movimenti crescenti di capitali hanno una funzione positiva, esercitando un controllo su politiche nazionali e comportamenti sbagliati ed aberranti. Per Martino, comunque, pur nella positività del processo si possono individuare alcuni rischi: le diverse aree del mondo tendono a concentrarsi in blocchi che praticano il libero mercato all’interno e il protezionismo all’esterno, per cui potrebbero generarsi conflitti non più tra Stati nazionali, come in passato, ma tra blocchi; un secondo rischio, sempre connesso a questa concentrazione di soggetti economici, è quello della povertà permanente dei paesi più poveri. Stefano Zamagni avverte che questo suo intervento conclusivo non intende essere la sintesi, neppure sommaria, delle due intense giornate di lavoro dell’Incontro. Tale compito sarà assolto dal volume che accoglierà gli Atti del Convegno e che terrà conto tanto delle relazioni, quanto del dibattito. Tuttavia ritiene opportuno sottolineare che, pur nella ricchezza e nella diversità di prospettive (alcune delle quali anche contrapposte), è emersa una consapevolezza che ha caratterizzato le due giornate di lavoro: il carattere multidimensionale della globalizzazione. Perciò non si fa omaggio alla verità, né tantomeno ci si mette nella giusta ottica per leggere queste inedite emergenze, se le si riduce solo alla dimensione economica e finanziaria. Il volume degli atti del convegno è on line Partecipanti: E. Agazzi, G. Amato, A. Benedetti, M. Ceruti, P. Dembinski, E. Fazi, A. Fazio, C. G. Fetsch, G. Gronbacher, R. Lubbers, A. Martino, F. McHugh, P. Nerhot, W. Pfaff, V. Tanzi, G. Zampaglione, L. Zsolnai Consiglio Scientifico: P. Blasi, L. Cappugi, F. D’Agostino, L. Lepri, V. Mathieu, M. M. Olivetti, L. Paoletti A. Rigobello, P. Valenza, S. Zamagni Agenda: Second Session 11-13 Third Session 15,30-19,30 Chairman F. D’Agostino Fifth Session 16-19,30 – Accademia Nazionale dei Lincei Chairman S. Zamagni
Gregory Gronbacher ha presentato in Economic Globalization and the New Evangelization, un quadro delle opportunità e delle sfide che la globalizzazione presenta per la Chiesa, intendendo la globalizzazione come un processo in grado di sopperire alle necessità materiali di coloro che oggi vivono nell’indigenza, ma foriero anche di ulteriori storture ed ingiustizie. Gronbacher ha tracciato un breve quadro storico dell’integrazione economica del pianeta ed un quadro dei dati su mortalità, povertà, istruzione nelle varie aree del mondo: ne esce confortato l’asserto che la ricchezza e la crescita della ricchezza va di pari passo con la libertà; anche a livello dei paesi poveri, quelli più poveri risultano essere anche i più oppressi. Nell’ultima parte, concernente l’approccio morale alla globalizzazione, Gronbacher ha escluso che aspetti fondamentali dell’economia di mercato, quali la proprietà privata o l’ineguaglianza, intesa come differente retribuzione a fronte di qualità ed investimenti differenti, costituiscano la causa delle storture e delle distanze tra ricchi e poveri. Più che il processo di globalizzazione in se stesso è chiamato in causa il sistema complessivo di valori. La Chiesa si fa voce dei più poveri, di coloro che mancano di tutto, verso questi deve indirizzarsi la solidarietà internazionale, senza che ciò significhi volgersi contro i processi di globalizzazione. Essi anzi, ha concluso il relatore, per la sempre crescente integrazione culturale, offrono nuove opportunità alla evangelizzazione.
Attualmente, prosegue Zamagni, nell’incontro – scontro tra culture diverse conosciamo sostanzialmente due modelli per risolvere i problemi che ne derivano: quello francese dell’assimilazione e quello americano del crogiuolo di razze. Il primo sta a significare che l’immigrato deve, a tutti gli effetti, assumere l’identità del Paese ospite, il secondo, invece, lascia libera ogni comunità di coltivare le proprie tradizioni e di applicare i propri valori in tutti i campi, tranne che in quello economico. Il modello francese non ha funzionato, quello americano ha dato risultati accettabili nell’epoca del fordismo ma in quella della globalizzazione rischia di creare situazioni schizoidi. I pericoli sono, dunque, l’imperialismo e l’integralismo culturali. La sfida, nell’età della globalizzazione, è quella di individuare nuove possibilità di coesistenza tra culture diverse. Questo problema non è al centro dell’interesse degli accademici, perciò conclude Zamagni, è opportuno creare occasioni, come questa di Nova Spes per riflettere sui molteplici aspetti della mondializzazione.
Il modello americano, prosegue Zamagni, funziona sul piano economico ma non su quello culturale, in particolare su quello dell’integrazione culturale.
Fino ad oggi si è, giustamente, identificato il benessere con la massimizzazione dell’utilità; è chiaro che oggi non è più così.
Il problema è come organizzare il potere in modo da garantire la libertà, le istituzioni. Come possono funzionare le democrazie? I diritti umani possono costituire il nucleo di una futura cittadinanza? Per Agazzi, a dispetto del lunghissimo cammino che i diritti umani hanno alle spalle, essi non possono arrivare a sostituire l’idea di cittadinanza. In ogni caso (Blasi) le future regole del gioco dovranno essere semplici. E al tempo stesso occorrerà investire sulla persona; bisogna essere consapevoli che le forme di governo politico dell’economia determinano il mondo.
Evandro Agazzi ha focalizzato il suo intervento (Globalizzazione e perdita delle identità) sui disorientamenti che caratterizzano l’uomo contemporaneo, senz’altro riportabili al dissolversi di quadri valoriali ed ai mutamenti profondi nell'”immagine dell’uomo” prodotti dalle scienze. Tale dissolversi è però tanto più forte in quanto l’individuo smarrisce le radici della propria identità che in altri tempi gli erano spontaneamente offerte dalla comunità di appartenenza, una comunità “vitale” fatta di storia e di destino. Il legame di sangue nella famiglia e nel ceppo affondava in realtà nella storia, negli ideali, nei modelli e nei valori di quel gruppo. Questo concetto di solidarietà esistenziale ha conosciuto, per Agazzi, uno sviluppo significativo nell’idea di nazione elaborata nel corso dell’Ottocento: la nazione aveva creato forti sentimenti di identità e tensioni ideali pur mantenendo le differenze individuali. La degenerazione di tale idea nel nazionalismo ha fatto perdere il concetto di nazione, generando un vuoto ideale nella civiltà occidentale e seminando i pericolosi semi dell’egoismo razziale ed etnico. Una strada percorribile per tentare di colmare questo vuoto potrebbe essere quella della valorizzazione delle diversità, come apportatrici di ricchezze che non si hanno. Si tratta di una strada che richiede la coscienza dei propri limiti culturali, e quindi difficile proprio perché ogni cultura (non solo quella occidentale) ha coltivato l’illusione di essere al centro del mondo e della storia.
La sfida dell’umanità planetaria, come l’ha definita Ceruti, potrebbe – di fronte alla crisi dello stato-nazione e, quindi della cittadinanza così come fino ad oggi è stata concepita – dar luogo a nuove categorie e criteri di distinzione quali, per esempio, la distinzione tra umano e non umano che non ha riferimenti in uno specifico territorio (Zamagni). Ciò presuppone un consenso che nasce dal basso e che per Benedetti è un’utopia. Zamagni ribatte che esistono già soggetti distinti sia dagli Stati, sia dai soggetti del mercato e sono le ONG ed altre forme associative. Questo terzo soggetto ha la caratteristica di coagulare consenso su determinate questioni riconducibili ai diritti umani tra partners che appartengono a culture anche molto diverse.
Francis McHugh ha costruito il suo intervento in forma di commento e sviluppo di tesi riprese dall’articolo di P. Streeton, Globalization, Threat or Salvation?. Punti forti per rispondere alle sfide della globalizzazione sono la società civile transnazionale e la cultura della reciprocità. Si apre un campo di intervento per il pensiero morale e per la dottrina sociale cattolica, un intervento che unisca il rigore scientifico e metodologico alla capacità di scendere nel concreto dell’etica sociale. Alla domanda se una razionalità moralmente consapevole può essere correlata all’economia la risposta è positiva, sia in termini storici, risalendo fino ad Adam Smith e alla Scuola Scozzese, sia guardando all’attualità: tanto nelle teorie economiche quanto nei documenti di istituzioni economiche le considerazioni etiche e morali sono sempre più presenti. Il punto di approdo di un pensiero cattolico, non necessariamente ufficiale, e di teorie e pratiche dell’economia, deve essere la reciprocità: la capacità di includere soggetti fin qui esclusi attraverso l’azione di governi, di privati, delle organizzazioni non governative, anche perché quest’inclusione si presenta foriera di efficienza.
Sul piano epistemologico il mondo si presenta sempre di più come un contesto operativo; sul piano della condizione umana però ciò pone il problema di una ridefinizione della natura umana nel momento in cui strumenti di razionalizzazione e di ottimizzazione appaiono mortificare la creatività e accentuare le divisioni tra comunità ricche e povere. In campo morale l’etica si configura di conseguenza come disciplina di rapporti relativi anche ad un mondo artificiale creato dalla tecnologia. Ai problemi che esso pone l’etica può rispondere sul piano generale e fondativo della natura e della funzione del limite, e sul piano specifico di una normativa flessibile da applicare a campi e situazioni nuove. Il rifugio nel privato, il disimpegno dalla politica appaiono oggi controfigure della ribellione al primato dell’economico.
Per Rigobello una risposta adeguata passa per un’educazione umanistica centrata sul senso del limite, come rispetto e autolimitazione, come esercizio del dubbio, della ipoteticità e provvisorietà dei saperi.
Stefano Zamagni, presidente della sessione, enuclea alcuni problemi per avviare la riflessione. Il primo è l’invito a rispondere ad una sorta di paradosso: nasce un ordine economico globale e all’interno di questo inedito evento la questione finanziaria sta ponendo nuovi problemi. Il paradosso consiste nel fatto che mentre da un lato si avverte l’urgenza di nuove regole, di riforme, dall’altro tali regole scarseggiano, non perché manchino le proposte, ma perché non si è ancora trovato un criterio o un principio per armonizzarle e per superare la parzialità che ognuna di tali proposte esprime.
Nel maggio del 1998, il G7 usa per la prima volta la parola “architettura” (prima si parlava di riforma del sistema finanziario internazionale) per indicare un nuovo ordine delle Istituzioni finanziarie internazionali e con ciò il G7 si assume compiti di peso crescente proprio nell’intento di disegnare tale nuova architettura. Al tempo stesso si registra, però, una carenza, proprio all’interno del G7, di nuove regole di coordinamento e di cooperazione. Allora la domanda alla quale Zamagni invita a rispondere è: chi è (o chi sono) gli architetti responsabili di disegnare questa nuova struttura? E ancora: come si può uscire da questa sorta di paradosso per il quale da un lato si fa sempre più pressante l’esigenza di una nuova e più rigorosa regolazione e dall’altro non si riesce ad individuare neppure alcuni principi di coordinamento che siano condivisi e che guidino le azioni se non di tutti, almeno della maggioranza?
Per Martino, sul piano strettamente monetario, è difficile dire quale strada possa essere la più conveniente per governare i processi in atto, vale ancora il trilemma dell’economia monetaria dell’incompatibilità tra mobilità dei capitali, politica monetaria indipendente e cambi controllati. La proposta più percorribile parrebbe quella di una architettura monetaria internazionale basata sul rafforzamento del WTO per garantire la libertà dei commerci e di una maggiore flessibilità nel sistema dei cambi, come cambi puliti, fissi, come era il “gold standard”.
Nella successiva discussione Tanzi ha indicato come via da percorrere quella dell’aumento del flusso di informazioni e di un maggior controllo sulle banche, ed anche quella dell’introduzione di codici di comportamento, ad es. per il sistema fiscale. Masera ha concordato con l’analisi fatta della situazione americana, indicando nella discesa del dollaro una possibile via di soluzione, con un diverso equilibrio tra euro e dollaro e ha concordato anche sulla globalizzazione come fattore di crescita dei paesi poveri.
Negli interventi di replica Martino e Fazio hanno concordato sulla necessità di intervenire sul debito dei paesi poveri, pur sottolineando alcuni possibili inconvenienti di provvedimenti presi non secondo logiche di puro mercato.
Come è stato sottolineato in queste due giornate, la globalizzazione implica anche un problema antropologico, nell’accezione forte di tale termine. Quindi l’intento di Nova Spes di voler stimolare una riflessione sul fenomeno della globalizzazione a tutto tondo, appare non solo consono alla sua vocazione di ricerca e di studio dei problemi culturali e sociali con un approccio transdisciplinare, ma pienamente legittimo e pertinente.
L’attenzione rivolta solo agli aspetti economici e finanziari non ha permesso né di anticipare né di capire Seattle il che è, secondo Zamagni, un campanello di allarme.
A questo tipo di attenzione è sfuggito il fatto che non esistono solo gli Stati e le società multinazionali, ci sono anche nuovi soggetti della società civile che hanno organizzazioni non governative e associazioni di vario genere: ecco perché è necessario allargare l’orizzonte della riflessione.
Un’altra annotazione riguarda il mercato. Nessuno oggi, prosegue Zamagni, mette più in dubbio il sistema di mercato. Il problema è vedere se tale sistema è compatibile con culture (cioè insiemi di valori, di storie, di costumi e tradizioni) diverse e su questo gli economisti dovrebbero riflettere. Quindi si tratta di vedere se, fermo restando il sistema di mercato, è possibile metterlo a contatto con sistemi di valori diversi in modo da migliorare non tanto i livelli di efficienza quanto quelli di libertà.
Nova Spes persegue da anni la linea di ampliare gli spazi di libertà in relazione allo sviluppo al fine di trovare vie nuove per pensare il globale e il locale. Per rendere tale concetto Zamagni ricorre ad una immagine: le radici e le ali. Le radici significano l’attaccamento di una comunità alla propria identità, le ali indicano la capacità di creare il nuovo. Le radici senza ali portano alla chiusura e alla mera conservazione dell’esistente ma anche le ali senza radici sfociano nell’utopia e nell’astrattezza.
Nova Spes si è data il compito di armonizzare radici ed ali per andare incontro al nuovo con la memoria del passato.
A cura di Laura Paoletti e Pierluigi Valenza 28 Gennaio 2000.
VENERDI’ 3 dicembre ore 9-13 15-19,30
First Session h. 9.00-11.00
Globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia: il senso e le implicazioni di una novità epocale
Globalization and financiarisation of the economy: significance and implications of an epoch-making novelty
Chairman P. Blasi
Sulla complessità delle vie locali allo sviluppo nell’era della globalizzazione.
On the complexity of local paths to development in the age of globalization
Chairman L. Cappugi
Strutture di governance della società civile transnazionale come antidoto ai fenomeni di polarizzazione indotti dalla globalizzazione.
Governance structures of a transnational civil society as an antidote to polarization induced by globalization
SABATO 4 dicembre ore 9-13/ 16-19,30
Fourth Session 9-13
Globalizzazione, condizione umana e senso del limite Globalization,
The human condition and the sense of limitation
Chairman V. Mathieu
Verso una nuova architettura delle Istituzioni Finanziarie Internazionali nell’era della globalizzazione
Towards a new architecture of International Financial Institutions in the age of globalization