Il convegno Il mercato: regola o detonatore dei conflitti? si iscrive nel contesto di una riflessione avviata dalla Fondazione Nova Spes sulla situazione contemporanea, non in chiave strettamente geopolitica, ma di interpretazione del conflitto come lente attraverso cui leggere una molteplicità di rapporti in vari campi. Nell’introdurre i lavori Pierluigi Valenza ha fatto riferimento a questa cornice più ampia inquadrando le questioni raccolte nel titolo. Il convegno si è proposto di svolgere analisi tipologiche sul conflitto, lavorando sul carattere conservativo o distruttivo di esso in economia; ha poi inteso considerare il conflitto sul piano storico, ragionando sui rapporti tra economia e guerra, e infine si è proposto di guardare ai conflitti all’interno dell’economia: il rapporto tra etica e economia si pone come strutturale per lo stesso funzionamento del mercato, basti pensare al ruolo cruciale della fiducia
Nella relazione di apertura, Processi di selezione culturale: conflitto e cooperazione sociale, Pier Luigi Sacco ha introdotto gli elementi essenziali di un modello di evoluzione culturale come quadro delle dinamiche di conflitto e cooperazione all’interno di una società. Il contesto in cui si è mossa la relazione è quello dei giochi evolutivi, nei quali gli agenti vengono posti in relazione attraverso un meccanismo di accoppiamenti casuali e mettono in atto delle strategie secondo un programma comportamentale che li caratterizza. La tesi di Sacco è: conflitto e cooperazione sono nel soggetto, e nei risultati operano come fattori di selezione l’economia e la cultura. La selezione economica è quella che porta al raggiungimento di determinati risultati materiali, la selezione culturale è legata a processi di giustificazione del soggetto in cui entrano risvolti morali e psicologici. Nella società attuale la selezione culturale ha assunto sempre più importanza. Sacco ha illustrato le sue posizioni attraverso una dettagliata esposizione dell’ultimatum game, un gioco che ipotizza una torta da dividersi secondo l’offerta di partenza di uno dei giocatori, rispetto alla quale l’altro giocatore ha soltanto la possibilità di accettare o rifiutare. Il rifiuto comporta però che tutte le varie possibilità, da quella 99 a 1 a quella 50 a 50, cadono perché nessuno dei due prende nulla. Sacco ha mostrato come la selezione culturale operi in modo diverso secondo le diverse combinazioni di diverse tipologie di giocatori: il giocatore autointeressato (per il quale conta soltanto quanto prende), il giocatore posizionale (per il quale conta mettere la più grande distanza possibile tra sé e gli altri), il giocatore rawlsiano (per il quale conta l’equità, cioè che chi ha meno stia il meglio possibile), il giocatore avverso alla disuguaglianza (il quale si arrabbia se la differenza supera una certa soglia). Così ad es. nella situazione descritta, tra due giocatori rawlsiani non si genera conflitto, bensì cooperazione, mentre tra un giocatore posizionale e uno autointeressato si arriva alla distruzione della torta. La stessa varietà si propone nel noto caso del dilemma del prigioniero, nel quale il comportamento cooperativo è oggettivamente il più conveniente, ma nello stesso tempo la cooperazione è estremamente fragile e di nuovo le tipologie dei giocatori portano a soluzioni molto diverse. Nelle tipologie considerate non rientrava chi rovescia il gioco, immaginando una selezione culturale che ha già operato determinando alcuni tipi di comportamento. I modelli esposti mostrano che non si può parlare di conflitto e cooperazione in astratto, ma soltanto all’interno di relazioni determinate in cui appunto la selezione culturale si mostra decisiva.
Luigi Cappugi, introducendo la discussione, ha risposto alle sollecitazioni di Sacco partendo dalla constatazione che l’evoluzione della teoria economica sembra portare ad un superamento dell’homo oeconomicus. Per Cappugi Sacco ha mostrato chiaramente che la cooperazione, sotto determinate condizioni, è in grado di ottenere performances superiori a quelle di attori razionali non cooperativi. Si recupera così quell’interezza di visuale che era in Smith, ma che poi la scienza economica ha sviluppato unilateralmente, soltanto nel senso del perseguimento dell’interesse personale. Facendo riferimento al teorema di incompletezza di Gödel, Cappugi ha argomentato che il sistema di regole di mercato, anche se in via di ipotesi può essere considerato ben costruito e ben gestito, è inadatto strutturalmente a risolvere tutte le questioni. Le domande che, guardando ai casi concreti, si possono sollevare sono: è prevedibile su basi logiche lo stato di insolvenza di un’azienda? Come sono tutelabili i suoi creditori? Le asimmetrie informative sono un bene o un male? Come considerare i bonds? Qualsiasi sistema di regole porta a dilemmi indecidibili a priori rispetto alle questioni qui elencate. Il rischio è ineliminabile da ogni investimento, eliminare il rischio significa eliminare ciò che fa crescere l’economia, eliminare la logica e anche la giustizia. Certamente le autorities possono far fronte validamente ai dilemmi se poste al di sopra delle regole: la qualità delle decisioni, infatti, non può venire solo dall’applicazione di norme, ma da valori e esperienza. Pena l’ingiustizia, ma anche il danno per la stessa competitività di un sistema.
Paolo Legrenzi, in una relazione dedicata a Conflitti e consumi, ha presentato acquisizioni della psicologia dei consumi sui conflitti intraindividuali, in particolare sui conflitti post-decisionali. Questi vengono evidenziati in studi di casi da comportamenti che non hanno altra ragione che quella di ridurre la dissonanza post-decisionale. Sia nei comportamenti dell’acquirente che in quelli del venditore sono individuabili molteplici strategie per ridurre tale dissonanza. Una ricerca su tre gruppi di 67 soggetti, presentata nel 1993, in cui si proponeva il problema di prenotare una vacanza ad un determinato prezzo senza sapere se si era superato l’esame di fine quadrimestre, mostra nel comportamento evidentemente antieconomico della scelta per un differimento della prenotazione ad un prezzo più alto l’importanza della riduzione della dissonanza come costo accettabile per chi sceglie. La linea di ricerca su questa particolare tipologia di conflitti può senz’altro arricchire la ricerca sui conflitti socio-cognitivi.
La relazione di Gianni Toniolo, Sulle cause e le conseguenze economiche delle guerre, si è proposta di trattare con distacco oggettivo e senza considerazioni moralistiche il rapporto tra guerra e economia, partendo dal dato osservativo che la guerra è una sorta di stato di natura del genere umano. In situazioni di scarsità la guerra era quell’investimento che consentiva di accrescere la propria ricchezza o di difenderla dalle aggressioni altrui. Si poteva pensare che con il passaggio epocale della rivoluzione industriale questo tipo di investimento declinasse, di questo, oltre Kant, erano convinti anche Marx e Cobden, tra gli altri, e in effetti rispetto ai precedenti il secolo XIX si può considerare come relativamente pacifico. Ma il XX secolo, il secolo della massima espansione dell’economia mondiale, è stato anche quello delle guerre più distruttive. Si tratta di spiegare questo paradosso. Guardando agli studi di Kuznets una risposta possibile è che in uno sviluppo economico disomogeneo sul piano temporale la ricerca del livellamento, cioè del recupero degli svantaggi iniziali, può essere una spinta alla guerra. La storiografia sul colonialismo è ormai concorde sul fatto che l’economia dei paesi colonizzatori non ha beneficiato particolarmente dell’espansione coloniale. Se si guarda alle guerre del XX secolo, gli effetti economici sono stati ugualmente negativi, con l’eccezione degli Stati Uniti. L’impatto economico delle guerre dipende poi molto dalla sistemazione post-bellica. La politica delle riparazioni e l’assetto territoriale ed economico successivo alla prima guerra mondiale, se capiti nei loro aspetti profondamente sbagliati, avrebbero consentito una diversa gestione del periodo successivo alla fine della guerra fredda. Dalle sue analisi Toniolo ha infine tratto alcune conclusioni: noi non possediamo una teoria della guerra; nelle economie di mercato le maggioranze sono contrarie alla guerra, ma vi sono gruppi che ne traggono vantaggio e sono in grado di influenzare i governi. Più che lo sviluppo economico è perciò la democrazia che può costituire un antidoto alla guerra, perché l’esperienza ci dice che fra di loro le democrazie non si fanno guerra.
Nella sua relazione su Il conflitto negato, Ugo Morelli ha preso le mosse dalla constatazione che non disponiamo di una scienza dei conflitti. La costruzione di questa scienza richiede l’approfondimento di alcuni aspetti, guardando soprattutto all’esperienza e alla realtà dei conflitti, rispetto alla quale si evidenzia l’esigenza di una costante rifondazione delle regole. Status disciplinari, dimensione linguistica, vincoli moralistici sono altrettanti fattori d’ostacolo alle basi della scienza in questione. Per Morelli si tratta di accettare come possibile l’esito antagonistico, articolando, come parole rilevanti per una scienza dei conflitti, un trinomio, piuttosto che l’alternativa secca pace-guerra: pace, guerra e conflitto. Mentre la guerra si può sintetizzare nel motto: mors tua, vita mea, il conflitto, come cum-fligere apre ad una terza dimensione, evolutiva, rispetto alle altre due. Per accedere a questo piano di considerazione bisogna liberarsi dell’assunto ovvio che la pace sia pacifica e considerare la guerra come un’elaborazione patologica e insana del conflitto. Il vero pericolo è negare il conflitto, accedere al conflitto significa già accedere al riconoscimento delle ragioni dell’altro e mettersi nella condizione di porre in questione almeno una delle proprie buone ragioni. Accettare il conflitto significa entrare in una relazione, con i caratteri di crisi, di vuoto, ma anche di incentivo, che essa comporta; significa entrare in una relazione in qualche modo regolata, che quindi dà modo di apprendere delle regole, con la consapevolezza però che le regole potrebbero cambiare; significa accettare l’ambiguità che investe i soggetti stessi in gioco, tanto che in un gioco conflittuale è inevitabile giocare più parti contemporaneamente. Una visione più complessa del conflitto investe la psicologia, l’analisi del ruolo del nemico, del terzo, forme quali l’invidia, l’indifferenza, tutto questo in condizioni di rapida evoluzione, evitando scorciatoie riduzioniste e pacifismi di maniera per arrivare ad una gestione costruttiva dei conflitti.
Nell’introdurre la discussione Ignazio Musu ha sottolineato come le due relazioni focalizzassero come punto comune i processi di patologia dei conflitti e di loro risoluzione. Le domande sollevate sono in definitiva: come avviene il passaggio dal conflitto alla guerra? E come avviene il passaggio dal conflitto alla pace?
La sessione pomeridiana si è aperta con la relazione di Marco Eugenio Vannini: Mercato e conflitti: un bilancio parziale alla luce dei riscontri empirici. Vannini ha provato a tracciare un quadro di bilancio dei conflitti attuali in chiave economica, anche se sono coinvolti aspetti etici, sociologici e psicologici. Lo scenario mondiale è stato dominato da una lunga fase di liberalizzazione e da tendenze all’integrazione. Gli standard di misurazione della povertà presentano problemi di oggettività della misura: un dato assoluto è quello di quanta parte della popolazione mondiale vive con meno di un dollaro al giorno e sappiamo che questa percentuale della popolazione va diminuendo – considerando il periodo dal 1950 al 1992. Tuttavia analizzando il dato assoluto si vede facilmente come questo trend è influenzato pesantemente da Cina e India. Questo cambia le valutazioni da dare sulla povertà, soprattutto per ciò che riguarda l’Africa subsahariana. E la valutazione si complica ulteriormente considerando altri indicatori sociali, quali la mortalità, le malattie, la speranza di vita. Questi dati, rapportati agli indicatori demografici in crescita, ci restituiscono un quadro nel quale invece il numero dei poveri è aumentato.
La relazione di Lorenzo Sacconi, Conflitto o cooperazione tra impresa e società? La risposta basata sul contratto sociale, è ritornata a questioni più teoriche e di modelli, inquadrando il ruolo delle norme morali in economia. Sacconi ha posto il problema se il mercato sia in grado di generare un ordine spontaneo capace di armonizzare gli interessi in conflitto in modo che si affermi la logica del mutuo vantaggio. In un primo passaggio argomentativo Sacconi ha risposto alla questione posta in termini negativi, se si rimane all’interno del mercato come meccanismo o ordinamento fatto di contratti tra singoli e imprese o di relazioni gerarchiche tra imprese. La realtà dell’impresa, al di fuori da rappresentazioni ideali di concorrenza perfetta, presenta situazioni di abuso di autorità e le norme sociali, come comportamenti ripetuti degli agenti in gioco, non svolgono una particolare funzione e non sono esplicite. In un secondo passaggio argomentativo Sacconi ha introdotto uno scenario regolato da norme morali esplicite, da intendersi come codici etici e standard di governo dell’impresa, annunciati e concordati nel dialogo sociale, ed efficaci per via della autoimposizione da parte delle imprese. La possibilità di rispondere positivamente alla domanda su un ordine possibile del mercato viene per Sacconi dalle tre funzioni assolte dalle norme morali esplicite: la funzione normativa come base della responsabilità sociale dell’impresa; la funzione cognitiva, che consente il formarsi di aspettative determinate anche là dove il contesto di conoscenza presenta tratti di incompletezza; la funzione motivazionale, che opera sul meccanismo della reputazione con premi e punizioni endogene e determina preferenze conformiste orientate all’equità. Quest’ultima è alla base di comportamenti (consumo critico, movimenti di cittadini per la responsabilità sociale delle imprese, boicottaggio di certi beni di consumo) che altrimenti non potrebbero essere intesi che come irrazionali e antieconomici. Sacconi ha inteso in definitiva rispondere allo scetticismo di molti teorici e osservatori riguardo l’autoregolazione, senza per questo negare la funzione delle architetture giuridiche, che dal processo di crescita delle norme morali debbono trarre alimento.
Gli scenari di crescita e di squilibrio della fase attuale di globalizzazione sono stati al centro della riflessione di Leonardo Becchetti, nella relazione che ha chiuso i lavori, su La rivoluzione silenziosa della responsabilità sociale: ruolo e impatto dell’economia dal basso nel riequilibrio del rapporto tra solidarietà e conflitto nel mercato. Le dinamiche economiche determinano conflitti e tensioni che attraversano lo stesso soggetto con ruoli diversi: così la concorrenza ci favorisce come consumatori, ma ci penalizza come lavoratori, e d’altra parte i conflitti tra organizzazioni diverse del lavoro nell’economia globalizzata non sono evidentemente risolvibili con un sindacalismo di dimensione nazionale. Gli strumenti per ridurre questa conflittualità e per ridurre con essa anche le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo ci sono: si tratta di far diventare la stessa solidarietà una delle variabili competitive sulle quali si gioca la concorrenza nel mercato, arrivando ad una competizione basata anche sulla solidarietà. Strumenti quali il consumo a favore di imprese socialmente responsabili evidenziano possibilità di incidenza politica altrettanto importanti del voto, anche quando a farne uso siano quote minoritarie di cittadini, e questo perché capaci di influenzare le scelte delle imprese. Becchetti ha ricordato i principali strumenti di un’economia dal basso: il commercio equo e solidale, la finanza etica e la banca etica, le campagne di pressione. Sono strumenti inquadrabili in una visione più articolata dell’equilibrio delle società democratiche, che esalta il ruolo di una cittadinanza partecipe in forma diretta, bilanciando il peso delle imprese e delle istituzioni.
Concludendo la sessione e i lavori dell’intero convegno Zamagni ha posto ai relatori alcune questioni cruciali: c’è il problema di passare da una fiducia particolaristica ad una fiducia generalizzata, l’unica capace di generare risultati positivi, ma anche la più difficile da implementare. Si tratta di pensare strutture capaci di generalizzare la fiducia. Il problema è in definitiva il processo di condivisione delle norme. Sulle analisi delle realtà di fatto, le valutazioni sulla povertà sono viziate dall’impossibilità di monetizzare una percentuale significativa del mercato e quanto al ruolo del consumo responsabile, esso deve fare i conti con il raggiungimento della massa critica, altrimenti si determinano altri tipi di equilibrio. Dalla discussione è emersa la complessità di fenomeni che impongono strumenti di analisi altrettanto complessi. Porre queste questioni, se non a risolvere problemi, può senz’altro contribuire ad una preziosa circolazione di idee.