Convegno – Conflitto e identità. Confini dell’identità – Conflitto delle differenze

Roma, 16 Luglio 2003, ore 19,00
Fondazione Nova Spes – Via Piemonte 127

Omnis determinatio est negatio: se l’identità non è semplicemente data, ma è il risultato di un’attività identificante da cui viene tracciato un confine, allora il conflitto non si aggiunge ad essa come un evento accidentale, ma le inerisce come sua possibilità essenziale. Ogni confine, infatti, per il fatto stesso di separare interno ed esterno, proprio ed estraneo, li mette in relazione e con ciò apre alla possibilità della minaccia e della difesa, rendendo l’identità precaria per definizione. Di qui i tentativi di decostruzione, che hanno caratterizzato tutto il pensiero del Novecento, sia sul versante analitico sia su quello continentale, e hanno estenuato la cartesiana «certezza di sé» fino al punto da revocare in dubbio la possibilità di riferirsi ad una identità personale. Fino a suscitare l’impressione che il concetto stesso di identità fosse ormai obsoleto.
E, tuttavia, l’esplosione di una serie di conflitti etnici, politici, religiosi, che stanno drammaticamente segnando la nostra epoca e che sembrano tutti appellarsi a un’identità da rivendicare a costo della violenza, costringe a riproporre con forza il problema. Nell’atto con cui si pretende di sbarazzarsi frettolosamente dell’identità in favore delle differenze non si nasconde forse il rischio di una riaffermazione di sé, più violenta perché mascherata? Fino a che punto l’«esodo» dall’identità, da più parti teorizzato come condizione di ogni apertura all’altro, è sostenibile sul piano della psicopatologia? Diventare ciò che si è – secondo l’antico adagio – significa forse, tra l’altro, imparare a negoziare i propri confini?


Atti:

Introduzione ai lavori - Vittorio Mathieu

Nell’ambito di un progetto di ricerca sul «conflitto», la questione che è ad oggetto di questa tavola rotonda – il rapporto tra identità, conflitto e confine – è di primaria importanza. In particolare il «confine» della persona appare molto strano, perché tra noi e il mondo esterno c’è un’identità di contenuto: tutto ciò che in noi è anche fuori di noi e tutto ciò che è fuori di noi potenzialmente è anche in noi. Aristotele diceva che l’anima può divenire «in certo senso tutte le cose». Tuttavia la nostra identità è il risultato di un atto e non di una delimitazione dall’esterno o da altro o dal caso. Essa deriva dalla nostra stessa azione, il che implica un certo pericolo di conflitto. Le individualità sono tante: ciascuna per esistere deve attuarsi e identificarsi, e la sua azione non ha un confine predeterminato, ma entra in rapporto con le cose inanimate e soprattutto con altre persone. In questo caso, evidentemente, ci deve essere un’identità completa di «territorio»: non c’è una delimitazione come nelle specie animali perché potenzialmente le persone hanno in comune tutto il territorio.

L’identità come ospitalità: pensare l’identità europea sulle orme di Levinas - Francesca Brezzi
La tematica «conflitto e identità» è di grande rilevanza e complessità: si può dire che essa ci venga da Heidegger e dalla sua riflessione sull’identità e la differenza. Tale complessità richiede una delimitazione e dunque mi occuperò in particolare di un pensatore: Emmanuel Levinas. Non certo di tutto Levinas, ma di alcuni testi fondamentali e concetti chiave. In un secondo momento il problema della relazione tra conflitto e identità dovrà essere portato sul piano più ampio dell’identità europea. Ci sarebbe un terzo passo, che non potrà essere compiuto qui e che consiste nel pensare la differenza come generatrice di giustizia.
Come è noto, Levinas è uno dei pensatori più significativi del Novecento, che si inserisce, come dicevo, sullo sfondo della riflessione avviata da Heidegger e proseguita poi da altri autori (Ricoeur, Derrida, Deleuze). Rispetto soprattutto al cosiddetto decostruzionismo, Levinas è un pensatore più rigoroso, forse, e più complesso. Tenta di rispondere ad interrogativi urgenti: chi sono io? Come pensare l’altro? Come dire l’altro senza sottometterlo all’uno? Come pensare la differenza? Tutti questi interrogativi sono assunti e attraversati da Levinas per tentare una risposta. Una risposta che mette in questione il concetto stesso di identità, ponendo di fronte ai nostri occhi un’identità fragile, smarrita, spezzata. Naturalmente non è possibile ripercorrere tutto il cammino di Levinas. È noto tuttavia come la pubblicazione di Totalità e infinito negli anni ’60 abbia avuto un effetto dirompente su un contesto filosofico che era già impegnato nel pensare queste tematiche. L’opera rappresenta un punto d’arrivo della riflessione precedente di Levinas (le prime opere sono del 1930), ma anche un rinnovato inizio.
Prescindendo dalle note vicende biografiche, possiamo concentrarci su alcuni momenti fondamentali. Da ricordare un numero monografico della Revue de métaphysique et de moral del 1954, tra l’altro tradotto in italiano, in cui sono presenti tre saggi: uno di Marcel, uno di Levinas e uno di Ricoeur. Tutti e tre si concentrano su Il pensiero dell’altro. Tutti e tre assumono come riferimento polemico il primato dell’«io» sostenuto da una ragione universale e tentano di andare verso l’«altro» percorrendo strade concrete che passano attraverso la storia, la sensibilità, la tragicità. Già in questi anni, quello che diventerà il tema esclusivo di Levinas è in chiara evidenza. Come pensare l’altro partendo dall’egocentrismo della tradizione occidentale? Troviamo espressioni molto dure e molto chiare a proposito della ragione impersonale, che sussume in concetti e riduce le differenze individuali, e che proprio perciò può essere caratterizzata come necrologia. Si tratta di affermazioni che sono già molto precise e prefigurano lo sviluppo ulteriore del suo pensiero. Mentre la ragione universale conduce a questa necrologia, l’altro è inesorabilmente irriducibile. All’altro si deve andare senza concetto e dunque non è possibile un’ontologia formale in senso husserliano. Degli stessi anni il saggio L’ontologia è fondamentale?, nel quale viene messa in discussione la tradizione bimillenaria della filosofia dell’unità: filosofia egologica e «panoramica» che si trasforma in filosofia di violenza e sopraffazione. Già qui appare quella connotazione che egli stesso definirà etica. È bene ricordare l’identificazione tra essere, totalità e guerra che è di dolente attualità: nella totalità gli individui obbediscono a forze che li comandano a loro insaputa e traggono dalla totalità il loro senso. L’unicità di ogni presente si sacrifica continuamente al futuro.
Di fronte a questo quadro, che necessariamente ho dovuto presentare in modo monocorde (mentre Levinas ritiene che alcuni pensatori sfuggano a questa tradizione), è necessario operare una rivoluzione di pensiero in favore dell’etica contro l’ontologia. Nel termine etica si manifesta una relazionalità diversa tra i diversi soggetti e tra i soggetti e il mondo. Emergono termini nuovi: accoglienza, ricezione, ospitalità. L’identità consiste in un ricevere che è al di là delle possibilità dell’io e in questo senso Levinas parlerà di passività. Qui si scorge anche una polemica nei confronti della filosofia come maieutica che è ancora, secondo lui, espressione di una coscienza egologica: l’ammaestramento va pensato a partire dall’accoglienza. Il pensare stesso è ricettività. Scopo di Levinas non è solo quello di decostruire il concetto di identità, ma di presentarlo in modo diverso in relazione con l’alterità: per far questo costruisce un ordito complesso. Innanzitutto bisogna scongiurare il pericolo dell’oblio dell’esistente, di cui anche Heidegger è colpevole. Poi bisogna delineare una diversa trama dell’essere: si tratta di un secondo parricidio nei confronti di Parmenide, che è più radicale di quello platonico, perché senza mediazioni. L’essere si produce come multiplo e questa è la sua struttura ultima. È dunque necessario pensare questa diversa trama dell’essere. Non è un caso che il sottotitolo di Totalità e infinito sia: Saggio sull’esteriorità. Esso esprimere l’intento di dare statuto metafisico al molteplice, che nella tradizione filosofica occidentale è sempre stato un ostacolo da superare per raggiungere l’unità. L’alterità è invece struttura dell’identità stessa. Il tempo, il linguaggio e l’intersoggettività indicano questo pluralismo che resiste ad ogni logica che lo voglia totalizzare. Si deve dunque affermare una logica altra in cui si riconosce l’essere come esteriorità.
Questa delineazione di una diversa trama dell’essere è resa possibile dal pensiero di una relazione etica che si opponga all’identificazione. Non si deve rinunciare all’identità, ma procedere verso l’essere nella sua esteriorità assoluta. Qui Levinas ritorna all’antica e nobile tradizione metafisica. Pur avendo negato la priorità dell’ontologia non cade nella fatticità e nell’empirismo, come gli è stato obiettato da alcuni. Naturalmente «metafisica» indica qui un rapporto con l’esteriorità: non si tratta di un assorbimento del finito da parte dell’infinito. La metafisica si attua come «servizio e come ospitalità». Da questo richiamo alla metafisica così intesa derivano le ulteriori caratterizzazioni dell’identità che si afferma in questa relazione etica, che per Levinas è asimmetrica e irreversibile. Non è mai «inserimento in» o «confusione con»: è piuttosto esperienza eteronoma.
Tale relazione etica è un legame tutto particolare, definibile come rispetto, non appropriazione, movimento, non violenza: anche la soggettività, questa identità destrutturata e ricostruita, assume caratteristiche nuove. Le caratteristiche di quell’«umanesimo altro» che non difende il soggetto egoista e solipsista pensato da gran parte della tradizione occidentale, ma il soggetto ospite, responsabile, vulnerabile. Il soggetto «ostaggio» dell’altro: termine che troviamo poi in Altrimenti che essere.
Questa caratterizzazione del soggetto permette anche di precisare l’altro elemento della relazione: l’Altro, a proposito del quale Levinas scrive pagine di grande suggestione, lo Straniero, colui che non è riconducibile ad alcuna categoria della comprensione. Esperienza eteronoma: «esperienza» nel senso radicale dell’accoglimento dell’assolutamente altro; ma anche «movimento». Come è noto Levinas si richiama al mito di Ulisse che narra il ritorno al paese d’origine e gli oppone il mito di Abramo che lascia la propria terra per andare verso una terra sconosciuta.
Posso accennare solo brevemente a ciò che non troviamo in Levinas e che abbiamo il dovere di pensare: si tratta dell’allargamento della riflessione sull’identità, possibile alla luce di questi percorsi e risultati, all’ambito «politico» dell’identità europea. È necessario pensare un’identità plurivoca, plurima: è un argomento di grande rilevanza e di grande urgenza, che ci può consentire di opporci al vento di intolleranza che percorre l’Europa (e non solo) o all’indifferenza di fronte ai conflitti che ci circondano. Si tratta di cercare di superare l’incomprensione di fronte ad un’identità frantumata che mostra cifre di difficoltà nel dialogo con l’altro. La ricostruzione dell’identità non può fermarsi a queste difficoltà. L’identità europea si può dunque costruire proprio intraprendendo la strada della cultura oltre la natura: superando l’identità fondata sulle appartenenze naturali (famiglia, territorio, clan) e riconoscendo quelle appartenenze che uniscono proprio perché sono spogliate della rigidità naturalistica. Valori culturali che possono convivere con la rivendicazione di un’autentica identità.
Costruire un’identità europea vuol dire dunque non appiattirsi sugli aspetti funzionalistici (economia, mercato del lavoro), ma interrogarsi sulla persona, su un nuovo modo di abitare il mondo, sui valori di cui Levinas ci ha parlato: rispetto, valorizzazione delle differenze, responsabilità.
Concludo con una citazione «classica» di Kant (Per la pace perpetua): «Ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero possa appellarsi, ma un diritto di visita che spetta a tutti gli uomini. Il diritto di offrire la loro società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale in quanto sferica gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro».

Levinas, l’identificazione e la polemica. Intermezzo
Vittorio Mathieu

Interessante in particolare l’ultimo accenno alla identità plurima e anche alla cultura che in fondo rappresenta la nostra vera natura. Levinas è particolarmente significativo per il nostro tema perché identifica se stesso, configura il proprio pensiero in polemica contro gran parte della filosofia occidentale. L’alterità gli è necessaria anche per polemizzare come nemico.

L’identità come memoria e come oblio: la ragione e la non ragione dell’Occidente - Alberto Gaston
Sono psichiatra e quindi ho un’ottica osservativa di questo tipo di fenomeni completamente diversa. Come i medici e gli anatomopatologi, noi psichiatri vediamo prima le cose dissociate e poi dalla frattura siamo spinti a ricostruire quella che si chiama normalità. Sono quindi abituato a vedere le cose dal punto di vista della dispersione e del deterioramento: del resto, come è noto, la medicina nasce dall’osservazione della morte e non della vita. È dalla dissezione del cadavere che abbiamo capito come funzionano gli organi. È dunque necessario guardarsi da certe deformazioni pregiudiziali.
Di solito si considera l’identità in quanto elemento della cosiddetta «coscienza dell’io»: è la grande lezione jaspersiana che ci ha abituato a riflettere su come l’io vede e percepisce se stesso. Il concetto dell’identità che è legato alla permanenza dell’io nel tempo diventa fondante. In realtà però vediamo a partire dai fenomeni di derealizzazione o depersonalizzazione, che minacciano l’«io» e lo rendono fragile. Qualcosa colpisce l’io nella sua quotidianità e lo allarma. Di solito si vive pensando che tutte le cose procedano, come diceva Husserl, nel medesimo genere identificativo: quando qualcosa entra nell’ingranaggio qualcos’altro si rompe e scatta una reazione. L’io si infragilisce. Riflettere dal punto di vista opposto per me presenta delle difficoltà.
Si può cominciare con qualche precisazione terminologica: non si conoscono bene le radici etimologiche di identitas o tautotes. Grossolanamente si può distinguere un identico opposto all’altro (ipse) e un identico come oggetto o sensazione di sé che permane nel tempo (idem). Gradi intermedi non ce ne sono. I due termini, idem e ipse, finiscono per dividere il mondo in due parti contrapposte e quasi antitetiche.
Perché l’identità si manifesti, sia come idem che come ipse, è necessario un processo neurofisiologico e cognitivo fondante senza il quale ciò non avviene. È la memoria, intesa come capacità di tenere in noi quello che era prima e quello che sarà all’interno di un nucleo centrale forte: l’io che costruisce nel tempo il ricordo di sé. Ma qual è esattamente la relazione tra memoria e identità?
Da un primo punto di vista si può pensare l’identità come ragione dell’occidente. Nella costruzione dell’occidente in quanto mondo della ragione l’identità ha un ruolo rilevante. Si può ricordare quanto afferma Galimberti, per cui l’identità nasce nell’antica Grecia, cioè quando si cominciò a pensare ad un nucleo permanente che garantisce la coincidenza dell’individuo con se stesso e la differenza da altri individui. Un momento fondamentale è la riflessione di Platone che vede l’anima come ciò che centralizza il corpo. Si potrebbe dire che con Platone l’anima si centralizza, così come nel Settecento europeo tutte le funzioni neurofisiologiche si sono centralizzate nel cervello. Questa centralizzazione lavora per costruire l’identità: Platone parla di una concentrazione dell’anima che si scioglie dal corpo «come da catene» e si raccoglie in se stessa. Qui ha origine l’antica contrapposizione tra anima e corpo. Da questo raccoglimento dell’anima, dalla dispersione alla concentrazione, deriva l’identità personale. L’anima diventa come una fonte dell’identità personale, una base egoica di qualsiasi espressione di quell’individuo che ormai è connotabile in maniera univoca: in altri popoli l’identità dell’individuo era data dalla sola appartenenza al gruppo. Questa anima diventa l’inizio e la fine di ogni responsabilità. Dopo una lunga serie di trasformazioni secolari si arriva ad un concetto forte di individuo che è, per esempio, definibile con le parole di Edith Stein come «persistere vivente del trascorso». Ciò che mi interessa sottolineare è che questa nozione di identità si colloca all’interno dell’edificio del vissuto che chiamiamo «tempo».
La seconda immagine è quella della non ragione dell’occidente. C’è una faccia oscura, che non si vede mai, e che non ha nulla a che fare con la costruzione della ragione. Con le dovute cautele si potrebbe definire «irrazionale». Ci si può appoggiare a Jung che parla di identità come «eguaglianza psicologica». Sembra una follia. Mai due individui sono psicologicamente uguali, proprio per le ragioni messe in evidenza da Platone, per cui per statuto due individui sono differenti. Ciò cui Jung allude è che l’identità è sempre un fenomeno inconscio, perché l’eguaglianza cosciente è quella che si rileva tra due cose uguali fra loro: dunque presuppone una separazione tra soggetto e oggetto. Con il che il fenomeno dell’identità sarebbe annullato. Dunque l’identità psicologica è un fenomeno inconscio, caratteristica di quella mentalità barbarica, rigettata da Platone, per cui l’individuo si annulla nel tutto. Si tratta di una participation mystique (che per altro sembra anticipare la psicologia delle masse), che è caratteristica dello stato mentale della prima infanzia e dell’inconscio. La nozione junghiana è di estremo interesse: l’identità è un’eguaglianza data a priori che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Su questo tipo di identità si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgano gli stessi modelli, che le preferenze estetiche e morali siano condivise.
Si può ora prendere in considerazione il «corpo» come elemento articolante di quanto stiamo dicendo. L’esperienza psichica incarnata nel corpo oscilla tra queste due emiesperienze che messe insieme costituiscono l’esistenza. È straordinario pensare che facciamo una mezza esistenza da svegli e una da dormienti (Binswanger). Ma cos’è per noi l’esperienza del sogno e quella della veglia? Che differenza c’è tra una persona che incontro realmente per strada e una che ho sognato? Dove le colloco, che senso hanno nella mia esistenza? Cartesio si è interrogato a lungo su queste questioni (VI Meditazione metafisica). La sua prospettiva è fortemente incentrata sul soggetto: l’identità è legata a ciò che «io» sento. Il corpo appartiene al soggetto più di ogni altra cosa: non ce se ne può separare. Continuando tuttavia a lavorare su queste questioni, Cartesio, che per certi versi potrebbe esser definito un «ossessivo», incorre in alcuni dubbi: i sensi esterni, ma anche quelli interni, fanno degli errori. Un esempio particolarmente rilevante è quello dell’«arto fantasma». È qui che la domanda diventa «ossessiva»: nulla di ciò che viene sentito durante lo stato di veglia non potrebbe essere sentito allo stesso modo nello stato di sonno. Come distinguere dunque la differente esperienza di un «io», che è identico a se stesso nello stato di veglia, da quella di un «io», forse identico e forse no, nello stato di sogno? Per Cartesio il criterio è quello della «memoria»: i sogni non vengono congiunti nella memoria come tutte le altre azioni della vita, che sono collegate in modo continuo, senza interruzioni.
Possiamo quindi parlare di due dimensioni: una dimensione spazio-temporale, fortemente incarnata nel corpo e tenuta insieme dalla memoria; e poi il lato oscuro che è fuori dal tempo, che è una vera e propria ec-stasi temporale. Non ci interessa sapere dove collocarla, perché sappiamo che c’è. In essa tutti gli oggetti sono uguali e intercambiabili (nel senso dell’identità di cui parlava Jung). Ma si può citare anche Leibniz: identiche sono le cose che possono sostituirsi l’una all’altra salva veritate.
Mentre nella prima dimensione il collante è la memoria, nella seconda il collante potrebbe essere individuato nell’oblio, cioè nella capacità di non ritenere tutto ciò che avviene, ma di tenerlo in una situazione di contemporaneità, in cui il flusso cosciente è inessenziale. Ci si può richiamare alla continua dialettica tra identità e alterità, tra confusione e lucidità, tra congiunzione e separazione, cui pensava Hegel: «tutto ciò che è mostra in lui stesso che nella sua uguaglianza con sé esso è disuguale a sé e nella sua contraddizione è identico con sé». In questo pensiero tutta la problematicità di questa aporia, che sto cercando di esprimere, è fotografata bene.
È come se quando parliamo dell’identità ci trovassimo di fronte a due linee esistenziali progressive: una linea è quella della memoria-continuità-temporalità; un’altra, parallela, che continuamente costruisce e decostruisce la prima, è quella di una successione di disidentità, di distruzione dell’identità: oblio-discontinuità-atemporalità. Si potrebbe avanzare un’ipotesi affascinante: forse le due nostre grandi dimensioni psichiche, quella onirica e quella dell’empatia (in senso fenomenologico), hanno a che fare proprio con questo tipo di dialettica tra continuità e discontinuità. Se prevalesse l’una o l’altra di queste due linee sarebbe un disastro. L’esperienza onirica, in quanto emergenza di una dimensione interna in cui spazio e tempo sono annullati, probabilmente aiuta a ricostruire l’identità quotidiana che durante il giorno in questa superficialità del vissuto oggettivo si disperde. La costruzione del mondo onirico, con le sue valenze emergenti, in qualche modo aiuta a ricostruire il senso interno forte dell’identità all’insegna della discontinuità: qui non c’è nulla di psicoanalitico, perché si tratta di un livello fenomenologico. Durante il giorno, il fenomeno dell’«empatia» (Einfühlung), quale cognizione profonda che non riuscirò mai a sentire il dolore dell’altro come mio dolore, è un elemento di separazione che rinforza la mia identità. Come la notte il sogno, il giorno la mia identità è rinforzata dall’elemento del vissuto empatico.

Tra Cartesio, Spinoza e Leibniz. Intermezzo
Vittorio Mathieu

Da questa relazione densissima può essere tratto solo qualche spunto essenziale. Mi pare che l’elemento più importante sia questa duplicità dell’azione dell’io che da un lato raccoglie attivamente e dall’altro, come memoria consistente in oblio, lavora inconsciamente. Credo si possa dire che la massima parte dell’attività psichica sia inconscia. Innanzitutto mi sembra di poter concludere che il collante della memoria è anteriore (non temporalmente, ma concettualmente) a ciò che viene «incollato». Non c’è prima la dispersione e poi la ricomposizione. In secondo luogo mi pare di poter ricavare che il difetto dell’anima cartesiana è quello di consistere in un pensiero che, secondo la definizione di Cartesio, coincide con la coscienza (anche quando dorme): se cessasse di pensare – cioè di essere cosciente – cesserebbe di esistere. Vi è tuttavia un’anima «leibniziana» in cui l’aspetto notturno è essenziale per non ridurre Leibniz a Spinoza, cioè ad una razionalità in cui l’assoluto coincide con noi stessi. Leibniz, per esempio, definisce la materia come mens momentanea sive carens recordationem: essa differisce da noi perché si disperde e si disperde perché non ha memoria, non ha collante. Ma è chiaro che anche la parola «mens» vien meno: si tratta di un aggregato come un mucchio di pietre. Invece il collante è questo lato notturno essenziale della filosofia di Leibniz, le «piccole percezioni», che credo abbia una lontana ascendenza plotinica più che platonica. È l’anima stessa che tiene insieme il suo corpo che si va disperdendo. Lo forma nel senso che lo tiene insieme.

Identità e riconoscimento: soggetti collettivi e cooperazione sociale - Gianluca Sadun Bordoni

Vorrei spostare il fuoco dell’attenzione. Mi concentrerò soprattutto sull’identità collettiva piuttosto che individuale. C’è una urgenza che determina questo spostamento: se oggi si torna a riflettere insistentemente sul tema dell’identità, questo è dovuta al fatto che ci troviamo di fronte ad una violenta esplosione di conflitti identitari. Naturalmente non è la prima volta che ciò accade nella storia. Forse non è azzardato il paragone con il crollo dell’ancien régime durante la Rivoluzione Francese, quando un intero mondo di ruoli ascrittivi e di identità consolidate si dissolse per lasciar posto ad una serie di violente lotte identitarie che diedero origine alla stagione classica del nazionalismo europeo.
La situazione contemporanea è la conseguenza di almeno tre processi: il crollo del comunismo, che ha fatto riemergere identità represse; il fallimento del processo di decolonizzazione, uno dei cui esiti è lo stesso fondamentalismo islamico; la resistenza al processo di globalizzazione, che evidentemente riattiva bisogni di identità in risposta alle tendenze omologanti: non è un caso l’uso di ossimori come «glocalizzazione» o «fragmintegrazione». Mi soffermerò sui soggetti collettivi perché di fronte a questa esplosione, il pensiero sociale (e secondo me anche la filosofia) si sono trovate radicalmente impreparate. Per esempio le tendenze filosofiche, come Levinas etc., ne sono una testimonianza: è chiaro che alle spalle di Levinas c’è l’esperienza drammatica di quanto significò il richiamo all’identità etnica d’inizio secolo nel nazismo. Tra l’altro Levinas fu uno dei primi filosofi a tentare una comprensione filosofica del nazismo (per esempio nel saggio breve ma formidabile Considerazioni sulla filosofia dell’hitlerismo). E tuttavia la storia ci costringe a riconfrontarci con questa esigenza identitaria che pare profonda.
Sposto l’attenzione su questo anche perché parlando di scienze sociali vorrei soffermarmi sulla tradizione anglosassone: il paradigma largamente dominante, ancora oggi, è infatti di matrice anglosassone ed è la rational choice theory. Vorrei mostrare i limiti di questa visione: questa tendenza scientifica non è in grado di comprendere il processo di formazione e consolidamento dell’identità nel suo nesso inscindibile con la differenza. La proposta che vorrei suggerire è quella di un approccio che, pur senza respingere o liquidare in toto la rational choice theory, la corregge in modo significativo, facendo perno sulla nozione di «riconoscimento» che ha origine nell’idealismo tedesco, in particolare in Fichte ma poi soprattutto in Hegel, e che è stata ripresa e valorizzata da diverse tendenze del pensiero filosofico e sociale contemporaneo.
La teoria della scelta razionale, sviluppatasi nel secondo dopoguerra, ha una lunga storia. Essa rappresenta lo sviluppo di uno dei due grandi rami in cui si divide il pensiero sociale moderno: penso al paradigma dell’homo oeconomicus e a quello dell’homo sociologicus. La teoria della scelta razionale ha evidentemente alle spalle il primo paradigma, che si nutre della tradizione dell’economia classica e neoclassica e che è profondamente affine all’utilitarismo. Quali sono i limiti fondamentali? Conformemente all’approccio economico, l’idea di fondo su cui la teoria della scelta razionale ha sviluppato un progetto egemonico di spiegazione della globalità del comportamento sociale, è l’assunzione del modello dell’individuo consumatore. L’idea di fondo è che la società non esiste: esistono solo gli individui, che agiscono ciascuno nel perseguimento della propria finalità strategica sulla base di un certo ordine di preferenze che si cerca di realizzare commisurando mezzi e fini. La società non è altro che il risultato di queste operazioni strategiche da parte degli individui, ciascuno dei quali persegue il proprio obiettivo. L’idea di fondo è che l’individuo preesista con i suoi fini alla trama delle interazioni sociali: questo è il punto di maggiore debolezza di questo approccio. In questa prospettiva, infatti, non è rilevante interrogarsi su cosa determina la costituzione dell’ordine di preferenze; come se l’individuo fosse in grado di stabilire il senso di sé, di ciò che vuole e desidera, indipendentemente dalle sue relazioni con gli altri. Così compresa, l’interazione sociale è solo un mezzo per raggiungere un fine. La correzione fondamentale che vorrei proporre consiste nel mostrare che questo assunto di base è largamente implausibile.
Se questo è vero la prospettiva cambia in modo radicale: l’interazione sociale non è più mezzo, ma fine. A partire da qui si può riesaminare il problema dell’identità che nella teoria della scelta razionale sparisce. Certo c’è chi ha tentato di distinguere tra razionalità strumentale ed espressiva; distinzione che si richiama, a me pare, a quella weberiana tra «razionalità rispetto allo scopo» (Zweckrationalität) e «razionalità rispetto al valore» (Wertrationalität). Ma questo già rappresenta uno sforamento rispetto agli assunti originari della teoria.
Il secondo problema di tale teoria, anch’esso fondamentale, consiste nello spiegare sulla base dei suoi assunti la cooperazione sociale. La teoria della scelta razionale non fa altro che riproporre la situazione hobbesiana. Hobbes è il capostipite della teoria individualistica dell’ordine sociale e non a caso vi sono originali riletture della sua filosofia alla luce della teoria dei giochi. Il gioco strategico archetipico è il noto dilemma del prigioniero, che rappresenta la situazione in cui si troverebbero gli uomini nello status naturae di Hobbes. L’ipotesi problematica è quella per cui l’ordine, e quindi anche l’identità dei soggetti collettivi, possa costituirsi partendo da una situazione di radicale separazione degli individui, i quali sono contrapposti nel perseguimento di fini egoistici. Proprio il dilemma del prigioniero mette in evidenza la difficoltà strutturale di questo approccio nello spiegare la genesi dell’interazione: la strategia più razionale, dal punto di vista di una teoria della scelta, è infatti la non cooperazione. L’incertezza fa sì che per evitare il risultato peggiore la scelta più razionale è quella di «confessare», in modo da ottenere un profitto medio. Come è possibile allora che su questa base sorga nel mondo la cooperazione sociale? Il problema è lo stesso di Hobbes: per lui la risposta è che la cooperazione è possibile solo attraverso l’istituzione di un potere sovrano che imponga il rispetto di certe regole. Ma tale soluzione ha al suo interno un paradosso: come è possibile che individui non cooperativi cooperino per stabilire queste regole che dovrebbero coordinare la cooperazione? La cooperazione è presupposto o risultato?
La teoria della scelta razionale è dunque adatta e funzionale a spiegare fenomeni come il mercato, etc., ma quando pretende di porsi come teoria egemonica, quando pretende di spiegare non solo il comportamento economico, ma tutto il comportamento sociale dell’uomo, si rivela fallimentare. Questa non è una novità: tutto il pensiero dell’homo sociologicus si costituisce come risposta a questi problemi, da Durkheim a Talcott Parsons: criticano Hobbes sulla base del fatto che è impossibile spiegare l’ordine sociale se non si presuppongono norme e valori condiviso. Ma in molte delle tradizioni sociologiche vi è un altro difetto: l’attenzione prevalente è stata centrata più sulle strutture che sulla soggettività (marxismo, strutturalismo, etc.), come se la soggettività fosse conseguenza secondaria di certe strutture.
È qui che la nozione di «riconoscimento» (Anerkennung) diventa rilevante. L’intenzione di Fichte è quella di spiegare la genesi dell’autocoscienza. Egli rileva come l’interazione sociale sia fondamentale per il costituirsi dell’identità. Hegel riprende questa idea. Soprattutto lo Hegel jenese come ha mostrato bene Kojève. Recentemente si assiste ad una serie di recuperi teorici estremamente interessanti: Honneth (allievo di Habermas), Charles Taylor (esponente del comunitarismo americano), Alessandro Pizzorno (che ha compiuto studi in diretto contrasto con la teoria della scelta razionale). L’idea di fondo è quella di Fichte: se si assume che tra gli individui vi sia solo competizione e antagonismo originario, si fallisce completamente la comprensione del vero nocciolo dell’esperienza sociale. La realtà è che per determinare noi stessi abbiamo bisogno di riconoscere l’azione degli altri e che le nostre azioni siano dagli altri riconosciute. Indipendentemente da questo nessuno è in grado di determinare se stesso, ciò che è o vuole.
L’identificazione accade dunque attraverso una serie di processi di riconoscimento. Ogni nostra azione viene sanzionata positivamente o negativamente dagli altri e attraverso questa esperienza impariamo a identificare noi stessi. Ma il riscontro è necessario.
Naturalmente ciò ha valore solo sé gli altri sono da noi riconosciuti come dotati di significato o di valore. Non ci interessa il riconoscimento da parte di coloro cui non ammettiamo nessun significato. È qui che diventa decisivo il costituirsi di «cerchie di riconoscimento» sufficientemente omogenee per poter garantire che il processo sia condotto a buon fine: è qui che avviene il passaggio dall’identità individuale a quella collettiva. Naturalmente, nel caso più specifico dei soggetti collettivi è poi necessario che questo processo sia stabilizzato, istituzionalizzato. Diventano dunque fondamentali quei ruoli sociali, o confini nazionali, che determinano un’identità collettiva marcata per differenza rispetto a qualcun altro. Uno dei caratteri fondamentali della dinamica del riconoscimento è che essa è legata in modo inscindibile ad una certa distinzione, ad una certa differenza (come un’onorificenza, che non avrebbe significato se fosse concessa a tutti). La cittadinanza, per esempio, data a tutti non è sufficiente come esperienza di identificazione: per questo sorge quell’accentuazione delle differenze tipiche del nazionalismo.
Questo significa che c’è una duplicità di piani, mancare la quale è letale per qualunque approccio all’esperienza sociale: c’è un piano dell’intesa e un piano del conflitto; e questi due piani sono irriducibili. Tutte le teorie che accentuano in modo unilaterale l’azione strategica o il momento della cooperazione e conciliazione mancano il bersaglio. La dinamica del riconoscimento, così come fu pensata da Hegel, ci aiuta: spiega la ricerca dell’eguaglianza (il piano dell’intesa) e il piano del conflitto (la posizione stessa di quest’identità si alimenta del senso delle differenze). Per questo Hegel parlava di lotta per il riconoscimento, che poi pensava nella forma estremizzata della lotta che ha come posta la vita o la morte. C’è un’analogia con il concetto di guerra in Clausewitz: egli parla della guerra assoluta (che ha come scopo l’annientamento dell’avversario), che poi però nella realtà viene ridotta al perseguimento di fini più limitati.
È chiaro che anche nel momento del conflitto, che è irriducibile e coesiste strutturalmente col momento dell’intesa, è necessario che il riconoscimento dell’altro come contendente sia mantenuto. Il conflitto, anche radicale, deve mantenere quel senso originario dell’eguaglianza, della reciprocità, del diritto originario all’esistenza, che andrebbe conservato anche nel momento del conflitto, affinché il conflitto sia simmetrico. Nel caso della lotta asimmetrica (secondo Kojève) la lotta non ha più un senso antropogeno. Similmente Schmitt diceva che quando il nemico non è riconosciuto, si esula dal politico e si scivola lungo il crinale della guerra asimmetrica e dell’assassinio. Naturalmente poi le diagnosi di Schmitt e di Kojève sono antitetiche: il primo ha indicato uno scenario di guerra civile globale, che probabilmente è più realistico della conciliazione preconizzata dal secondo. La prospettiva di Schmitt si realizza quando viene meno la cornice che è stata offerta dal diritto moderno, in grado di regolare il conflitto, per esempio il conflitto internazionale. Questa è la grande prestazione del diritto pubblico europeo, dalla pace di Westfalia fino alla prima guerra mondiale: garantire una cornice giuridica al conflitto. Il vero problema con cui ci dobbiamo misurare è il venir meno di una cornice in grado di garantire il piano di intesa e di possibile pacificazione al conflitto.
Da tutto queste deriva un certo scetticismo personale nei confronti di certe tendenze irenistiche o cosmopolitiche. Breve battuta finale: Francesca Brezzi parlava di identità europea, ma questa si è sempre definita per opposizione a qualcun altro sin dall’antichità classica. L’Europa era la terra della libertà, l’Asia del dispotismo.

La perdita del Volksgeist. Intermezzo

L’integrazione che ci è stata proposta è fondamentale: durante il periodo romantico sarebbe stato normalissimo parlare di Volksgeist, cioè di un’attività identificante collettiva, oggi non è più altrettanto ovvia. La conclusione cui è arrivato Sadun Bordoni è il nostro problema, la regolamentazione del diritto naturale come ius belli ac pacis. Per quanto riguarda il punto il partenza non so se la teoria delle scelte razionali sia tuttora à la page, anche nell’ambiente anglosassone. Vedo emergere studi su scelte che anzi vengono fatte «all’oscuro». Credo che ci sia l’influsso di un’esportazione della scuola austriaca in campo anglosassone: tale scuola congiunge effettivamente l’homo oeconomicus con quello sociologicus.

Dibattito

La critica novecentesca all’identità: tentativo irenistico o proposta teorica?
Daniela Iannotta

Evidentemente l’ultimo intervento è stato «provocatorio» soprattutto per i filosofi. È chiaro che il discorso filosofico del secolo appena trascorso è stato vivace, problematico, inquieto. Da una parte c’erano motivi di ordine sociologico, ma vi erano motivi di ordine teoretico. Effettivamente la scelta metodologica del cogito cartesiano confluiva nelle scienze e la filosofia doveva ridefinirsi. Ma in che modo? Ridiscutendo la nozione di identità a livello teoretico. A parte i maestri del sospetto, come diceva Ricoeur, c’era questa necessità di rivedere l’impossibile concettualizzazione totale dell’identità stessa: in questione era la sostanza rispetto alla sostanza. È vero che c’è stato il momento di decostruzione, di cui una certa scolastica si è appropriata arrivando agli eccessi propri di tutte le scolastiche. D’altra parte c’è un pensare all’ontologia in termini etici proprio a partire dall’identità. Ricoeur, per esempio, nel mettere in discussione la soggettività, nel rilevare la tautologia della soggettività cartesiana, ha proposto di ripensare il soggetto a partire dalle sue produzioni. Considerare il «sé» in quanto «altro» significa capire questa costituzione relazionale dell’identità. È chiaro che c’è un recupero della problematica dell’identità, solo che tale recupero non può prescindere da questo rapporto costitutivo dell’identità all’altro. Dal punto di vista europeo ecco possibili tre proposte che non sono affatto irenistiche (Ricoeur dà molto valore al dibattimento di parole per risolvere il conflitto): modello della traduzione, ossia favorire le traduzioni come conoscenza reciproca; modello dello scambio delle memorie, che diventa particolarmente interessante proprio dove i conflitti sono stati violenti; modello del perdono, che aiuta a riscrivere la memoria stessa non per modificarla ma per riscriverne il senso. Ho difficoltà a considerare tutto questo irenistico, perché lo considero un impegno etico molto difficile. Ma è un dovere dell’intellettuale.

Risposta
Gianluca Sadun Bordoni

Sono in gran parte d’accordo. Il modello di pensiero di cui mi sono servito è di tipo relazionale: non a caso parlo di un insieme di «riconoscimenti». Per quanto riguarda l’altro punto: certo, gli obiettivi sono senza dubbio condivisibili. Mi resta però il dubbio che dietro alcune di queste intenzioni ci sia la speranza di poter ridurre interamente l’altro a sé. Se l’altro è lasciato nella sua irriducibile alterità, allora si deve esser pronti ed attrezzati alla possibilità che tra queste culture sorgano dei conflitti e che quindi la costruzione di questa cornice che regolamenti e attutisca il conflitto non contenga regole che non sono accettabili da tutti. Se si introducono concetti o nozioni propri solo di una cultura si attiva un conflitto. Non a caso proponevo un recupero dello Hegel jenese, prima quindi che accaddesse la cristallizzazione del concetto nel sistema. La trama di riconoscimenti non è ancora funzionalizzata ad un processo che ha come asse portante un soggetto monologico.

Dal pensiero alla politica, dalla politica all’educazione
Stefania Fuscagni

Sono stata abituata a pensare che sono le idee che fanno maturare degli avvenimenti storico-politici. Prendo un esempio di fatto politico: l’allargamento dell’Unione. Mi sembra che disegni un percorso anomalo rispetto a quello che ci si attenderebbe. C’è un non senso rispetto all’homo oeconomicus. Mi pare quindi che ci sia un’intuizione determinata da un fatto che è squisitamente politico e che esiste un retroterra sparso di idee, che va ricostruito secondo una logica che è educativa, che si compone in un’azione educativa rispetto a coloro che poco capiscono degli avvenimenti politici e meno ancora delle ragioni degli intellettuali. È possibile che ci possa essere un filone da un’intuizione-decisione politica ad una concretizzazione fatta da esseri inconsapevoli come i giovani di oggi?

L’alterità nell’identità: il problema dell’Europa
Francesca Brezzi

In questa domanda si avverte l’angoscia del docente di fronte alle nuove generazioni che rappresentano per noi l’«altro». Per esempio si possono vedere le tematiche di «genere» di cui mi occupo a partire da questa prospettiva. Il problema può essere ovviato non limitandosi ad una riflessione astratta, ma scendendo sul piano della relazionalità etica. Credo che sia possibile trovare questo equilibrio tra conflitti che, certo, non si potranno mai annullare. Ma è necessario riassestare continuamente i nostri modelli nei confronti delle situazioni che nascono, delle nuove generazioni, etc. Questo è un compito concreto che nasce solo sulla base di una decostruzione dell’identità. Proprio perché l’abbiamo accettata possiamo di volta in volta riequilibrare i nostri schemi mentali e le forme di universalismo cui ci agganciavamo una volta. Il problema è che l’identità europea ha al suo interno l’alterità. Poi, certo, viene l’alterità dell’altro, ma è un altro problema. Chi siamo noi europei? È qui che è necessario il riassestamento. Del resto è il «riequilibrio» di cui parlano Balibar o Amartya Sen. Oggi viene premiato questo filone dell’economia, che è quello di Honneth, etc. Però non si possono dare indicazioni definitive.

 


Partecipanti: Francesca BREZZI, Alberto GASTON, Gianluca SADUN BORDONI

Moderatore: Vittorio MATHIEU

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