Carmelo Vigna – SULLA CONVENIENZA DELLA “RAGIONE PUBBLICA” PER UNA BIOETICA “DEMOCRATICA”

Una amichevole interlocuzione con Francesco D’Agostino Lo scorso 21 settembre venne pubblicato su “Europa” un manifesto con il titolo Una ragione pubblica per la bioetica. I firmatari (parte di area laica e parte di area cattolica) si rivolgevano al nascente Partito democratico, ma poi anche ad altre forze politiche. Volevano contribuire alla costruzione di un dialogo tra le due culture d’origine nelle delicate e complesse questioni legate alla vita umana. Ma non sembra che il Partito democratico si sia troppo incuriosito (non dico occupato) dell’iniziativa. La mente dei suoi esponenti era evidentemente versata in altro. E’ stato soprattutto il quotidiano “Avvenire” ad avvertire l’importanza della cosa e ha subito affidato a Francesco D’Agostino un giudizio di merito. Francesco D’Agostino ha prima allineato (27 settembre) una serie di riserve (“Che si tratti di buone intenzioni, non c’è dubbio; se a tali buone intenzioni possono seguire davvero fatti congruenti è però un’altra questione. Per quel che mi concerne sono piuttosto scettico”: così cominciava.). Io ebbi subito dopo a replicare – come uno dei firmatari – alle ragioni di questo “scetticismo”. La mia “lettera  aperta” a D’Agostino venne pubblicata su “Avvenire” l’11 di ottobre, preceduta (!) da una replica di D’Agostino, in cui

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Danilo Breschi – BEN PRIMA DELLA GUERRA FREDDA, BEN DOPO L’11 SETTEMBRE: USA-EUROPA, AMICI-NEMICI

Lo studio delle relazioni internazionali rischia sovente di cadere nel profetismo, sia esso di segno negativo, quando non apocalittico, oppure di segno positivo, se non iperottimistico. In ogni caso, l’analisi geopolitica scivola con troppa facilità nel grande racconto teleologico e totalizzante ogni volta si intenda tracciare scenari che abbraccino ampie sfere del pianeta, se non il globo intero. Sugli Stati Uniti l’esercizio profetico si ripete con cadenza regolare. Raramente un simile esercizio è stato effettuato in chiave ottimistica, e sostanzialmente il periodo in cui questo è fortunosamente avvenuto è da circoscrivere ai primi anni Novanta, ossia all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Si pensi a certe pagine della celebre opera di Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), il quale non era comunque privo di preoccupazioni circa il futuro, oppure al quasi coevo Alfredo G.A. Valladão, e alla sua perentoria affermazione secondo cui Il XXI secolo sarà americano (1993). Assai più frequente il ricorso alla profezia apocalittica, o almeno all’annuncio dell’avvento di tempi cupi, di epoche di decadenza. Ed ecco allora che si parla in modo implicito di Ascesa e declino delle grandi potenze (Paul Kennedy, 1988) oppure, più esplicitamente, di Fine dell’era americana (Charles A. Kupchan,

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Francesco D’Agostino – L’INTERLOCUZIONE CONTINUA…

Amici nella verità, nemici nell’opinione, soleva dire Lévinas. Penso che questa –che è più che una battuta- possa applicarsi ai miei amichevolissimi rapporti con Carmelo Vigna. Al quale mi lega, oltre che un affetto personale profondo (il che dovrebbe essere di ben poco interesse per chi mi legge) un’ammirazione teoretica sincera (che sento il dovere di proclamare pubblicamente). Sta di fatto, però, che inoltrandosi per gli impervi sentieri di quella che egli chiama una bioetica democratica Vigna mi sembra che corra il rischio di perdersi. Se questi sentieri siano o no simili agli heideggeriani Holzwege saranno altri a giudicarlo. A me preme soltanto –e già so che a questo punto Vigna comincerà a ritenere che i miei toni stiano tornando ad essere troppo “perentori”- aiutarlo a ritrovare la “retta via”, quella che si sostanzia sì in un sincero impegno per la bioetica, ma per una bioetica priva di aggettivi: né di destra, né di sinistra, né cattolica, né laica, né autoritaria né (soprattutto!) “democratica” (in quanto affidata ad un “Partito democratico”). Questa bioetica, senza aggettivi, è quella che ho sempre cercato di fare; una bioetica che non parte da “principi inflessibili” (credo di non aver mai fatto riferimento nelle mie

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Vittorio Emanuele Parsi – PAURA E LIBERTÀ

(estratto da Paradoxa 1/2008) 1. La paura rende liberi La paura dell’uomo rispetto all’incertezza e all’insicurezza cui sono sottoposte le sue relazioni sociali è comunemente considerata la causa ultima del rapporto di obbligazione politica. Dal momento che l’uomo non può vivere un’esistenza “robinsoniana”, e poiché invece la possibilità di soddisfare i propri bisogni individuali dipende anche dalla collaborazione degli altri, la conformità dei comportamenti altrui rispetto a quanto ognuno desidera è requisito determinante per il conseguimento degli interessi individuali. In sostanza, dovendo l’uomo ricorrere a continui scambi con i suoi simili per procacciarsi le risorse necessarie a realizzare i suoi scopi, il successo è sempre esposto a un duplice rischio. In primo luogo non deve mai essere esclusa la possibilità che le ragioni di scambio possano variare, o che coloro con i quali ci siamo accordati per effettuare la transazione decidano improvvisamente di ritirarsi o di chiedere un prezzo spropositato e comunque diverso da quanto in precedenza pattuito. È il rischio dell’incertezza, cioè della situazione che sfida la sacralità del contratto, espresso nella massima pacta sunt servanda. Esiste poi un altro tipo di eventualità, ovvero quello di vedere la propria incolumità personale e il possesso dei propri beni esposti alla

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Massimo Leone – SEGNALI DI PAURA: FEAR IS THE MESSAGE

(estratto da Paradoxa 1/2008) 1. LA COMUNICAZIONE DEL RISCHIO COME OGGETTO DI UNA SEMIOTICA DELLA CULTURA. La comunicazione del rischio, la percezione del pericolo e la diffusione della paura sono fenomeni che, sempre più intrecciati nelle società globalizzate, spesso s’influenzano reciprocamente producendo effetti paradossali. Tali distorsioni possono essere analizzate da diversi punti di vista, ma è inevitabile che la riflessione s’imbatta, presto o tardi, in questioni che richiedono una competenza specifica nell’ambito dello studio dei linguaggi, dei sistemi di significazione e di comunicazione, delle loro interazioni e del modo in cui essi si articolano in relazione ai diversi contesti culturali. È evidente che la comunicazione del rischio sia oggetto di pertinenza di una semiotica della cultura; il modo in cui un individuo, un gruppo o un’istituzione segmenta il campo semantico della probabilità e dell’improbabilità degli eventi, li connota secondo una scala più o meno sfumata di pericolosità, costruisce attorno ad essi una serie di discorsi relativi alle loro cause probabili, alla loro descrizione, ai loro effetti possibili, ma soprattutto il modo in cui tali eventi diventano oggetto di un meta-linguaggio della prevenzione, indirizzato a un certo pubblico con determinati effetti persuasivi rispetto agli atteggiamenti da assumere, le precauzioni da prendere,

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Michael Cox – FROM THE COLD WAR TO THE WAR ON TERROR OR WHY THE TRANSATLANTIC RELATIONSHIP MAY NOT BE INEVITABLE

Introduction In a brilliant and original study on the state of the western alliance written in the early years of the 21st century (see Parsi 2005), Vittorio Parsi advanced the  unfashionable thesis against critics of the Alliance that however much the unity of the West may have been tested by the Bush administration’s decision to go to war against Iraq in 2003, in the end what united  Europeans and Americans would always trump that which divided them. A combination of shared values, overriding security needs, the logic of globalization, and last but not least,  European dependency on the United States in an international system that was bound to remain unipolar, effectively meant that the two were bound together for the foreseeable future. The ocean dividing the two might have seemed wide. Separation however was not an option. Nor according to Parsi was it in anybody’s interest for this to happen. Indeed, as he noted in an aside, it was high time for certain core groups to recognize that neither continent could flourish without the other’s support. Nor of course could the world as a whole. As he pointed out, friendship between Europe and the United States was just not an

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Ugo Morelli – HOMO SAPIENS DI FRONTE ALLA PRIMA OPPORTUNITÀ

HOMO SAPIENS DI FRONTE ALLA PRIMA OPPORTUNITÀ. PROBLEMI GLOBALI E CONTROVERSI.  «Ho scoperto che la terra è fragile, e il mare leggero: ho imparato che lingua e metafora non bastano più a dare un luogo al luogo» [Mahmud Darwish] «La spinta a diventare onnipotentemente liberi dal conflitto ci mette nel pericolo di diventare causa della nostra estinzione» [H. F. Searles] 0. La forma dello stormo o del branco e la forma dell’umano. Considerando i movimenti di massa degli uccelli e dei pesci e analizzando come fanno i banchi di pesci o gli stormi di uccelli a cambiare rapidamente forma, si fanno importanti scoperte, non solo sul comportamento di quegli animali, ma anche sull’articolazione delle possibilità distintive del comportamento umano. Comportamenti massivi simili a quelli degli stormi o dei banchi sono a volte presenti anche nell’esperienza della specie umana? Pare proprio di sì, e a renderli possibili sembra essere una regressione o sospensione provvisoria delle nostre caratteristiche distintive specie specifiche. Secondo le ricerche sui pesci e sugli uccelli, i cambiamenti di forma dei banchi e degli stormi sono indotti da una propagazione «a valanga» dei segnali di comunicazione tra i singoli individui. Le emozioni massive sembrano generare qualcosa di simile nell’esperienza

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Stefano Zamagni – LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELL’IMPRESA COME FENOMENO EMERGENTE

1. Introduzione Nel presente contributo mi occuperò di tre questioni specifiche, tra loro interrelate anche se concettualmente distinte. La prima concerne la distinzione, affatto chiara sul piano dei principi ma non altrettanto su quello della prassi, tra responsabilità sociale dell’impresa (RSI) e filantropia di impresa. La seconda questione è bene resa dal seguente interrogativo: RSI e competitività sono obiettivi tra loro compatibili; come a dire, l’esercizio della RSI, nelle condizioni storiche attuali, è una pratica economicamente sostenibile? Da ultimo, volgerò l’attenzione ad alcune delle più diffuse critiche che vengono rivolte alla RSI per metterne a nudo l’inconsistenza del loro fondamento teorico. Una considerazione di carattere generale prima di procedere. Non da oggi si dibatte sul punto se l’impresa debba avere obblighi di natura sociale, e non solo legale, nei confronti della società in cui opera. Non è dunque corretto affermare – come talvolta accade di leggere –  che il tema della RSI costituisce una res nova dell’attuale fase storica contrassegnata da quel fenomeno di portata veramente epocale che è la globalizzazione. Fin dall’Umanesimo civile – il 15° secolo è il periodo in cui nasce e si diffonde la moderna economia di mercato – si sa che l’impresa sorge come impegno

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Laura Paoletti – LOST IN TRANSLATION

(editoriale di Paradoxa 1/2007) Paradoxa ritiene che un pubblico a cui rivolgersi esista. Pensa, in particolare, a coloro che fondano la propria identità su ben sviluppate certezze, e tuttavia convivono volentieri con la portata delle proprie domande. Paradoxa, dunque, si propone di affacciare l’uno all’altro temi e posizioni capaci – anche solo per “differenza”- di segnalare i nodi paradossali che un dibattito, aspro o con-ciliatorio che sia, rischia di lasciar passare inosservati. Nozioni e valori, si sa, si costellano in ciascuno a proprio modo, secondo differenti ammaestramenti e vissuti. Appartenenze e culture si confrontano e si connettono erraticamente, disperse in una rete di vuoti. Che le discipline, accentuando via via un processo di introversione, non colmano. L’enciclopedia di ciascuno, i valori che ne guidano le scelte, contengono termini umanamente affini; ma ben diversi sono l’ordine e la gerarchia. Tanto che oggi, nello sforzo di intendersi, e in quello di puntualizzare i dissensi fino a conseguenze estreme, ciò che va “perduto nella traduzione” può darsi che rappresenti appunto l’essenziale. E che contribuisca a formare la trama dei conflitti più sterili, dove la ragione dell’uno non definisce il torto dell’altro; dove argomenti anche vistosamente contrapposti nella prospettiva piatta di un eterno presente,

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Vittorio Mathieu – CONFLITTO E IDENTITÀ

1. In campo strettamente filosofico il rapporto tra identità e conflitto s’inarca  tra due classici  su cui molto si è scritto: il frammento 2 di Anassimandro e  l’inizio della figura dialettica signoria-schiavitù nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Nel primo testo l’identità naturale è presentata come un prevaricare degli enti gli uni sugli altri, per cui le cose “rendono l’una all’altra il fio dell’ingiustizia, secondo l’ordine  del tempo”. Nel secondo testo l’identità delle persone singole si afferma con  metterle in gioco  l’una contro l’altra in un “combattimento per la vita e per la morte”: finchè il perdente, sentendo nell’incombere della morte l’ “immane potenza del negativo” , non si dà schiavo, trasferendo la propria identità in quella del vincitore. In questo modo ha inizio la vita sociale. Quasi due secoli dopo la Fenomenologia dello spirito  possiamo riprendere il discorso dal punto in cui la tradizione l’aveva lasciato, e cioè dall’identità della persona umana. Questa è qualcosa di diverso da una identità puramente naturale, nel senso che va affermata, rivendicata, sviluppata dalla persona stessa, se si vuole che dalla potenza passi all’atto. Tale affermazione avviene nella vita sociale, in rapporto ad altre persone che affermano la propria identità nello stesso modo:

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